“Solo di questo abbiamo bisogno: grande solitudine interiore”
Cultura generale
“Ho scordato il mio nome, non è Borges”
Letterature
La concatenazione dei poeti. La amo. Che gli accademici facciano i loro studi densi di note, va da sé. Ma quando un poeta entra in dialogo, in sintonia, in concordia dispari con un altro poeta, di altra generazione, accadono squarci. Nel mondo anglofono questo legame oltre il tempo, tra poeti, è norma. Ad esempio. I versi di Rudyard Kipling scelti da Thomas S. Eliot, le poesie di William B. Yeats scelte da Seamus Heaney, la quintessenza di Ted Hughes secondo Simon Armitage. In Italia, tranne rari casi, i poeti si rivolgono ad altre tradizioni, ad altri linguaggi (esempio: il Rilke di Roberto Carifi, il Baudelaire di Giovanni Raboni, la Dickinson di Silvia Bre o di Silvio Raffo o di Nadia Campana). Ma il lignaggio della nostra poesia trarrebbe giovamento da accostamenti virtuosistici. Tipo: le poesie di Manzoni scelte da Milo De Angelis; Clemente Rebora sarchiato e commentato da Giuseppe Conte; la Scapigliatura secondo Valerio Magrelli; Antonia Pozzi secondo Antonella Anedda.
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Ora. Carol Ann Duffy è ‘Poeta laureato’ inglese dal 2009, da dieci anni: è la prima donna ad aver ricevuto l’onore. Le sue poesie, leggo, sono assai lette in UK, tanto che CAD è diventata, dicono, “il più celebre poeta vivente in Gran Bretagna”. In Italia, piuttosto malmessa in cronaca lirica, tale autorità è tradotta poco e male, dai soliti, volenterosi piccoli, grandi editori (Le Lettere, Crocetti, Del Vecchio). Ora. A Carol Ann Duffy dobbiamo uno dei libri più celebri di Sylvia Plath. Lo stampa Faber, l’editore dei poeti, s’intitola, appunto, Sylvia Plath. Poems chosen by Carol Ann Duffy. Uscito per la prima volta nel 2012, baciato da formidabile successo – la Plath, poetessa di platino, è diventata, nonostante lei, icona della poesia ‘al femminile’, nonostante la ‘virilità’ dell’autrice – costantemente ristampato, è pubblico, dal mese scorso, in nuova, scintillante edizione. Mi pare utile, interessante, capitale, perfino, tradurre alcuni brani dall’intro di Carol Ann Duffy. (d.b.)
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Era passato da poco il mio settimo compleanno quando Sylvia Plath morì, l’11 febbraio del 1963, durante uno degli inverni più duri che l’Inghilterra ricordi. La neve, pericolosamente profonda per i bambini, gracchiava nelle nostre orecchie mentre cadevamo di schiena, nel suo gelido abbraccio, per giocare a fare gli angeli; la mattina le finestre della camera da letto erano accecate dal ghiaccio.
Da Londra, la Plath aveva scritto alla madre, negli Stati Uniti: “Sono uscita da Devo in tempo. Sarei rimasta sepolta per sempre sotto questa nevicata da record, senza alcuna via per salvarmi”. Rintanata nell’appartamento di Primrose Hill, nella vecchia casa che fu del suo tanto amato William B. Yeats, con due bambini piccoli, senza telefono, separata dal marito, il poeta Ted Hughes, la Plath cade nella spirale di una letale depressione di cui soffriva fin dall’adolescenza. Aveva trent’anni.
Nonostante abbia pubblicato la sua prima raccolta, The Colossus and Other Poems, nel 1960, e il suo romanzo, The Bell Jar, fosse apparso poco prima della sua morte, l’enorme e duratura fama della Plath è del tutto postuma, annunciata dalla pubblicazione, nel 1965, di Ariel. Ha vissuto come poeta nel modo più assoluto – “sono persa, nella tonaca di tutta questa luce” – e perfino come eroina del movimento femminista negli anni Sessanta e Settanta. Per la prima volta, c’era una voce poetica unica, radicale, concreta, che rivendicava come oggetto poetico qualcosa che non era mai apparso prima nel ‘canone’: l’esperienza di essere donna. La Plath ha scritto di maternità e matrimonio, tradimento, sessualità, istinto suicida, in poesie infiammate – come lampo che solca la brughiera – di amore e di rabbia.
Come tutti i grandi poeti, la Plath è spietata con se stessa pur di cercare la forma perfetta del poema. Aveva una specie di distacco lunare nei riguardi della sua vita, per poterne scrivere. Come ha scritto Seamus Heaney: “Le sue poesie sono piene di euforia, l’euforia di una mente che crea varcando il dolore, superandolo. Queste poesie hanno senza esitazione il diritto di essere ascoltate, sono ciò di cui vogliamo occuparci, non della vita del poeta”.
La Plath viene a noi come un poeta completo, con un immaginario stupefacente, a volte repellente, colmo di una specie di coraggio che le è costato caro:
L’ho fatto ancora.
Un anno ogni dieci
Lo domino –
Una specie di miracolo ambulante,
la mia pelle luminosa come una lampada nazista,
il mio piede destro
un fermacarte,
la mia faccia senza forma, raffinata
biancheria ebraica.
Scuoio il tovagliolo
mio nemico.
Devo avere paura?
I poeti, infine, celebrano la vita attraverso la poesia. Un poeta intenso come Sylvia Plath ci restituisce la vita in un linguaggio che scintilla – c’è il dolore, certo, ma anche meloni e spinaci, fichi e bambini, campagna, talpe, api, serpenti, tulipani, cucina, amicizie. Un gelido distacco aleggia sulla personalità poetica della Plath – come Yeats, lei cala “un occhio freddo/ sulla vita, sulla morte” – ma c’è anche il gioco, l’appetito sensuale, la delizia di rime inclinate in musica, spavalderia, brio, la gioia tangibile mentre sboccia il genio.
Ho cercato di camminare al fianco di Sylvia Plath. Come se fosse la prima volta. Così, ho provato ancora l’eccitazione quasi fisica di quando l’ho letta da ragazza, questo audace, brillante, coraggioso poeta che ha cambiato il mondo della poesia, per noi.
Carol Ann Duffy