23 Febbraio 2023

Contro il cinema delle buone maniere. Quanto è brutto “Grazie, ragazzi”

È decisamente il momento del teatro al cinema. Dopo il recentissimo La stranezza, rieccoci con Grazie, ragazzi di Riccardo Milani.

Come arte il cinema nasce dal teatro e come teatro filmato si dipana per i primi anni di vita (Bela Balasz, Il film, 1949), curioso questo salto a volo di un secolo per trovarci nuovamente (certo altri film sul teatro ce ne sono stati in passato, non siamo davanti a un fenomeno nuovo, ma ora c’è come un soprassalto di interesse) in quest’altra, tarda fase della sua storia in cui certo cinema al teatro torna: per rivedersi nelle proprie radici e riflettere su se stesso oppure perché il tema sembra adattarsi perfettamente a certe logiche commerciali?

Mettere in film le emozioni che vengono dall’epica della costruzione di un gruppo-compagnia, poi di uno spettacolo con tutte le prove (di scena) e le Prove (nel senso di accidenti atti a mettere in difficoltà gli attori), infine con la restituzione pubblica e l’immancabile trionfo – l’enfasi sulla scalata impervia al successo, la drammaturgia drogata dell’ “uno su mille ce la fa”, dello sfigato destinato ad emergere, che è poi la struttura della maggior parte dei film commerciali in circolazione – è uno schema narrativo che funziona sempre.

Formazione, prove e Prove: una sequenza che chi fa teatro conosce bene, anche se nella pratica di lavoro non ha quasi niente di epico, o meglio, ce l’avrà pure visto da fuori, ma chi ci si trova immerso evita accuratamente quel tipo di retorica, che fa buon gioco invece al racconto mediatico. Forse perché nel teatro le prove sono un luogo di “realtà”? E ai media la “realtà” non piace? È tutto il resto invece che piace: il debutto, le repliche, il successo; glamour di cui si bea la società dello spettacolo, coloratissima schiuma di risulta.

Ebbene, questa postura da impresa “omerica” intinta nel grigiofumo di una certa mediocrità esistenziale pregressa innerva tutto questo Grazie, ragazzi, in cui si sceneggia la storia di un attore disoccupato (o meglio, occupato a doppiare film porno) che si trova a dover fare un corso di teatro in carcere e a mettere in scena uno spettacolo insieme ai detenuti.

Il tema viene trattato con levità di commedia e una buona dose di umorismo, ma il film rimane ostaggio di una vena continuamente risorgente di sentimentalismo, ben evidenziata dalle non poche inquadrature dell’occhio lacrimante che di volta in volta viene indotto sulle facce dei vari personaggi alle prese con il prevedibile trionfo in scena dei detenuti, e che il regista (cinematografico) usa scientemente per suscitare di riflesso la commozione del pubblico in sala (peraltro riuscendoci). E già questo basterebbe a giustificare l’insorgere, in uno spettatore attento, di una certa qual irritazione.

Molte delle questioni che attraversano il teatro contemporaneo – come per esempio la capacità di quest’arte di stimolare la creatività personale e di gruppo e una “ricentratura” della persona; di farlo efficacemente in contesti di emarginazione sociale e umana, e di differenza economica; e il vantaggio poi che ne viene alla vitalità del teatro stesso quando frequenta questi ambiti insoliti al proprio normale corso – passano nel film come enunciati buttati lì sulla bocca dei due vecchi compagni di palcoscenico divisi da un diverso destino professionale: il “fallito” (Antonio Albanese) e il “realizzato” (Fabrizio Bentivoglio, che dirige un teatro ben avviato; ed è l’amico che gli procura il lavoro con i detenuti). Temi importanti, come si vede, annacquati dentro a una serie di dialoghi che finiscono per orientare il protagonista Antonio verso l’accettazione della proposta di lavoro in carcere avanzatagli dal suo ex collega.

Su questa elementare e grossolana caratterizzazione di due tra i personaggi principali si muove tutta la parte per così dire umoristica del film. Il contrasto tra i mondi lontanissimi del doppiaggio porno, del teatro ben finanziato e del carcere produce qualche scintilla di comicità. Ma la sensazione di banalizzazione grottesca, immeritata, di tutta una categoria di artisti, già di per sé invisibile e maltrattata, avvolge anche queste minime invenzioni.

Per dirla tutta: nel mondo del teatro non c’è alcun successo che albeggia radioso dietro alla routine precarissima e spesso deprimente dei lavoratori dello spettacolo. Dove gli attori “falliti” – ingeneroso termine cui invece generosamente attingono tutti i comunicati stampa e gli articoli del e sul film – sono la maggioranza (e non sono affatto “falliti”, ma precari sì) e a pochi capiterà di girare la penisola in tournée con uno spettacolo nato da un laboratorio in carcere. Dove anche tra i pionieri di questa benemerita pratica artistica nessuno, ci pare, è mai andato al Teatro Argentina di Roma, per dire, come capita invece alla troupe nel film e per giunta così d’acchito.

Come sempre la rappresentazione massmediatica ha bisogno di schematiche figure di vincitori e vinti, di sfigati che diventano famosi, con la sfiga che viene rappresentata quasi come un sigillo di grandezza potenziale. E di attori famosi (vedi la star Albanese) che usano e abusano di questo tema. Del resto – detta un po’ cinicamente – fare il povero quando si è ricchi è uno dei lussi più perversi che un ricco possa permettersi. Così il film alla fine si può considerare come un caso eclatante di opportunismo artistico, che passa peraltro (basta leggersi un po’ di recensioni) per grande opera popolare.

E ancora: a differenza di un film dove il cast attingeva al mondo dei detenuti – indirettamente documentando, fra l’altro, anche la dimensione laboratoriale che una vera e seria attività teatrale attivava in quel carcere da molti anni, come nel grandissimo Cesare non deve morire dei Taviani – qui l’ipocrisia è somma. I carcerati sono attori che sembrano carcerati (devono sembrarlo). E quanto sono bravi a fare i cattivi che si rimettono sulla retta via! (almeno fino a un certo punto). E come sono teneri; si (e ci) commuovono pure! Meno male che ci è stata risparmiata la miracolosa conversione al teatro di qualche guardia carceraria…

Enfasi filantropica, che diventa schema ideologico dove le sfumature spariscono. È un cinema questo delle buone maniere, privo di coraggio; un cinema dei buoni sentimenti, privo di senso del pericolo; un cinema che non rischia, anzi cerca per definizione il successo.

La parte finale del film poi, dopo una lunga sezione centrale alquanto ripetitiva che insiste nel tormentone “recita serale-applausi/successo-viaggio-rientro in carcere”, raduna un po’ tutti questi difetti e li amplifica con una nota di buonismo rassicurante che rimette tutti al loro posto nelle graduatorie della sfiga e del successo.   

Quando i detenuti la sera della recita di fine tournée al teatro Argentina se la danno a gambe, lasciando Antonio a palco sgombro e mani vuote ad annunciare al pubblico la fuga dei suoi attori, quest’ultimo si infila in un autoindulgente e patetico monologo, una scena madre che nel ripercorrere le vicende dell’impresa teatrale che lo ha portato fin lì, si configura come il cedimento definitivo al sentimentalismo che appanna tutto il film. Assistiamo così a una sequenza dove il mancato spettacolo, per effetto dell’incredibile magia che l’umanità schietta del regista sarebbe, secondo lo sceneggiatore, in grado di profondere nel suo discorso, invece di provocare almeno un imbarazzato silenzio fa esplodere il pubblico in un applauso fragoroso e prolungato.

Dopodiché, giusto per riordinare, come dicevamo, le graduatorie della sfiga e del successo (e per rassicurare lo spettatore) i detenuti vengono immediatamente ricatturati, con tanto di inseguimenti e sgommate da prescrizione di genere, mentre Antonio (uno su mille ce la fa) siamo autorizzati a pensare che vedrà la propria carriera d’attore ripartire alla grande. E ci si immagina anche che andrà a letto con la finto austera direttrice del carcere. Lo possiamo intuire dall’improvvisa apparizione, tipo deus ex machina, senza alcuna giustificazione apparente (o forse perché il Natale è alle porte e riunisce le famiglie – ed ecco allora il trito armamentario dei cliché della bontà che si avvale qui di qualche lieto alberello sparso di lucine ficcato qua e là tra case e carcere); dall’improvvisa apparizione dicevamo, in teatro, la sera della recita famigerata, della figlia di Antonio, la quale esclama, con candida freschezza, in atto di sedere al fianco della fascinosa direttrice: “ah! pensavo che lei e papà steste insieme”. Al che la dura funzionaria dal cuore tenero risponde con enigmatico sorrisetto e contenuta sorpresa (l’inquietante e costruitissima Sonia Bergamasco) da cui si deduce che no, non è stato così finora, ma che sì, perché no, ora potrebbe pure capitare, dopo tutto quello che abbiamo passato insieme…

Infine, la scelta del testo da rappresentare, Aspettando Godot di Samuel Beckett. Perché? In una sequenza iniziale il personaggio Antonio si illumina come per un’idea che sia venuta a lui e solo a lui in quel preciso momento nella storia del teatro mondiale, e cioè – udite udite! – che siccome i personaggi di Beckett aspettano, chi è più vicino a loro di un detenuto che non fa altro che aspettare? E dire che la drammaturgia nel “teatro in carcere” attinge a fonti le più varie, e spesso si avvale di scritture nate con gli stessi attori-detenuti. Per tacere della messa in scena che a sprazzi il film ci mostra. Niente di più vieto: una tradizionalissima, statica, letterale rappresentazione da teatro stabile. Come fossimo ancora fermi al teatro degli anni ’50! Dov’è la carica artistica eversiva, l’energia dirompente di molti degli spettacoli del vero teatro in carcere (che invece si intuiva molto bene in “Cesare deve morire”?). Semplicemente, per questo film, non esiste.

Franco Acquaviva

Gruppo MAGOG