Il libro più celebre di Sylvain Tesson, Le Panthère des neiges – in Italia è tradotto da Sellerio – narra la ricerca – fisica, ma soprattutto metafisica – della pantera delle nevi in Tibet. Per lo scrittore francese – tra i rari interpreti della letteratura ‘di viaggio’: omologo, all’opposto, di Emmanuel Carrère – la pantera delle nevi è l’emblema della meraviglia, della bestia-dio, cioè ciò che, senza rimedio, bonificati dalla beatitudine del ‘progresso’ – qualsiasi cosa voglia dire tale parolina-abracadabra –, abbiamo perduto. Il libro è evoluto in documentario, con mistica canzone di Nick Cave, e ha consentito a Tesson il prestigioso Prix Renaudot andato, tra gli altri, a Monsieur Céline, a Louis Aragon e – postumo – a Irène Némirovsky.
Figlio d’arte – papà Philippe è stato noto giornalista – Sylvain quest’anno fa 52 anni: è passato dalla ricerca della pantera a quella delle fate. L’ultimo libro, edito da Éditions des Équateurs, Avec les Fées, narra un viaggio compiuto tra Galizia e Bretagna, Cornovaglia, Galles, Irlanda e Scozia alla ricerca delle fatate essenze; andrebbe letto con il conforto di quel remoto libro del reverendo scozzese Robert Kirk, Il Regno Segreto (per chi è interessato, è in catalogo Adelphi). Così ce ne spiega il carisma Tesson:
“L’estate era appena iniziata quando partii alla ricerca delle fate, lungo la costa atlantica. Non credo alla loro esistenza. Nessuna fanciulla-libellula svolazza con il tutù intorno alle fontane. È un peccato: gli occhi dell’uomo moderno non sanno più catturare la fantasmagoria. Nel XII secolo il più umile dei pastori passeggiava accerchiato da fantasmi. Un pallido belga – purtroppo dimenticato –, Maeterlinck, ha detto: ‘Creatura curiosa, l’uomo… dalla morte delle fate non può più vedere nulla, non ha idea di nulla’. La parola fata significa qualcos’altro. È una qualità del reale che rivela la disposizione di uno sguardo. È un modo di cogliere il mondo scoprendo in esso il miracolo dell’immemorabile e del perfetto. Il riflesso del sole sul mare, il fruscio del vento tra le foglie del faggio, il sangue sulla neve e la rugiada che gocciola sul vello dei mustelidi: eccole, le fate. Appaiono quando miriamo la natura con deferenza. Sorgono all’improvviso, come segni. La bellezza risplende. A questo zampillio dò il nome fata”.
“Le Figaro”, attraverso la firma di Nicolas Ungemuth, ha intervistato Tessonintorno a questo libro ultimo. L’autore, interpellato nella casa di famiglia, nei pressi di Notre-Dame, rivela la propria identità mostrando “il raro facsimile del manoscritto di Viaggio al termine della notte”; sul comodino, il reperto di una lettura recente: Emil Cioran. Qui traduciamo brani dell’intervista.
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L’idea del viaggio avrebbe dovuto sbocciare in un reportage… cosa è successo?
“Volevo risalire l’arco litorale celtico, dalla Galizia alle Shetland, via terra. Il tema, grosso modo, era questo: è inscritta ancora nel paesaggio l’epica del meraviglioso arturiano? Ho capito però che compiere il viaggio via terra era impossibile. Cinquant’anni di ininterrotta devastazione impediscono il miracolo. A trenta chilometri di brughiera segue una brutale urbanizzazione; dopo venti chilometri di spiaggia, enormi assemblamenti di palazzine. Volevo cercare re Artù e il gran mago Merlino: mi sono imbattuto in Leroy Merlin.
È stato allora che ho capito che il viaggio andava affrontato via mare, costeggiando, alla maniera celtica. Ho chiesto al capitano della barca a vela di lasciarmi dove desideravo: la costa, frastagliata, ricca di scogliere, faglie, golfi, ha reso l’impresa straordinaria”.
Nella maggior parte dei tuoi libri il tema dominante sembra questo: scoprire la bellezza in un mondo in cui è sempre più difficile trovarla. Con Instagram, poi, la cosa è diventata deleteria: un individuo scopre il sublime, posta una fotografia e quel luogo si affolla di turisti…
“Quando parlo di ricerca delle fate non intendo, ovviamente, le fanciulle che volteggiano in cielo in tutù. Penso a un addestramento dello sguardo. Il meraviglioso è un esercizio. Questo viaggio lungo le coste atlantiche che ho ribattezzato ‘la cinta celtica’ mi ha permesso di riflettere sull’imperativo di fuggire dalla devastazione generale del mondo, una fuga al contempo mentale, morale e fisica – in quei corridoi di iodio ho catturato alcune scintille. Attraverso la pratica, come accade in qualsiasi arte marziale, finiamo per sviluppare una certa confidenza nel catturare ciò che cerchiamo. Il meraviglioso non è soltanto la bellezza fine a se stessa, infine illusoria – ad esempio: il sole che tramonta visto da un promontorio – ma qualcosa di più: è il mistero, l’incontro con la minuzia e con l’immensità dell’oceano, il viaggio nell’ancestrale presenza umana, che lascia la sua memoria nei luoghi tramite i menhir, i dolmen, la cappella, il calvario, la più infima traccia… Questo finisce per comporre una visione, uno spettacolo. Per capirlo, però, bisogna mettersi in moto, alla cerca”.
Non è una ricerca per tutti…
“…perché il mondo è sottoposto a una straordinaria impresa di devastazione. Siamo così tanti e ormai incapaci di prestare fede alla bellezza. Il ‘progresso’ ci ha consegnato oggetti che ci rendono pari a dèi. Il cellulare con la torcia incorporata, gli accendini per fare il fuoco, il genio del viaggio per aria, in aereo… Abbiamo più poteri di quelli che possedevano gli dèi dell’Olimpo. Siamo demiurghi mitologici, ma abbiamo rinunciato – dacché tutto ha un prezzo – alla bellezza”.
Accennavi al mistero. C’è spazio per il mistero nell’era della globalizzazione e del turismo di massa?
“I miei viaggi dimostrano che questo spazio esiste, che il mistero esiste. Vivere il viaggio come poteva viverlo un uomo nato all’inizio del XX secolo, è di per sé un’avventura. Il principio dei miei viaggi è proprio nella ricerca di interstizi che mi permettano di sfuggire dall’immane accerchiamento dell’industrializzazione, della massificazione, dell’accelerazione – della modernità, insomma. Tutto è avvenuto in pochi decenni: ricostruzione degli anni Cinquanta, industrializzazione dell’agricoltura, decentramento etc. Quando cominciamo a considerare la campagna ‘superficie agricola utilizzabile’, quando pensiamo alla terra come ‘superficie edificabile’, quando i giacobini parigini tentano, dall’amministrazione centrale, di iniettare ‘attività’ nei cosiddetti ‘territori’, ecco che la bellezza comincia ad allontanarsi. Le bestie non sono ‘biodiversità’, la campagna non si riduce alla parola ‘territori’”.
Dunque, è tutto devastato?
“Non credo. Io trovo lacune, errori, spiragli, ovunque. Vivo in uno dei quartieri più rumorosi di Parigi, eppure, da casa mia si vede soltanto il cielo e la gotica guglia di Saint-Séverin. Ho trovato un interstizio di meraviglia. Ne troverò altri”.
Scrivi che dei Celti, in fondo, sappiamo poco, per questo ti sei messo sulle loro tracce. Anche gli storici si contraddicono; per non parlare delle fantasie dell’estrema destra…
“I piani da considerare sono diversi. Il primo è quello storico, poi c’è quello linguistico, poi lo spettro ideologico, infine il piano letterario. Del piano storico sappiamo qualcosa. Sappiamo che ci fu uno spostamento di popolazioni che, sintetizzando, ha ricoperto la mitteleuropa, un triangolo di cui un punto è la Baviera, l’altro l’Ungheria, il terzo il confine ucraino-polacco. I movimenti dei popoli umani assomigliano al principio del biliardo: ti sposti perché uno ti spinge. Nel VII secolo a.C., spinti dagli stranieri giunti dagli Urali, questi popoli si dirigono in Gallia. Giungono alle scogliere sull’Atlantico. Prosperano, finché subiscono un triplice colpo: romano, cristiano, germanico. Dalle invasioni alla cristianizzazione, i Celti scompaiono: il colpo finale fu sferrato dai Vichinghi. Sopravvivenze linguistiche si scoprono in Irlanda e in alcune isole. Per il resto, sappiamo molto poco. Pare non abbiamo scritto – al di là del triskell e di iscrizioni analoghe. Quando gli storici si danno a speculazioni, approdiamo in due fallimenti: quello, pericoloso, del politico e quello, positivo, del poeta. In politica la storia dei Celti è ridotta all’epopea di una specie di razza ideale; tra i poeti, il neoceltismo forgiato da Walter Scott e da Victor Hugo, benché fantasmagorico, è magnifico. Nel XIX secolo la mitologia celtica ha permesso di riunire i temi che il romanticismo recava con sé: l’esaltazione della natura, la genia degli spettri. Per questo, Hugo delira al cospetto dei menhir a Guernsey”.
È un periodo che ti affascina…
“Quello che preferisco, però, è più antico. Il grande secolo in cui si cristallizza la nostalgia europea, il XII. Il secolo delle cattedrali e dei monasteri, della chanson de geste e del cavaliere che rimane una figura sublime, capace di assemblare in sé il poeta, l’avventuriero, l’amante. È il periodo in cui paganesimo e cristianesimo si innervano, nelle foreste atlantiche. Chrétien de Troyes e Geoffrey di Monmouth, francesi e inglesi, inventano il romanzo e il materiale letterario di Artù, il Graal, i cavalieri della Tavola Rotonda. Il meraviglioso. Dicono a se stessi: ‘certo, c’è il dogma cristiano: ma non permetteremo che sia avvilito lo straordinario popolo delle fate’. Così nasce lo straordinario arturiano”.
È questo ciò che ti interessa.
“Certo. Le fate, come fenomeno soprannaturale, mi sfuggono. I Celti, non ho l’altezza storica per fingere di poterli capire. È il meraviglioso come proposta letteraria ed esistenziale che mi interessa”.
Hai notato una continuità nei paesi che hai attraversato?
“Dalla Galizia allo Shetland la continuità è biogeografica: un nastro di onde, spiagge, dune, campagne. È una patria unica. I nostri organi di senso non riconosceranno la differenza tra una spiaggia della Galizia o del nord della Scozia. L’influenza dello iodio sulle antiche doline in granito è fondamentale”.
Non c’è più spazio per la foresta…
“Non c’è più spazio. Il mare aggredisce tutto con il suo flusso e riflusso, morde la terra. La foresta – questa è una specie di metafora delle civiltà – rende la questione complicata: dov’è una cultura, lì c’è una foresta, perché la cultura ha bisogno di suolo. E perché il suolo esista devono esserci delle radici che lo tengano unito. Sono sorpreso che i pensatori non adottino il principio della duna come allegoria politica”.