13 Luglio 2019

Epopea del tatuaggio: da voce incisa sulla carne a moda ingorda di chi “vuole dire la sua”

Il tatuaggio attraversa secoli e valica confini. Dalle comunità tribali passa alle società industrializzate senza tappe intermedie. La carne del corpo occidentale lo trova al suo posto, dov’è sempre stato, e senza sforzo vi aderisce perfettamente. Due mondi s’incontrano ma nessuno di essi sa chi è l’altro. Tuttavia trattare il tatuaggio semplicemente come un accessorio alla moda o liquidare l’argomento con un atteggiamento blasé significa trascurarne il senso e rimanere sordi all’appello della contemporaneità.

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Al suo esordio il tatuaggio parlava di un corpo che giaceva in un misterioso silenzio. Quel segno, dopotutto, diceva molto del corpo che l’accoglieva e lo custodiva. Null’altro era voce se non quel graffito inciso nella carne. Di un corpo muto, insomma, il tatuaggio era la parola: del lupo di mare raccontava le avventure, del reietto la disperazione, della prostituta dichiarava l’indissolubile appartenenza a un lenone. Persino il numero di matricola tatuato sull’avambraccio di Sol Nazerman – l’uomo del banco dei pegni scampato all’Olocausto nel film di Lumet – fa capolino dal polsino della camicia per urlare al mondo la barbarie e l’inferno dei campi di concentramento.

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Il marchio a fuoco che lo schiavo si portava addosso come una croce non era la sgargiante lettera scarlatta che Hawthorne fece indossare con vergogna alla sventurata protagonista del suo romanzo (nessuna condanna per adulterio avrebbe potuto imporre un segno imperituro come quello di un tatuaggio), ma anch’esso, infine, era segno di proprietà e, allo stesso tempo, equivaleva a battere moneta.

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L’odore nauseabondo di carne bruciata esala anche dalle pagine della Justine del marchese de Sade (D. A. F. de Sade, Justine o le disavventure della virtù), eppure il marchio a fuoco che il medico Rodin infligge con piacere alla povera figliola risveglia finalmente un corpo passivamente sopraffatto dagli eventi. Anche a Caino fu imposto uno di questi vistosi segni (la lingua ebraica lo chiama ’ot) di cui, però, la storia biblica altro non svela. Noto è, invece, che gli salvò la vita, e questo può bastare.

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Il corpo parla quando la voce non ha più fiato. La cicatrice, il cheloide, il foro, sono il sillabario di un corpo che si prende la rivincita sulla parola. La cute scarificata è la pergamena vivente che si presta ad accogliere i resti di una contemporaneità allucinata e sconvolta dalla ridondanza dei segni. L’impietoso ago che buca la pelle o penetra la carne sostituisce lo stilo che un tempo, forse con eguale dolore, segnò il predominio della scrittura sull’oralità. Ma anche il dolore che sopporta chi volontariamente si lascia tatuare è la rievocazione di quel sentimento che si accompagna alla sofferta affermazione di una verità.

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Nelle nostre affollate metropoli, un lessico di curiosi arabeschi, di variopinti bestiari, spunta urlando il suo slang da brache flosce e magliettine scollate. Il corpo da sempre ammutolito e sepolto dalla prepotenza di una moda fatta di gadget e abiti griffati, ora chiassosamente si manifesta. Il tatuaggio, insomma, restituisce al corpo ciò che prima i precetti religiosi e poi quelli della moda a lungo gli hanno sottratto. Scoprendo una caviglia, un’anca, un braccio, la schiena, il tatuaggio rivela una carne pulsante e bramosa di dire la sua.

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Il corpo, finalmente fatto a immagine e somiglianza di sé, si affranca dalla secolare egemonia dell’anima. Le quotidiane orazioni, oggi, ridotte a un inutile chiacchiericcio, hanno fatto il loro tempo. Il corpo, umiliato e offeso dalla mistica occidentale o dalla lirica amorosa dei santi, non è mai andato più lontano della scansione anaforica di una poesia di Juana Inès de la Cruz: […] es cadàver, es polvo, es sombra, es nada (Versi del disinganno). Ma nella nostra epoca, anche il corpo è salvo e non ha più niente da espiare, nulla, nada da farsi perdonare. In un’orgia di inchiostri, di anelli e bruciature ha trovato finalmente la sua indelebile liturgia e un perpetuo, secolare catechismo.

Vincenzo Liguori

*In copertina: una immagine del fotografo giapponese Kusakabe Kimbei (1841-1934)

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