16 Gennaio 2023

“Ruoto intorno a Dio, da millenni”. Teofanie: viaggio tra Elémire Zolla, Rilke, Heidegger

L’uno, l’assoluto, l’inconcepibile a dare il soffio: l’Essere prima d’essere, che si concreta emanando il reale, per immaginazione d’amore. Poi si retrae, pur nell’infinito permanere, e dà spazio e custodia al proprio concreto sé. Ma impercepibile, celato.

L’ente, così abbandonato in esistenza, sospinto a immedicabile orfanità, fa del nucleo inesaudito un motore primo di ricerca, a percorrere le vie al sacro, per presumerlo con brama, per affermarlo di desiderio: tenta, con ogni filosofia e religione, con ogni metafisica, di evocare le proprie radici, che lo fermino in qualche punto della realtà da questo penoso, inane gravitare senza meta.

Tuttavia, l’enigma è sostanziale al sacro stesso, in quanto eterno perpetuarsi del vero, e la inafferrabilità concettuale che ne consegue rende inabile ogni filosofia. Tranne quella «perenne», che secondo Elémire Zolla è definibile Tradizione: convergenza di indagine e attitudine al mistero, che attraversa la storia dalle antiche forme gnostiche e cosmologiche, fino alle più moderne acquisizioni scientifico-speculative, come «trasmissione dell’idea dell’essere nella sua perfezione massima», che presuppone una «gerarchia tra gli esseri relativi e storici fondata sul loro grado di distanza da quel punto o unità». Tale Tradizione

«è talvolta trasmessa non da uomo a uomo, bensì dall’alto; è una teofania. Essa si concreta in una serie di mezzi: sacramenti, simboli, riti, definizioni discorsive il cui fine è di sviluppare nell’uomo quella parte o facoltà o potenza o vocazione che si voglia dire, la quale [lo] pone in contatto [col] massimo di essere che gli sia consentito, ponendo in cima alla sua costituzione corporea o psichica lo spirito o intuizione intellettuale».

(Elémire Zolla, Che cos’è la tradizione, Adelphi, 1998)

Come l’ente si protende all’essere, così l’essere è sospinto all’ente: nella continua doglia del nascondersi e del rivelarsi fonda il proprio rapporto d’amore con il cosmo, l’universo multiforme e mobile che lo riflette ed esprime.

In Heidegger, pur essendo la metafisica alienazione e oblio dell’essere – di cui il filosofo vuole recuperare immanenza e natura chiaroscurale – nondimeno un principio unificatore persiste, soprasensibile e corale, che si storicizza in materia ed eventi, facendosi «epoca», punto determinato: l’ente è l’esserci che spilla l’istante nella successione dei tempi, e fa manifestazione singola, inessenziale ma imprescindibile, di una comune essenza.

L’essere, come entità potenziale sottesa a tutto il creato, comunica sé stesso all’uomo in infinità e splendore, e l’uomo fa del linguaggio, e ancor più della parola poetica, il luogo privilegiato in cui può rivolgersi ad esso – all’assoluto – rispondendogli. Il linguaggio è il gesto, non pienamente consapevole, con cui l’animale prediletto alza lo sguardo, risale il crinale della propria corporeità verso il supremo che, pensandolo, lo ha generato. Scosceso giogo del frazionamento in dispersione, dell’essere uno che si fa molteplice, dell’assoluto che va al relativo, la cui risalita è un alternarsi di sforzo e dono, di meditazione e rivelazione, di invocazione e profilo di luce, dove i pochissimi eletti alla mistica assistono talora all’istantaneo coincidere tra essenza e verità, in estasi unitiva.

Il vero è primario attributo dell’essere, e il linguaggio è l’attributo dell’uomo che tenta di rifondarsi in pensiero, tracciando una via: sia essa laboratorio di accoglienza, opificio del dire poetico e simbolico, ulteriore alla ragione limitante: libero di percezione sterminata, che prescinde da ogni fisico consenso.

Rainer Maria Rilke del suo Libro d’ore fa opera emblematica in questo, è poeta che percorre con ferma intenzione la propria spiritualità:

«Vivo la vita in cerchi che si moltiplicano
e sopra le cose si tendono.
Non potrò forse completare l’ultimo,
ma voglio tentare.

Ruoto intorno a Dio, torre antichissima,
ruoto da millenni;
e non so ancora se falco, bufera
o un lungo canto sono».

Zolla già prima dello scadere del secolo scorso esprimeva nostalgia per la dismissione progressiva di quella Tradizione o «filosofia perenne» che dell’umano è casa e custodia: la natura profonda del sentire il sacro, che crede oltre l’inquadramento dell’atto di devozione in un singolo ambito culturale. Secondo Elémire quantità in eccesso di ogni produzione, svilente uguaglianza tra gli individui e incessante attivismo sono le tre pestilenze che, nell’epoca contemporanea, sottraggono l’uomo alla sua natura contemplativa, mentre la cornice di ogni ipotesi percettiva è il silenzio interiore.

A tal proposito, la «vita illuminativa» in contemplazione, secondo Cecile J. Bruyère (La vita spirituale e l’orazione, Rusconi 1976) si pone tra la purificazione di sé in preghiera e la carità, passo finale di superamento di ogni dicotomia e avversione, amore perfetto nell’unità che conduce alla completa beatitudine, in comunione con l’assoluto; impossibile accedere al varco contemplativo prescindendo dallo svuotamento di sé, dalla rinuncia di ogni concupiscenza. Ancora Rilke:

«Dio, non temere. Dicono: mio
a tutte le cose che sono pazienti.
Simili a vento, che sfiora i rami
e dice: l’albero è mio.

Quasi non si accorgono di come brucia
tutto quel che la loro mano afferra –
neanche il bordo riescono a tenere
senza scottarsi».

Se la mistica è lo stato naturale dell’uomo, e la presenza dello spirito il suo pane di speranza, è pur vero che anche la trascendenza, con sforzo immaginativo, si possa supporre bisognosa della sua creatura. Rilke:

«E tu, Dio, che farai se muoio?
Io sono la tua brocca (e se mi infrango?)
Sono la tua bevanda (e se mi guasto?)
Sono la tua veste e la tua arte:
perdendo me perdi il tuo senso.

Dopo di me non hai più casa, dove
parole intime e calde ti accolgono.
Dai tuoi piedi stanchi cadono
i morbidi sandali che io sono».

In questo reciproco cercarsi, ecco che il principio creatore ha donato all’uomo il suono articolato in parola, grazia e labirintica dannazione, mezzo per delineare il pensiero, strumento di ogni lealtà e di ogni inganno, unica rischiosa possibilità di risalire ai significati ultimi, per poi fermarsi e raccogliere le membra al salto, avendo fede nell’invisibile.

La coscienza in ogni concezione del sacro trascende la materia e ne dispone, pur inconsapevolmente: perché si trova al di sopra, oltre. Così, in zolliano sincretismo, si può ricordare come alcuni fisici, tra cui Stephen Hawking e, più recentemente, Amit Goswami, abbiano immaginato l’istante in cui tutto si è generato come il precipitare di una funzione d’onda, di una ipotesi quantica, per osservazione. Lo sguardo di una immensa coscienza anteriore precipita e collassa l’asserzione ondulatoria rendendola materia, affidandola al tempo. La coscienza preesiste e assiste, degradando l’energia a esistenza, facendone figura viva, guasta d’incanto, malata di sensuale meraviglia e interminata, struggente metamorfosi.

Fritjof Capra nel Tao della fisica mette in evidenza quanto sia difficile una perentoria cesura tra materia corpuscolare e ondulatoria: l’impercettibile per dimensione scivola in onda e vibrazione, la massa nei suoi recessi infinitesimi approda a rive di energia presso le quali affonda e dissolve in spirito, senza arresti o soluzioni di continuità. La «rete della vita» compone un unico grande organismo molteplice e sintonico, dove balugina, anche negli assunti scientifici, il volto spirituale del creato.

Secondo la mistica ebraica di Yitzchak Luria (Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 2008) il primo atto di creazione è stato occultamento, contrazione: Tzimtzùm in cui Dio limita sé stesso, arretra, dando spazio e possibilità al reale, pervadendolo nel segreto, senza palesarsi né negarsi, ma illuminandolo di recondita presenza. Già Eraclito: «Esiste una sola sapienza: riconoscere l’intelligenza che governa tutte le cose attraverso tutte le cose» (41 Diels-Kranz), ma anche: «La natura delle cose ama celarsi» (123 Diels-Kranz). A ben guardare, le stesse intuizioni pervadono la storia dell’umanità, in un sussurro sapienziale assordante di pacatezza e coerenza fino allo sgomento.

Il sincretismo zolliano può risultare stucchevole a chi aderisce pienamente a una confessione, in pieno e confidente rigore. Ma è bene sapere, prima di scegliere la propria fiaba d’amore, che molte sono le analogie tra i più antichi sistemi filosofici, anche orientali, e le confessioni religiose monoteistiche dell’occidente. Sconcertanti, in alcuni passaggi, le sintonie tra il Cantico Spirituale di San Giovanni della Croce e il Tao Te Ching: il sapere che non sa, ma si solleva in intuizione ed estasi; la progressiva archiviazione dei sensi, fino allo svuotamento di percezione fisica, all’assenza di suono e colore; il non agire che include ogni azione e favorisce la contemplazione purissima del vero.

L’attuale società, in direzione inversa, tenta l’annullamento della creatura senziente illudendola di poter esprimere ed esperire tutto, mantenendola in perenne distrazione, in frastornata orizzontalità. L’uomo è nato verticale, ha sete di assoluto e ha i mezzi per ospitarlo in sé, facendosene nido: la mistica, intesa come intimità soprarazionale col mistero, è la vera casa interiore dell’uomo; il materialismo il suo chiassoso e sofferente esilio.

Quanto alla poesia, l’Essere sembra voler lasciare tracce di sé nel linguaggio che viene all’uomo libero in spirito: negli etimi, nelle onomatopee, negli incantesimi sonori e semantici; e si dona, pur celato, infliggendo all’esistenza un continuo anelito interpretativo, facendone pura ermeneutica.

È anche così che l’assoluto va incontro all’uomo: ponendogli davanti l’enigma del cosmo, e armandolo del gesto artistico, poetico, figurativo o meditativo che sia: riti capaci di sfiorare la verità occulta che gli è sorella, di sillabare con estasiato spavento ciò che non si può pienamente palesare, con lo stesso idioma dell’Essere. Heidegger:

«Forse ci è possibile preparare in qualche misura il mutamento del linguaggio. Forse è possibile che questo ci appaia: ogni meditante pensare è un poetare, ogni poetare è un pensare. Pensiero e poesia si coappartengono grazie a quel dire, che ha già votato sé stesso al Non-detto, perché è il pensiero come atto di ringraziamento».

In assenza di una numinosità palese e consolatoria, la parola autentica – arcana e sonora, col suo palpito – è linfa che pervade il mondo e lo riaccende, rendendolo dimora poetica ancora possibile.

Pensiero che si raccoglie in memoria, holderliniana Mnemosyne, reminiscenza che è raccoglimento del rimanere accanto, in devozione e gratitudine, preghiera. D’altronde, l’emissione di suono è goccia di spirito effusa nell’etere, mantra che vibra intimamente il segreto: tantrica liberazione dal legame, ascesa dal caos, esonero dal confuso, levitazione alla trasparenza: coscienza priva di oggetto, trascendenza.

Heidegger fonda nell’etimo la prossimità spirituale tra l’atto del pensare (denken) e quello del ringraziare (danken): la meditazione che nasce nella quiete non può che essere preghiera grata e recondita esperienza dell’Essere: la poesia che ne deriva è orazione, accorata supplica o salmo di lode, veicolo del «dire originario».

Poesia e pensiero, pur percorrendo vie differenti, hanno come telaio il linguaggio, utensile dell’essere e sua liturgia:

«L’Essere nel pensiero viene al linguaggio. Il linguaggio è la casa dell’Essere, e nella dimora di esso abita l’uomo. Il pensatore e il poeta sono i custodi di questa dimora, e il loro custodire è il portare la rivelazione dell’Essere, in quanto essi la portano col loro dire, e al linguaggio l’assicurano».

Il poeta che abbia vocazione per l’inesprimibile fonda il dire nel lungo silenzio, consegnandosi alla «docile calma del libero ascoltare», e pratica il lasciar essere le cose, affidandosi agli enti con passività che diviene operosa, nel momento in cui tenta di mediarne la manifestazione con le parole: tronco cavo, cassa risonante che esiste (ex-sistere), ma esercita l’astrazione e il trascendimento del sapersi ente, per risalire le vie dell’Essere, mediante verità parcellari e provvisorie ospitate nel proprio canto.

Ancora Rilke:

«Su ogni cosa veglia
la gentilezza di un volo,
su ogni pietra e ogni germoglio
e di notte su ogni neonato.
Solo noi, superbi, spezzati
i legami, ci spingiamo nel vuoto
della libertà invece di tendere in alto
come un albero, assecondando
forze intelligenti.
Invece di allinearci silenziosi e pronti
in più ampi solchi,
ci uniamo a caso –
e chi da
questa cerchia resta escluso
è indicibilmente solo.

Deve allora imparare dalle cose,
come un bambino cominciare dall’inizio,
perché le cose che a Dio stavano a cuore
non si sono allontanate da lui.
Per prima cosa deve
saper di nuovo cadere,
abbandonarsi paziente al suo peso
chi ebbe l’ardire di superare
tutti gli uccelli nel volo».

La poesia pulsa così di rivelazione e nascondimento, in un travaglio di incontro tra creatura e suo principio primo che è inesauribile schermaglia d’amore.

Elémire Zolla mise in guardia da un’indifferenza verso il sacro che non poteva che perdere l’essere umano, tenendolo avvinto agli umani consorzi – spesso imperfetti e caduchi, guasti delle nostre imperfezioni – e lontano da quelle altezze dov’è conservato il significato creaturale, rifondata la sintonia col proprio simile, e più profondamente radicata ogni lealtà, perché officiata da comune essenza e genitorialità.

Quello che appare chiaro, nell’epoca moderna, è una difficoltà a mettersi in risonanza e ascolto con i segnali che il sopramondo, dimora dell’invisibile che tutto riunisce e giustifica, ci invia nel creato. Rilke:

«Non perdere, Dio, il tuo equilibrio.
Anche chi ti ama e riconosce il tuo volto
nel buio, mentre oscilla come fiamma
nel tuo respiro – non ti possiede.
E se uno nella notte ti cattura,
e devi entrare nella sua preghiera:
sei l’ospite
che poi va via».

Soffocata l’attitudine meditativa che ha accompagnato l’uomo fin dai suoi albori, un materialismo strettamente finalizzato serra l’orizzonte, e preclude il senso. Ciò che l’Essere vorrebbe esprimere nell’ente è silenziato da aridità spocchiose, razionalismi malati di catalogazione e controllo; un presunto lineare progresso compulsa l’ossessione del mettere a frutto, svilisce e umilia le cose.

Tale atteggiamento mortifica ogni arte, e fa parodia della bellezza autentica; offusca il sacro che, come tenue fiamma, continua ad ardere, labile e inascoltato, in ogni petto che si concameri a recesso dello spirito.

Eppure il senza perché della rosa, come in Silesius (Angelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico, Edizioni Paoline 1989), la grazia che non chiede d’essere ammirata né di radicarsi, permane oltre tutti i fini. L’Essere si apre nello splendore, così brevemente si rivela, poi subito si nasconde.

Sia dunque, il poeta che sa e riesce, libero e cavo; si renda privo di utilità e finalizzazioni, e abiti il silenzio risonante del mistico: come San Giovanni nel Cantico Spirituale, come Lao-Tzu nel percorrere la via del Tao: la pratica del vuoto contemplativo, eckhartiano abbandono, steiniana empatia col divino, intimo dialogo con la propria essenza sottile, che è principio generatore continuo, voce accanto; ascoltando l’oltre nell’assenza che custodisce, nel mutismo che rivela. La via del sapere-non sapere, della trasparente accoglienza, diceva San Giovanni, riceve un «abisso di notizie da Dio»: «musica silente» della contemplazione, «solitudine sonora» che annuncia senza dire.

Ancora una volta, i due poli si cercano in quel volersi intensamente che è l’un l’altro aprirsi e farsi riparo, rendersi possibili: nei Racconti di un Pellegrino russo è la Preghiera del Nome a chiamare Dio, renderlo presente, dargli voce:

«Non lui prega la Preghiera, ma dalla Preghiera è pregato, non lui ne vive ma ne è vissuto, non il suo cuore scandisce le divine parole ma ne è divinamente scandito».

dall’introduzione di Cristina Campo, Bompiani, 2014

Pregare senza intermissione (1 Ts 5, 17); nel segreto (Mt 6, 5-9); in intimità e comunione con Gesù (Gv 15, 4-8); nella pace del cuore (Fil 4, 6-9); chiedendo in dono la fede (Lc 17, 5-6). È il nostro pregare che ricrea Dio, incessantemente.

Pure, al di sopra di qualsiasi identificazione confessionale, si sono avvicendati nella storia umana grandi ambiti di pensiero strenuamente metafisici, ai quali idealmente afferiscono, per pura affinità, filosofi, scienziati, mistici, padri spirituali, letterati, poeti. Anche se tra loro apparentemente distanti per epoca o premesse culturali, molti di tali pensatori hanno percorso vie vicine.

Láthe biósas diceva Epicuro, vivi nascostamente: quando l’andamento della società allontana la persona dalle sue esigenze vere, e la più becera libertà di espressione immerge il singolo in uno strepito continuo, quando certe vuote promiscuità sostituiscono l’essere vicini, allora è il momento di fermarsi. Lasciare che la poesia si sollevi piano, rara e poca, dal silenzio. Sempre Rilke:

«La mia vita non è quest’ora in salita
dove in affanno mi vedi.
Sono un albero davanti al proprio sfondo,
una sola delle mie molte bocche,
quella che per prima tace.

Sono la pausa fra due suoni
che solo a fatica trovano l’accordo,
perché il suono morte è dominante –

Ma nel buio intervallo si incontrano
nella stessa vibrazione.
E il canto resta bello».

A chi contrappone l’egoismo della solitudine e del raccoglimento a certe presunte, associative fratellanze, basti l’esempio di Cristina Campo: aristocratica sublime, anacoreta in spirito, che spese la sua vita donandosi: nel costante servizio morale e materiale, agli infermi, ai randagi, ai senza-lingua, nel riserbo più severo e supremo.

L’assurda congettura: che non sia quel poco di sacro che ancora riusciamo a percepire, in noi e nel mondo, il punto archimedico esterno del raro barlume: il bene vero tra esseri umani. Mantenere in vita l’ipotesi fino a che non è interamente confutata, è, in fondo, l’atteggiamento scientifico più corretto.

*

Opere consultate:

Rainer Maria Rilke, Il Libro d’ore (1905), in Dalla misura delle stelle, a cura di Giusi Drago, Ponte alle Grazie 2019

Elémire Zolla, Che cos’è la tradizione, Adelphi, 1998

Cecile J. Bruyère, La vita spirituale e l’orazione, traduzione di Lorenzo Fenoglio, Rusconi 1976

Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Traduzione di Guido Russo, Introduzione a cura di Giulio Busi, Einaudi 2008

Giovanni della Croce, Cantico Spirituale, traduzione e cura di Stefano Arduini, Città Nuova Editrice 2019

Lao-Tzu, Il libro della virtù e della via (Te-Tao-Ching secondo il manoscritto di Ma-Wang-Tui) a cura di Lionello Lanciotti, SE 1993

Fritjof Capra, Il Tao della fisica, traduzione di Giovanni Salio, Adelphi 2014

Martin Heidegger, In cammino verso il linguaggio, a cura di Alberto Caracciolo, Ugo Mursia Editore 2014

Martin Heidegger, Lettera sull’umanismo, a cura di Franco Volpi, Adelphi 1995

Angelus Silesius, Il Pellegrino Cherubico, 289; III, 72. A cura di Giovanna Fozzer e Marco Vannini, Edizioni Paoline 1989

Racconti di un pellegrino russo, introduzione di Cristina Campo (testo citato), traduzione di Milli Martinelli, Bompiani 2014

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