Pioveva – la pioggia è il mio abito peculiare: stare in ciò che precipita e deforma, moltiplica il chiaroscuro. Il lago, scolpito a colpi d’ascia dall’acquazzone, era immoto, sacro. La libreria si chiamava Margaroli – ora non più –, Verbania. Mi colpì la copertina verde, il titolo strano, il potenziale di rivelazione che pareva custodire. Lo comprai. Avevo sedici anni, credo. La lettura continuò in collina, dove avevamo casa. Un paese scabro, senza negozi, in mezzo al bosco. Il fiume, galvanizzato dalla pioggia, sembrava un drago grigio: si sentiva ovunque. Leggevo ad alta voce.
“La Via veramente Via non è una via costante… Il termine Non-essere indica l’inizio del cielo e della terra; il termine Essere indica la madre delle diecimila cose”.
Tao te Ching. Edizione Adelphi. Sottotitolo: “Il Libro della Via e della Virtù”. J.J.L. Duyvendak, l’insigne sinologo olandese – la versione Adelphi è una traduzione di traduzione –, scriveva che “la stessa oscurità del testo sembra renderlo ancor più affascinante”. La pioggia rendeva tutto lucido, come inciso su una spada; studiai con avidità indimenticabile, pensando di diventare immortale. Negli anni, le immagini di quella antica lettura si mescolano alle figure di austeri monaci/poeti, pacifici per eccesso di ferocia, ai fotogrammi di alcuni film, Hero (2002), Ashes of Time (1994), soprattutto, magnetico wuxia girato da Wong Kar-wai. Voglio dire: quel libro, stabilito in 81 poesie di enigmatica potenza, imponeva un’ascesi personale abbacinante, pura sapienza marziale, marziana a questo tempo, a questo mondo. Laozi, di cui nulla si sa, sta in una voliera di miraggi, espone una visione iniziatica adatta solo al Santo, al discepolo, si propone all’aristocrazia dello spirito (tant’è che la divulgazione del Tao, per fini culturali o di moda editoriale, pare un paradosso, di cui io sono l’emblema, il pupazzo). La disciplina non ammette deroghe: orientato alla ‘natura delle cose’, il taoista è incurante di tutto, indifferente, mira a coltivare la “forza vitale magica”.
Costantemente tradotto, specie di libro/smeraldo, infine inesauribile, il Daodejing esce in nuova “edizione annotata e commentata” per Bompiani, a cura di Luigi Maggio (già curatore degli Analecta di Confucio, che qui ho interpellato). La didattica delle contraddizioni continua ad affascinare: il Dao, come l’oracolo antico, non nega né dice, accenna.
“Apprende a non apprendere, facendo ritorno a ciò in cui tutti eccedono. Al fine di assecondare la naturale Spontaneità Originaria dei Diecimila Enti non osa agire”
Laozi scoraggia ogni tentativo di mungere dai sui versi un manuale morale, la norma per vivere felici: come i veri sapienti, getta tra i rovi, disintegra il pensiero con l’acido dell’intuizione, non assolve, invita alla pratica, alla bianca mania. Poesia che agisce, quella di Laozi, che coincide con un codice: ossessione dei sommi poeti del secolo scorso, da Thomas S. Eliot a René Char, riporre il verso nel tempio che fu, nel sacro, nel sacrario degli assoluti.
Ogni volta che piove, ritorno allora al santo taoista, a ideare una vita tra i boschi, sugli alberi, masticando il Daodejing, quei versi che voltano l’ipocrisia in audacia, che implicano una scelta. Bisogna affidarsi ai lampi di coraggio, alla tigre sul paravento.
Uno dei termini chiave del Daodejing è wuwei, “non azione”. A uno sguardo ‘occidentale’ pare un paradosso: agire agendo la non azione. Che cosa s’intende?
La nozione di wuwei, non-azione, risulta d’acchito ostica alla mentalità occidentale. Il grande sinologo Joseph Needham la ritraduceva nei termini di “azione non contraria alla natura”, ma occorre allora fare riferimento alla concezione cinese di ‘natura’, intesa come Spontaneità Originaria, ossia modalità con cui si producono le dinamiche del mondo naturale, in particolare quello minerale e vegetale: come l’acqua che sgorga adattandosi alle forme e seguendo senza indugi i percorsi più idonei alla sua discesa. Per l’uomo, la non-azione diventa una meta sempre perfettibile, non si tratta infatti di cieca istintualità, ma di condotta purificata da ogni intenzionalità impulsiva e proprio per questo sommamente commisurata allo scopo. Se vogliamo farne un’esemplificazione efficace, possiamo pensare alla tradizionale pittura a inchiostro cinese, allorché il pittore traccia di getto sulla carta pennellate inesorabili, facendo sorgere forme essenziali e viventi senza avere la possibilità di ritornarvi sopra, per ritoccarle, come invece accade nella pittura a olio. Per essere un vero pittore la sua attività demiurgica deve essere in continuità con la natura: questa è non-azione.
Qual è la visione, per così dire, “politica” di Laozi?
Nella mia lettura del Daodejing, la visione politica si configura come modello istituzionale scaturente direttamente dalla coltivazione spirituale dell’individuo, nella sua esemplarità. Come l’adepto taoista apprende a sublimare le proprie correnti energetiche per renderle funzionali all’ascesi spirituale, parallelamente il governante dovrebbe apprendere ad amministrare il paese come fosse la propria persona, riducendo i desideri propri e della popolazione affinché le energie sottostanti possano essere incanalate verso ciò che è proficuo al bene autentico della nazione. Questa conversione omeostatica delle forze interne del paese ha senso soltanto in ragione dell’aumento di carisma del governante, che in virtù di tale potere personale riesce a tenere insieme le contraddizioni del paese, e dell’aumento di felicità sociale dei governati che, appagati dal proprio livello di benessere sociale, non danno vita ad ambizioni individualistiche e di ricercare altrove motivi di sviluppo. Soltanto in base a questo reciproco tornaconto si legittima l’autenticità del potere politico.
Qual è lo scopo della vita per lo shèngrén, il santo taoista?
Lo scopo dello shèngrén, o santo taoista, consiste essenzialmente nell’assimilare la propria vita a quella del Dao, ossia mettendo in atto nel proprio comportamento quotidiano tutta una serie di tattiche sapienziali, di cui il Daodejing è il breviario, per entrare sempre più in armonia e comunione spirituale col Dao. Mi sembra importante qui mettere in luce una differenza fondamentale con la mistica cristiana: se il santo taoista cerca di pervenire a uno stato di comunione fusionale col Dao, il mistico cristiano cerca invece una comunione relazionale con Dio. È nel Cristianesimo che si è sviluppata l’idea occidentale di persona, in quanto essere connaturalmente aperto alla relazionalità, e al sommo dell’esperienza cristiana troviamo quindi la relazione amichevole con Dio. Invece in Cina, e in particolare nel Taoismo del Daodejing, il Dao è impersonale, non sviluppa simpatie verso gli esseri umani, e tuttavia il santo taoista, in virtù della propria comunanza spirituale col Dao, finisce sempre per ritrovarsi dalla parte giusta, quella del Dao.
La poetica della contraddizione, le immagini nitide, una attitudine alla lirica proverbiale, gnomica hanno reso il Daodejing un libro molto tradotto in Italia. In cosa si distingue la sua traduzione dalle altre? Le chiedo di raccontarmi quando ha iniziato a lavorare a questo libro, seguendo quali criteri.
Ho cominciato a interessarmi al Daodejing circa quarant’anni fa, ho letto e riletto il testo, in sé molto breve, negli anni, acquistando ogni nuova traduzione che di tanto in tanto veniva pubblicata, confrontandole e riflettendovi, ma lasciando anche che lo stile aforistico del testo sollecitasse il pensiero a escogitare nuove interpretazioni. Circa sette anni fa ho cominciato a pensare a un lavoro sistematico di commento, giacché, accanto a tante traduzioni, erano pochissimi i testi che vi facevano riferimento in maniera critica e accettando il testo come autentica espressione di un modo diverso di fare filosofia. Tuttavia i commenti che andavo scrivendo finivano per esigere una traduzione che potesse sostenere le mie interpretazioni senza dover imporre al lettore uno sforzo di attenzione per seguire le giravolte dell’analisi. Così è nata l’idea di una nuova traduzione, funzionale al commento. La novità dell’opera, secondo il mio personale punto di vista, non sta tanto nella traduzione (ce ne sono di molto autorevoli, e soltanto in Italia le due versioni di Attilio Andreini per Einaudi sono esemplari), quanto nell’opera di commento che cerca di entrare nel vivo dei contenuti, tenendo conto di alcuni commentari cinesi (antichi e moderni) e delle letture di interpreti occidentali che si sono stratificate negli anni. Il commento vuole anche essere una guida di lettura per chi, pur non essendo addentro ai tecnicismi sinologici, è tuttavia interessato alla sapienza taoista e a sondare le potenzialità ermeneutiche di un testo così vitale.
Secondo la vulgata, in Cina ha “vinto” l’etica di Confucio. Che cosa significa? Meglio: che valore ha il taoismo in Cina, oggi?
L’etica di Confucio sembra avere vinto, e forse anche tale acquisizione appartiene al volto rassicurante dell’attuale Cina. Ricordo anni fa che in Cina era stato pubblicato un libro che portava un titolo emblematico: “Nella mano destra Confucio e nella mano sinistra Laozi”. L’immagine fa pensare alla tradizionale propensione cinese a eludere manicheismi religiosi mantenendo un atteggiamento pragmatico, in particolare per la dimensione spirituale. Nella storia cinese il Confucianesimo ha sempre rappresentato la visione etica della società, la cifra dell’umana convivenza cinese. In privato ciascuno era libero di professare la religione più affine, o di accordarne sapientemente le prospettive. Confuciano in pubblico, taoista in privato, era la ricetta classica della visione cinese. Al di là della riapertura di monasteri taoisti, ritengo che il Taoismo sia ancora oggi un elemento profondamente costitutivo dell’animo cinese. Il Daodejing ne è la consapevole espressione letteraria, e il fatto di avere incoraggiato la produzione di migliaia di commentari la dice lunga sulla sua compenetrazione nell’atteggiamento di vita dei cinesi. Il Daodejing risulta, da questo punto di vista, un testo davvero fondamentale per comprendere a fondo l’anima di un popolo e le implicite qualità per riuscire a pervenire tra le prime potenze mondiali.
Le chiedo di estrarre un distico, un ciclo di versi a suo avviso esemplare, che riassumano la ‘rivelazione’ di Laozi.
Il capitolo 38 è quello con cui inizia la seconda parte del Daodejing, più propriamente dedicata alla coltivazione della Virtù. I due versi iniziali esemplificano l’idea di non-azione, di cui si parlava inizialmente, ma qui rapportata alla nozione di Virtù. I due versi recitano:
“La Virtù superiore non si considera virtuosa, per questo ha Virtù. La Virtù inferiore non smette di considerarsi virtuosa, per questo non ha Virtù”.
L’idea di fondo è che non basta comportarsi in maniera buona, positivamente etica: sino a quando l’uomo si compiace di fare il bene e di mettere in atto una condotta apparentemente irreprensibile, l’azione non è ancora limpidamente espressione di autentica Virtù. È sì un buon comportamento, ma l’idea di santità taoista prevede il superamento dell’auto-compiacimento. Soltanto allora l’uomo riesce a parlare la medesima lingua del Dao.