Pressapochismo e indifferenza. Sono due virus che dilaniano informazione, informatori, informati. Il pressapochismo è quello di tanta stampa patria, di troppa informazione televisiva nazionalpopolare. Si parla senza sapere di cosa si sta parlando. Esempio. I flussi migratori. Troppi stranieri che ci tolgono il lavoro, dicono alcuni. Macchè. Pochi poveracci che sono una risorsa, dicono altri. Baloccando con i numeri – cioè, con le vite – a seconda di come il partito comanda. Poi, c’è l’indifferenza. Il popolo, la gente, noi. Irritati se ci toccano la bolletta del gas, menefreghisti se c’è gente che ci muore addosso ogni giorno. Silenziosamente e con tenacia, però, c’è gente che lavora. Da decenni. Sanando le ferite del mondo. Informando. Cospe sta per Cooperazione per lo Sviluppo dei Paesi Emergenti, nasce nel 1983, la sede centrale è a Firenze, quella storica a Bologna, altri spazi sono a Bolzano, Padova, Genova, Pesaro. Soprattutto, però, Cospe è in giro per il mondo. 18 sedi all’estero, e progetti in ogni angolo del globo. Progetti, si badi. Cospe non lavora sull’emergenza – quella che va in tivù – ma sul progetto, sulla vita. In particolare, alla voce “le tre sfide del cambiamento”, sfogliando il Bilancio sociale 2016 – quello economico parla di un sistema da 7 milioni e 257mila euro, sovvenzionato per lo più da Unione Europea e Ministero degli Affari Esteri – si lavora su “Conversione ecologica”, “Equità di genere e democrazia” – cioè, diritti per le donne in luoghi dove le donne sono private dei diritti minimi – e “Diritti di cittadinanza” – s’intenda, “allargare gli spazi di libertà di rifugiati, profughi, richiedenti asilo, migranti, minoranze etniche e di tutte le vittime di discriminazioni multiple”. Quelli di Cospe, in sintesi, mettono la mano nell’ulcera del pianeta, vanno – e sono – là dove nemmeno chi dovrebbe – l’informazione patria – c’è, dove nessuno vuole andare. A questo punto, ci siamo fatti raccontare l’altra faccia del mondo, quella che non si vede nei tiggì della sera, da Anna Meli, esperta di media e di diritti di cittadinanza, che di Cospe Onlus è responsabile della comunicazione.
Intanto. Come nasce Cospe, in che contesto, con quale progettualità?
“COSPE nasce nel 1983 dalla passione civile di una donna, Luciana Sassatelli, esperta di economia dello sviluppo che cresce a Bologna ma poi si trasferisce a Firenze per studiare e insieme ad amici decide di fondare un’associazione professionale che si dedichi a quello che allora veniva definito Terzo Mondo e che lei e gli amici fondatori vollero invece chiamare ‘paesi emergenti’. Era il periodo storico in cui si nutriva davvero una speranza di uscire dalla spirale di povertà e dalle disuguaglianze tra Nord e Sud del mondo. L’idea ispiratrice è sempre stata quella di agire a fianco delle associazioni e delle comunità locali africane, dell’America latina e asiatiche sostenendo i loro sforzi per rendersi autonomi economicamente e socialmente con un’ottica di sviluppo sostenibile e duraturo”.
Come si sostiene Cospe? Ho visto, dai Bilanci, che la maggior parte del sostegno giunge da Europa e Ministero: in quale misura? In sostanza, i donatori ‘privati’ e il 5×1000 sono una parte estremamente minoritaria del bilancio economico: come mai, a vostro avviso?
“COSPE opera realizzando progetti in più di 20 paesi del mondo attraverso i fondi della cooperazione dell’Unione Europea e del Ministero degli Affari Esteri oltre che altri finanziatori internazionali. Ad oggi i fondi privati rappresentano il 12% del budget dell’associazione e questi sono fondi dati da singole persone ma anche da fondazioni e aziende con le quali collaboriamo. L’associazione è impegnata nella diversificazione delle fonti di finanziamento e contiamo molto in partnership durature e significative con altre fondazioni e aziende, che condividono il nostro codice etico e i nostri valori. Ci stiamo anche impegnando per allargare la nostra base di donatori individuali anche se non operando nelle emergenze diventa sempre più difficile catturare l’attenzione del grande pubblico”.
Alla domanda precedente ne lego un’altra. Come riuscite a comunicare e a vincere una certa freddezza dell’opinione pubblica verso storie di emigrazione e di emarginazione? Mi pare che il ‘pubblico’ sia assuefatto, ormai, al male, alla guerra (che tanto è lontana), alla povertà e al dolore e all’illegalità (che sono sempre in un ‘altro mondo’).
“Comunicare e informare su ciò che accade nei paesi in cui operiamo è una sfida enorme ma per me – che sono giornalista e direttrice del dipartimento comunicazione dell’associazione – una sfida appassionante e quotidiana. Ad ottobre del 2017 COSPE ha presentato ‘Illuminare le Periferie’, un’indagine svolta in collaborazione con l’Osservatorio di Pavia, la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e USIGRAI sugli esteri dimenticati dai TG.
Il racconto degli esteri nei tg italiani racconta una realtà del mondo molto limitata geograficamente e che più o meno volutamente oscura temi chiave per una comprensione minima di fenomeni quali la migrazione e il terrorismo, per non parlare delle cause delle disuguaglianze e dei conflitti. Molti media in Italia – e forse non solo – ricostruiscono un’immagine del mondo ‘altro’ da quello italiano e ‘occidentale’ dove carestie, catastrofi naturali, fughe e migrazioni capitano ciclicamente in modo ineluttabile. Cause politiche o ambientali che siano, ormai poco cambia. Ciò che appare è una situazione apparentemente inscalfibile del mondo dove l’unica cosa che cambia sono le zone di confine e di scontro che si illuminano in modo discontinuo e parziale. Sulle migrazioni, per esempio, oggi l’informazione si concentra molto sui luoghi di transito senza riuscire a intercettare il prima e il dopo, i luoghi di origine e le storie e i percorsi di arrivo, anche sui conflitti e il terrorismo il racconto risulta frammentato. Da questa costruzione e ricostruzione mediatica del mondo i cittadini italiani si sentono minacciati: oltre al terrorismo è la globalizzazione il fattore di maggiore preoccupazione secondo i dati dell’istituto Demos sulla sicurezza in Italia. Ecco, COSPE onlus si propone di lavorare a fianco dell’informazione italiana per allargare lo sguardo a ciò che accade nel mondo anche lontano, sulle interdipendenze economiche, politiche e sociali e per un pluralismo culturale oltre che informativo”.
Vedo che la vostra azione è diffusa un po’ in tutto il mondo. L’anno scorso in quali aree, in particolare, si è concentrato il vostro sforzo economico e fisico? Perché?
“L’azione di COSPE onlus è, come ho detto, non emergenziale. Ci sono aree del mondo quindi in cui operiamo da molti anni, come ad esempio nel Sahel, in Niger, Mali e Senegal siamo da molti anni a fianco della Piattaforma dei contadini, una rete di migliaia di piccoli coltivatori che provano a resistere sia ai cambiamenti climatici, tutelando territori e saperi locali, sia agli espropri delle multinazionali. Con il fenomeno del land grabbing, accaparramento di terre, queste acquistano grandi appezzamenti per colture intensive o altri usi industriali a discapito dell’agricoltura familiare che invece è tuttora fonte di sostentamento fondamentale per certe aree del mondo. Il 32% dei nostri fondi va in Africa dove la nostra azione si concentra prevalentemente sul diritto alla terra e al cibo sano per tutti, con un’attenzione particolare alla componente femminile delle società e dei produttori. In molti paesi africani e non solo le donne sono coltivatrici sapienti e garantiscono una buona gestione familiare ma non hanno il diritto di possedere i terreni che coltivano da anni. In Angola, in Swaziland e Mozambico stiamo sostenendo associazioni di donne che vogliono essere protagoniste del loro futuro a partire dal riconoscimento dei loro diritti”.
Uno dei vostri temi prioritari, in assoluto, è la lotta alla violenza contro il ‘femminile’. In particolare, come declinate questa intenzione?
“COSPE è da sempre a fianco delle donne ovunque nel mondo perché riteniamo che il livello di sviluppo e democraticità di un paese dipenda fortemente dal livello della condizione femminile. In alcuni paesi, come in Tunisia, Egitto, Marocco e Albania lavoriamo a fianco di associazioni di donne che si sono conquistate spazi anche fisici per realizzare dei centri donna, dove incontrarsi, uscire dall’isolamento delle mura domestiche e anche dove avviare piccole imprese che le consentono di rendersi autonome anche economicamente. In altri paesi, come l’Afghanistan insieme ad alcune avvocate afgane straordinarie sosteniamo delle case rifugio per donne vittime di violenza, affiancando al lavoro di protezione, fisico e psicologico, anche dei corsi di alfabetizzazione e di formazione professionale”.
Raccontaci una storia vera, viva, emotiva, che hai vissuto e che incarni in una vicenda umana i concetti astratti di cui vi fate portatori.
“Durante la mia ultima missione a Kabul a novembre scorso, nonostante le condizioni di sicurezza sempre più precarie, mi sono davvero emozionata nel vedere con i miei occhi i frutti del nostro lavoro. La piccola cooperativa formata da un gruppo di 10 donne, uscite da storie di incredibile violenza domestica, che hanno deciso di formarsi per diventare cuoche si preparava per il primo catering per 250 persone. Erano molto emozionate e preoccupate per questa loro prima esperienza, ma anche incredibilmente orgogliose e fiere di quello che stavano facendo. In un contesto politico e sociale così difficile il coraggio e la determinazione di queste donne rappresentano davvero l’unica speranza di futuro. Ricordiamoci che quella in Afghanistan doveva essere una ‘guerra lampo’ contro il terrorismo. 16 anni dopo e 900 miliardi di dollari spesi, di cui 7,5 dall’Italia (Fonte: Milex, Osservatorio sulle spese militari italiane), l’Afghanistan è un paese sempre più insicuro. Dal 2009 sono stati 24.841 i civili uccisi e 45.347 i feriti (fonte: UNAMA) di questo conflitto dimenticato, che per l’Italia rappresenta ‘la più lunga e costosa campagna militare’ secondo il rapporto Milex pubblico nell’ottobre del 2017. La militarizzazione del paese ha solo alimentato l’industria della guerra e l’insicurezza dei civili. Sono sempre maggiori le difficoltà per quella parte di società civile che vuole una pace giusta, libertà e diritti veri e non formali. Tornando dalla missione, sulla via per l’aeroporto, condividendo queste preoccupazioni con la mia collega afgana, lei mi ha detto ‘è vero, è dura e sarà ancora lunga la strada per la pace, ma tu ci hai visto e conosciuto, e sai che donne siamo. Siamo forti e tenaci. Non temere’. In un contesto politico e sociale così difficile il coraggio e la determinazione di queste donne rappresentano davvero l’unica speranza di futuro”.
Quest’anno, dove concentrate in particolare la vostra azione?
“Per i prossimi 3 anni ci siamo dati obiettivi di cambiamento in 3 ambiti di intervento: i diritti delle donne, il miglioramento della loro condizione, l’ambiente e il sostegno a chi lotta contro i cambiamenti climatici e le migrazioni. In America Latina lavoreremo insieme a molte associazioni e attivisti ambientali che stanno lottando per preservare il territorio e l’ambiente anche a costo di gravi rischi personali, sostenendo i piccoli produttori locali in Ecuador, Brasile e Bolivia. In Africa saremo a fianco delle associazioni di donne per sostenere le loro battaglie per il diritto alla terra e all’autonomia sociale ed economica. Anche per i paesi del Mediterraneo la nostra attenzione sarà rivolta alle donne mentre in Italia l’impegno sarà più di tipo culturale, nelle scuole e attraverso i nostri festival, Mediterraneo Downtown in primis, cercheremo di offrire prospettive, voci e storie che ci parlano di un contesto sempre più afflitto da conflitti e disuguaglianze ma dove molti cittadine e cittadini come noi si impegnano con un coraggio e una forza straordinari per un altro mondo possibile”.
Su migranti e rifugiati in Italia si fa tanta informazione sgangherata, spesso politicizzata. Cosa significa, secondo voi, ‘gestire il fenomeno migratorio’?
“Il tema delle migrazioni è da troppo tempo strumentalizzato politicamente con il risultato che i cittadini italiani sono innanzitutto disinformati e poi quindi anche poco preparati ad affrontare l’arrivo dei migranti. Non vediamo la volontà politica di gestire il fenomeno migratorio ma solo di cavalcarlo a fini elettorali. Chi vuole gestire il fenomeno deve innanzitutto conoscerlo e bene, capirne la dimensione internazionale, collocarlo storicamente in una prospettiva demografica e geografica e poi dare delle linee che non valgono per l’ora e adesso ma almeno per i prossimi anni. Se si legge il fenomeno in questa prospettiva allora si dovrebbero avviare subito dei corridoi umanitari per le situazioni di conflitto – purtroppo in aumento – e una ripartizione europea e internazionale dei richiedenti asilo. Allo stesso tempo si devono riaprire canali di ingresso legali, stagionali e non, per coloro che migrano per migliorare le loro condizioni di vita; l’unico modo vero di lottare contro il traffico di esseri umani. Affrontare le cause dei conflitti e delle povertà dovrebbe infine essere al centro dell’agenda di chi vuole ‘gestire’ i fenomeni migratori, che ricordiamo essere fenomeno che storicamente abbiamo vissuto e grazie al quale anche l’Italia si è risollevata dal dopoguerra. Oggi basterebbe pensare che il flusso delle rimesse è aumentato del 51% negli ultimi dieci anni. Si parla di 500 miliardi di dollari l’anno che si muove da Nord verso Sud ma anche da Sud a Sud secondo uno studio del Fondo internazionale per lo sviluppo agricolo (IFAD). Una persona su sette al mondo invia o riceve rimesse e questo denaro, scambiato attraverso money transfer o canali informali, supera di 3 volte tutti gli aiuti allo sviluppo delle organizzazioni internazionali e delle ong messi insieme”.