16 Gennaio 2018

“A Terrible Beauty is Born”: elegia per Dolores O’Riordan, una donna troppo piccola per una voce così grande

…è un miracolo che abbia superato i 27. Ovvero: dell’oscura consapevolezza di non potercela fare

Certe persone morendo, con l’ultimo graffio dato al tempo nel tentativo disperato di aggrapparvisi, trascinano con sé un’epoca. Dolores O’Riordan ha portato via il suo pezzo dei ’90, come prima di lei aveva fatto Chris Cornell. Anni rispetto ai quali, se interrogati in merito, viene da rispondere semplicemente “non importa”, come quando si vorrebbe allontanare da sé un imbarazzante ricordo di gioventù. Non echeggiare il titolo del famoso album dei Nirvana sarebbe impossibile. Sintetizza in una parola (almeno in inglese), Nevermind, lo spirito dei tempi, il disinteresse assoluto, la fine dell’altruismo come dell’ebbrezza individualistica. Anche il sano egoismo è morto allora. Anni in cui ci si stava appena abituando all’illusione degli ’80, sperando che quello potesse essere il futuro. Ma la crisi era dietro l’angolo, si stava creando la giustificazione morale per balzarci addosso. No, era assolutamente certo che Dolores O’Riordan sarebbe morta presto. È già un miracolo che sia andata oltre i fatidici ventisette. Il fatto è che dagli anni ’90 non si può trovare scampo. Viverli è stato come affrontare l’esistenzialismo, ma in una versione sterile, prima di riflessività e propulsione positiva. Il nostro era abbandono. Non poteva seguirvi alcun impegno. Potevano nascere solo futuri morti e suicidi. “Sono libera di decidere”, cantava lei con i Cranberries, e, quasi cercando di convincersene, aggiungeva: “e in fondo non propriamente suicida, dopo tutto”. Ciò che si respira nelle liriche dell’artista è l’oscura consapevolezza di non potercela fare. Non è razionale, è un sentire che passa attraverso il sangue (All’improvviso mi è successo qualcosa/ Mentre stavo sorseggiando la mia tazza di te/ All’improvviso mi sono sentita depressa/ Ero completamente e totalmente depressa/ Lo sai che mi hai fatto piangere/ Lo sai che mi hai fatto morire). C’è un’aria di ineluttabilità, ma senza amor fati. Il destino soppianta, travolge, annichilisce. Non lo si affronta eroicamente, come per esempio avviene nella Quinta di Beethoven. È un crollo: “La persona che sta cadendo qui sono io”. Dolores forse non lo comprendeva neppure. Lei percepiva. Proprio come l’animale avverte il pericolo, o fiuta il sangue. Quest’epoca presuppone la sua fine. Ce l’ha già annunciata più volte. Lei aveva raccolto quel fosco messaggio. Cosa sarebbe altrimenti quel grido disperato che lancia nel ritornello di I Can’t Be With You (Non posso stare con te)? La ripetizione è ossessiva, angosciante, da levare il fiato. Eppure è lei stessa che alla fine dice “Still in love with you (Sono ancora innamorata di te)”. Ma non si può, non è permesso. Ed è una forza inesorabile quella che impone, con crudeltà, che la distanza resti incolmabile.

Seppur in una forma molto meno raffinata sul piano intellettuale – ma non sentimentale – la cantante sperimenta su di sé l’avvento della fine, il nichilismo tante volte annunciato e che, in ultimo, è giunto. Basterebbe leggere quanto scritto da Nietzsche in La Gaia Scienza, al momento in cui si proclama la morte di Dio: “Non è il nostro un eterno precipitare? E all’indietro, di fianco, in avanti, da tutti i lati? Esiste ancora un alto e un basso? Non stiamo forse vagando come attraverso un infinito nulla? Non alita su di noi lo spazio vuoto? Non si è fatto più freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?”. Per chi sa vedere, penetrare la dinamicità caotica dell’agitarsi quotidiano, è tutto chiaro… quanto orrendamente insopportabile.

Certo in Dolores O’Riordan vi è anche una sensibilità particolarmente viva per la colpa che ogni uomo porta su di sé e che è magnificamente sintetizzata dai versi della Tempest di Let Them Eat Chaos: “La tragedia e la sofferenza/ di una persona che non hai mai incontrato/ è presente nei tuoi incubi,/ nell’attrazione che provi verso la disperazione”. La storia si è conclusa nel solo modo in cui poteva finire, come già si sapeva. La morte è giunta dopo lunga consuetudine e assidua frequentazione. Proprio come nella nota poesia di Cardarelli: “da lontano annunciati/ e da amica mi prendi/ come l’estrema delle mie abitudini”.

Matteo Fais

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Venne una ragazza intinta nell’oro a turbare con gli zombie la nostra adolescenza…

Un giorno venne una ragazza intinta nell’oro a turbare la nostra adolescenza. A terrible beauty is born. La ragazza aveva 23 anni, veniva da Limerick, che in irlandese significa ‘palude deserta’, dove hanno passeggiato San Patrizio, il re vichingo Tomrair mac Alichi e Oliver Cromwell e per tradizione ci si mena su un campo da rugby; veniva dagli acquitrini deserti, si chiamava Dolores e conficcò legioni di zombie nella nostra adolescenza. A terrible beauty is born.

no need to argue
1994: No Need to Argue, l’album di una generazione

Era il 1994 e in un altro emisfero Roberto Baggio, quando l’Italia i Mondiali li giocava, si faceva chiamare ‘il divin codino’, e in questa parte di mondo Silvio Berlusconi, pigliando la palla al balzo, si inventa Forza Italia. Era il 1994 e dalle viscere dell’Irlanda Dolores tira fuori No Need to Argue, album di corrosiva compassione, che da una via ai turbamenti di una generazione senza padri né paladini, senza timore né futuro. Tra canzoni di devastante bellezza – Ode to My Family, Twenty One, Empty, Daffodil Lament – sbuca l’urlo, che sbreccia le radio, che sbraccia, Zombie. A terrible beauty is born. Dolores canta gli zombie che ci fracassano il cranio (“In your head, in your head/ Zombie, zombie, zombie”), l’eterna identità irlandese in guerra. It’s the same old theme/ Since nineteen-sixteen: è sempre la stessa storia dal 1916. Pasqua 1916. L’Irlanda in armi si ribella al tallone d’Albione, vuole l’indipendenza dal Regno Unito. Cinque giorni di guerra. 254 morti. Più di 2mila feriti. 16 condannati a morte dal governo inglese. A terrible beauty is born. Così canta William Butler Yeats, il poeta irlandese, nella poesia epica e intima Easter 1916, che risuona nelle urla di Dolores. “Ogni cosa è mutata, mutata interamente/ Una terribile bellezza è nata”. Di Dolores O’Riordan, questa piccola ragazza intinta nell’oro, come se fosse il ciglio di Dio, l’unghia laccata di Iside, ho amato alla follia una cosa. Una cosa indimenticabile. Una cosa che mi tortura, oggi, come miliardi di zombie che si sgranocchiano il mio cuore. Più aumentava la fama – esponenzialmente, drammaticamente – più Dolores diventava piccola. Si rimpiccioliva. Come se volesse sparire. Diventava un filo di rosa nei suoi abiti sempre più grande. Sempre più piccola. Il corpo che sembra corrodersi sotto l’ustione della voce. La voce sempre più potente, il corpo sempre più piccolo. La voce come un fiume che rode e rosicchia i limiti della carne. Dolores che diventa puro fiato chiuso in un pugno. A terrible beauty is born. Che terribile bellezza. Una voce che ti consuma la vita. “A noi non resta che mormorarne i nomi/ come una madre nomina il bambino/ quando infine il sonno si è posato/ su quelle membra che hanno corso selvagge”. Questo è Yeats. Quasi una epigrafe sul corpo di Dolores. Non sapranno dove seppellirla, come misurarla, che tomba prefabbricare. Il corpo di Dolores è estinto sotto lo scalpello della sua voce. A terrible beauty is born.

Davide Brullo

Gruppo MAGOG