La vita è breve e i capolavori che meriterebbero di essere letti e riletti sono infiniti.
Sarebbe, questa banale considerazione, il motivo dirimente per non leggere i contemporanei, se non i pochi di valore certo o di qualche rilevanza (non necessariamente estetica) per l’epoca che ci è data in sorte.
Io per decenni mi sono nutrito in modo forsennato di poesia, in particolare di poesia contemporanea italiana. Mi sono ritrovato a leggere migliaia di raccolte anche di valore infimo, riconoscendo però l’autenticità del tentativo, la passione del gesto, la spinta di un’intuizione che non ha trovato la giusta forma per svilupparsi. E poi, quella necessità di ascolto e di confronto da parte di scrittori quasi sempre sconosciuti, non era in fondo anche la mia? Perché, dunque, non dare credito a quella richiesta di attenzione?
Altri scrittori mi hanno fatto notare il tempo sprecato su libri che non meritavano; anzi, che “non esistono”, mi ha chiarito qualcuno. Ma la situazione è addirittura peggiore: io non solo li ho letti, ma a tutti gli autori ho sempre dato un riscontro. Se positivo, con recensioni e segnalazioni, quando potevo; se negativo, per via personale. Sempre mi sono impegnato a spiegare il mio punto di vista e ad argomentare il giudizio, senza pretesa di aver capito e valutato correttamente, ma con l’intenzione di offrire qualche spunto, nei limiti delle mie competenze.
Tutto ciò non mi dà particolari crediti in ambito letterario; anzi, posso confermare che sarebbe stato un investimento migliore dedicarmi ad altro. Ma la vita spesso decide al posto tuo. Comunque, è arrivato per me il momento di sottrarmi a questa missione autoimposta e non sacrificare ulteriormente la mia personale ricerca espressiva e le relative letture scelte. Mi conosco: so che continuerò a leggere qualsiasi cosa mi verrà proposta, ma quantomeno smetterò di scrivere un riscontro, di tentare dialoghi impossibili, di sopportare malintesi e repliche piccate, di giustificare giudizi negativi e di patire vari altri effetti collaterali che lascio all’immaginazione del lettore. Chi davvero desidera confrontarsi con me, potrà farlo attraverso i miei libri e gli interventi sparsi qua e là sul web.
Questo preambolo fastidiosamente personale, di cui chiedo venia, mi è utile solo per innescare una riflessione importante.
L’idea che ci si debba dedicare unicamente ai capolavori, ovvero si debba frequentare soltanto il canone, non è solo un’utopia, ma è anche un’idea malsana. Peraltro, il canone è un cantiere sempre aperto. Anche monumenti che parrebbero immortali finiscono per subire l’erosione del tempo o improvvisi e catastrofici mutamenti di prospettiva. Ma, in ogni caso, leggere libri brutti non è sempre solo un incidente di percorso. Intanto, l’apprendimento e l’elaborazione del gusto passa attraverso l’esperienza e il confronto. Sarà capitato a molti, spero, di doversi ricredere su un libro, o un’opera, o un fatto della vita. E anche ciò che continua a rimanere “brutto” può rivelare un senso, non solo per contrasto. Esistono per esempio libri mediocri che racchiudono comunque un’intenzione “giusta”. Misurarsi con il fallimento, non con atteggiamento sprezzante ma addirittura con empatia, è un esercizio utile, oltre che per la cura della nostra stessa umanità, per accedere ai segreti dell’arte. Proviamo a sfogliare la presunta bruttezza; magari scopriremo ciò che non aderisce alla spinta originaria, ciò che la tradisce. Proviamo a cogliere l’ingrediente che l’ha intossicata, lo slittamento verso la vanità, il punto di rottura dell’equilibrio, l’abbaglio fatale. Allora anche ciò che è brutto risulterà imperfetto, inadeguato, umano, vivo. C’è perfino un nucleo di bellezza in ciò che consideriamo brutto, se solo affiniamo lo sguardo.
Così, quando si critica, quando si combattono con empatia e rispetto i “brutti libri”, lo si fa riconoscendo loro un diritto di esistenza. Si attesta il loro significato, pur rimproverando loro una promessa tradita. Ecco dunque l’alto servizio che una critica onesta compie verso l’autore. Una recensione negativa non è più una valutazione piovuta dall’alto di una cattedra, ma il rimprovero di un amico che pretende che l’altro sia, né più né meno, la versione migliore di sé. Questa è la parte sana della combustione letteraria, del perenne combattimento di voci, correnti, poetiche, generazioni. È alla luce di questo principio che è normale e persino doveroso, anziché fare spallucce e trincerarsi in una pigra saggezza (o una furba omertà), odiare certi libri e certi autori: perché non si odia mai la persona, ma il ruolo assunto nel campo letterario, il totem che si è accettato di diventare, nel bene e nel male. Il problema è non cedere allo stereotipo, al gusto del pettegolezzo, al feticcio che diventa un facile bersaglio, nella perdurante illusione che nulla ci renda tanto amici quanto l’identificazione di un nemico comune.
Tra l’altro, uno che sa scrivere bene, sicuramente saprà anche scrivere male. Si giudichi un autore dalle vette raggiunte, senza per questo disconoscerne le zone d’ombra, le fasi di passaggio, gli errori di percorso, magari clamorosi.
Dunque, la letteratura non si nutre solo di capolavori. Esistono opere infelici anche nel repertorio dei migliori classici. Ed esistono anche gli autori minori. E persino i minori fra i minori. Noi elaboriamo poemi per gli eroi, celebriamo i generali, e ci dimentichiamo troppo spesso dei soldati. Ma l’humus di un’epoca, il terreno più o meno fertile in cui mette radici il capolavoro, è formato anche da queste opere misconosciute. E anche di questo terreno occorre avere cura.
Anni fa ho avuto modo di pubblicare libri che sceglievo per lo più tra esordienti. Non baratterei quell’esperienza con la direzione di una collana fra le più prestigiose. Un’opera matura è, agli occhi dei più, perfetta, un confine su cui andiamo a sbattere, costretti poi ad alzare lo sguardo per coglierne la grandezza. Di fronte a tale meraviglia, non ci resta che l’ammirazione, che ci farà ammutolire almeno per un po’, ci umilierà nella nostra pretesa di raggiungere un’analoga compiutezza, mentre successivamente, si spera, ci regalerà la convinzione che tentare l’impresa non è un atto vano e di mera vanità. Un’opera ancora imperfetta, eppur già bella, è invece un passaggio fertile, uno snodo ricco di potenzialità. Un orizzonte. Certe imperfezioni non risultano fastidiose, non corrompono il progetto, anzi, lo confermano, come placenta e sangue a benedire la vita.
All’ombra dei grandi monumenti è piacevole sostare. Insediarsi in una cifra e coltivarla è redditizio, almeno a breve termine. Auguriamoci però che si tratti solo di una sosta. Dietro al capolavoro si è già alzata l’onda anomala. Per scovare un valico tra le montagne e trovare il luogo adatto per innalzare la nostra opera, occorre seguire un sentiero, calpestare la polvere. Amarla e respirarla.
Ci si confronta con i capolavori perché vogliamo essere spezzati. Si deve invece rispetto alle opere imperfette perché nella sconfitta si nasconde il segreto della futura vittoria, se abbiamo il talento e la grazia di riconoscerlo.
Andrea Temporelli
*In copertina: John Augustus, “Whyndam Lewis”, National Gallery of Victoria, Melbourne