Un secolo fa, è Sweeney a spappolare le notti di mastro Thomas S. Eliot. Da Sweeney Among the Nightingales, poesia del 1918, a Sweeney Agonistes, frammento di un dramma compilato nel 1926 e pubblico nel 1933, Eliot è ossessionato da questo personaggio bestiale (“Sweeney collo-di-scimmia allarga i ginocchi/ lasciando penzolare le braccia nella risata,/ le strisce a zebra lungo la mascella/ si inturgidiscono in giraffa maculata”; cita la traduzione di Massimo Bacigalupo), icona del selvaggio, emblema dell’osceno, della vita nella sua sverginata totalità. Sweeney fa una comparsata perfino nella Waste Land (insieme “a Mrs Porter a primavera”, creatura di primordiale brutalità), nella sezione “Il sermone del fuoco”. A lui, “sorta di ex-pugile di mezza età divenuto proprietario di un bar, insomma un tipo volgare dal nome irlandese”, “popolano”, “come sempre associato con l’animalità, non uomo ma organi e gesti scomposti” (Bacigalupo), Eliot dedica una delle più belle poesie ‘giovanili’ – aveva 30 anni, fu pubblica nel 1919 – Sweeney Erect.
Dipingetemi una riva cavernosa e deserta
gettata fra le Cicladi implacate,
dipingetemi i mari irretiti e ringhianti
contro le rocce ardite e frastagliate.
Fatemi vedere Eolo alto in cielo
mentre controlla le raffiche ribelli
che gonfiano di fretta le vele spergiure
e ad Arianna scompigliano i capelli…
Eliot alterna il ritmo della ballata alla canzonetta sporca (“Sweeney sbarbandosi in tutta la sua altezza/ largo di sedere, roseo da nuca a natica”). Il suo riferimento estremo, però, non è Shakespeare, non è Baudelaire, ma un poema irlandese di un millennio fa.
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Sweeney, infatti, proviene da Suibhne, “figlio di Colman Chuar, re di Dal Araidhe”, uno dei regni d’Irlanda. Soggetto a stramberie – fin dal principio del canto ha “sintomi di attacchi di follia e di delirio” – Suibhne non accetta che Ronan, “servitore esclusivo e degno di Dio”, che “era solito crocifiggere il proprio corpo in omaggio a Dio”, costruisca un monastero nel suo territorio. Furibondo, “completamente nudo” – a differenza del monaco che si ‘spoglia’ di sé per darsi a Dio, il re impazzito si spoglia delle vesti per mostrare la sua natura bestiale, ferina – Suibhne “prese il salterio” del chierico e “lo scagliò nel fondo di un lago dalle fresche acque”, infine malmena l’uomo. Il chierico – che in sé ha parola di mago, di druido – scaglia una maledizione contro il re malvagio. D’altronde, è accaduto il miracolo: “una lontra, che era nel lago, riportò a Ronan il salterio, senza che in esso fossero state danneggiate le righe delle lettere”. La natura – lontra; lago – obbedisce alla parola biblica. Bibbia è parola che si rinforza rovinandola.
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In battaglia Suibhne splende in grandezza, ma davanti al chierico e a “otto salmisti della sua comunità” che benedicono le truppe con acqua santa, il re si fa predare dalla consueta furia. Ammazza uno dei cantori e cerca di uccidere Ronan, ma con un giavellotto colpisce “la campana che stava sul suo petto”. A quel punto, la maledizione dell’uomo di Dio va a segno: “uno smarrimento dei sensi, un delirio, un andirivieni e un’irrequietudine, un turbamento e un’instabilità lo pervasero, un odio per ogni luogo in cui stava e un amore per ogni luogo che non aveva ancora raggiunto… le sue armi caddero nude dalle sue mani, ed egli, per effetto della maledizione, scomparve alla maniera di qualsiasi uccello nell’aria, in preda a una pazzia e a un magico delirio”. La follia di Suibhne, tra le grandi saghe della letteratura d’Irlanda (cito la traduzione di Umberto Rapallo edita da Rusconi nel 1979; il libro è rientrato nell’editoria grazie a Iduna, lo scorso anno), consolida il topos del re folle (pensiamo a Re Lear, che non capisce le intenzioni e agisce d’impeto), è il canzoniere del cantore che vaga, smarrito, per i boschi.
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Dando luce ai sensi remoti. Il poeta è chi canta nel delirio, la sua parola proviene dal bosco, sosta tra maledizione e incantesimo, riguarda una lotta tra il Dio che viene dal deserto e quello che vivacizza i fiumi, è barbaro tra le selve. Il chierico, ancorato alla Bibbia, ha una parola che agisce; Suibhne, non più uomo né bestia, verseggia il selvaggio.
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I canti del re detronizzato dal rango, che vaga, sono di tersa bellezza:
È fredda la neve questa notte,
la mia miseria è smisurata,
nelle lotte non ho vigore,
sono un folle ferito dalla fame…
sono privi di filo i miei stracci
Suibhne è il mio nome
io sono il pazzo folle.
Mi assalgono i nodi della paura…
I rovi non hanno tralasciato
di tessere una benda sui miei piedi…
Mi svigorisce questo:
l’essere nella neve in nudità.
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“La natura – tema portante… dell’antica letteratura celtica – da un lato scuote e sfibra Sweeney senza sosta, esacerbando le conseguenze della sua condizione-punizione di uomo-animale, e dall’altro lo conforta, offrendogli non soltanto sostentamento e sollievo ma anche ispirazione oratoria”, scrive Marco Sonzogni, commentando la traduzione della Follia di Suibhne realizzata da Seamus Heaney. Sweeney Astray è pubblico nel 1983, dopo un decennio di lavoro nel gorgo della saga: “Aveva infatti iniziato Sweeney Asrtay nel 1972, poco dopo essersi trasferito con la famiglia dal nord al sud dell’Irlanda, lasciando le certezze raggiunte a Belfast, un lavoro fisso e una casa, per dedicarsi, full time ma freelance, alla scrittura, domiciliando in un cottage nella campagna di Dublino preso in affitto da una studiosa di letteratura anglo-irlandese sua conoscente” (Sonzogni). Ora quel lavoro ha domicilio editoriale in Italia per Archinto, come Sweeney smarrito (2019); Sonzogni, super traduttore di Heaney, ha scelto di operare come si fa nell’evo antico per costruire una basilica, che è lavoro comune: ha chiesto l’aiuto di diversi artisti del linguaggio, da Maria Grazia Calandrone ad Alessandro Fo, da Andrea De Alberti a Tiziana Cera Rosco (sono tutti in fila alle pagine 251-52). Alcuni versi di questo Orfeo feroce, stretto tra rabbia e nostalgia, vendetta e diletto, sono meravigliosi, nel circuito che dal bardo d’Irlanda si cuce sulle labbra di Heaney e arriva a noi:
I rovi s’arricciano di lato,
inarcano una schiena spinosa,
fanno sanguinare e s’incurvano innocenti
per tendere un nuovo agguato.
L’albero del tasso in ogni cimitero
avvolge la notte nel suo scuro cappuccio.
L’edera è un ombroso
genio del bosco.
L’agrifoglio alza il suo frangivento,
una porta in faccia all’inverno;
sangue vitale su un’asta di lancia
scurisce la venatura del frassino.
La betulla, liscia e benedetta,
deliziosa nella brezza,
alti rami la intrecciano e incoronano
regina degli alberi…
Per stellate pianure e brughiere,
derubato del crescione da una donna,
al suo freddo, solitario ricovero
va l’ombra di quello che fu Sweeney.
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Così dice Seamus Heaney: “Per trovare una poesia con una così struggente sensibilità per le bellezze e i rigori del mondo naturale dobbiamo andare a Re Lear e alle folli parole di Edgar travestito da povero Tom – esso stesso interessante parallelo della condizione di Sweeney… Quando ho iniziato a lavorare su questa versione, mi ero appena trasferito a Wicklow, non molto distante dall’ultima dimora di Sweeney a San Mullins. Mi trovavo in una terra di boschi e colline e mi sono ricordato che il verde spirito delle siepi in Sweeney per me era stato incarnato per la prima volta da una famiglia di zingari, di nome Sweeney anche loro, solitamente accampata lungo i fossi della strada che portava alla mia prima scuola. In un modo o nell’altro, sembra che lui mi abbia accompagnato fin dall’inizio”.
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Secondo Robert Graves, nell’enciclopedico La Dea Bianca, “La storia di Suibhne sembra concepire per illustrare la triade che dice: ‘È morte schermire un poeta, morte amare un poeta, morte essere un poeta’. Suibhne scopre che è morte schernire un poeta e morte essere un poeta; Eorann scopre che è morte amare un poeta. La fama di Suibhne rifiorisce solo dopo la sua misera morte. Di tutta la letteratura europea, questa è forse la descrizione più amara e spietata della drammatica condizione del poeta ossessionato”.
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Suibhne è un ramingo, il perenne condannato: la sua parola non lo congiunge al bosco, è pur sempre una ferita, cucitura di distanza (“è orrenda questa vita,/ essere senza un buon letto,/ una dimora di un gelo inospitale”), ma egli sa le tracce alfabetiche delle “piccole volpi ingannatrici/ da me ingannate”, la fame dei “lupi squartatori”, l’etimo della “beccaccia sciocca e inesperta”, il valore degli alberi e la loro lingua.
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Mario Praz capisce che con “Sweeney agonista” termina una fase della poesia di Eliot, che poi ascenderà nei Quattro quartetti ad altre vertigini. “Nella poesia di Eliot la parabola è esaurita: non più possibilità di vita spontanea, ma fondamentale constatazione della vanità del processo ‘nascita-copula-morte’. Il poeta si è domandato quale fosse lo scopo della vita, e non ne ha trovato alcuno, al di fuori di un meccanico e monotono, e quindi grottesco, ripetersi di atti fisiologici”.
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Sweeney, che prima di morire è colto con l’epiteto “pazzo luminoso”, non ha la parola che salda l’uomo a Dio, come il salmista, né quella che inchina gli spettri e le fiere, come Orfeo. Non evoca i morti, come gli sciamani; non proclama la morte, come i re. La parola di Suibhne/Sweeney concilia al bosco, non lo domina, insegna che il poeta è uno che vaga, vago, che cura la colpa in incrocio linguistico propizio. Infine, gli alberi si muoveranno, i lupi verranno a pascolare tra le nostre mani. (d.b.)