29 Gennaio 2022

“Senza farmi sconfiggere da una vita vana”. Elogio di Suor Juana Inés de la Cruz

Per punizione si segava i capelli. Che austera autorevolezza in quel gesto, che inadempienza alle norme, che indipendenza di razza! Pensava che la sapienza fosse bellezza e che per l’insipiente, dunque, fosse necessario percorrere la via della punizione, della castrazione. “Ho preso a comprendere la grammatica… e la mia cura era tanto intensa che mi ero imposta di tagliarmi quattro o sei dita di capelli se questi crescevano più rapidamente del mio apprendimento: non mi sembrava giusto che un ornamento tanto apprezzabile decorasse una testa così priva di sapienza”, scrive, con la consueta enfasi, sbilanciata sulla violenza, nella formidabile Respuesta a Sor Filotea de la Cruz. Era il 1691, Suor Juana Inés de la Cruz aveva quarant’anni, difendeva con protervia il proprio genio – “Scrivere non è mai stato mia proprietà diretta, ma forza aliena; per cui potrei dire, nel vero: vos me coegistis. Non nego che fin dal primo raggio della ragione, l’inclinazione alle lettere fu così veemente e poderosa che né le repressioni (ne ho subite molte) né le mie riflessioni (non poche) sono bastate a distogliermi da tale impulso naturale, che Dio ha imposto in me” – si avviava alla tenebra.

Nei ritratti, Suor Juana è sempre davanti a un libro, dal calamaio spuntano diverse penne, il suo viso è bello e severo, una audacia che l’abito castigato non contiene, e scostumate, lunghe le mani, di chi s’insinua nelle segrete del tempo. Nata a San Miguel Nepantla – ora Nepantla de Sor Juana Inés de la Cruz –, in Messico, educata nella biblioteca del nonno paterno, d’inaudita precocità, da ragazza è ammessa alla corte del viceré Antonio Sebastián de Toledo; il suo genio nel piegare il verbo, la versatilità, la sapienza poliedrica, sbalordiscono. In una società di intelligenze maschili, Juana è il ‘mostro’, sottomette per sovrumana evidenza. Donna dell’era barocca, ineguagliabile, Juana mescola la teologia al mondo classico, Cristo ai miti greci, gli esperimenti scientifici agli espedienti astrologici; leggeva Sant’Agostino insieme ad Athanasius Kircher. Rifiutò di sposarsi, nel 1667 fece ingresso come novizia tra le Carmelitane Scalze; ne fuggì sgraziata da una disciplina che diceva arida, infelice, inferiore; preferì il convento dell’Ordine di San Girolamo, dove le era concesso approfondire i propri studi. Donna dall’implacabile intelligenza, sedusse le grandi donne di Spagna, che furono sue totali sostenitrici: Leonor María de Cerreto, consorte del viceré, prima, e María Luisa Manrique de Lara y Gonzaga (principessa di casa Mantova), poi. Non di rado Suor Juana celebra l’amore, l’estrema dote della carne; i suoi toni ricordano i ‘metafisici’, l’agudeza è acuminata, rimanda a John Donne, per intenderci, un talento che sradica le resistenze, sinuoso, come un alligatore che fluttua tra le acque cosmiche.

Suor Juana rompe il verbo, piaga l’arte del sonetto, sorprende di continuo, il gioco di parole non è mai effimero, è prolusione di specchi che dardeggiano incendi. Che le sue poesie siano pressoché introvabili in Italia – i Versi d’amore e di circostanza editi nel 1997 da Einaudi non sono più in circolazione – la dice lunga sullo stato comatoso del nostro panorama editoriale, prono al ‘nuovo’, poco incline al genio. Morti o destituiti i protettori, Suor Juana fu presa di mira da stuoli di prelati, di invidiosi, di lacchè. Nel 1694, fu costretta ad abiurare, tramite documenti di rinuncia, alla propria attività letteraria; così, consegna ai clericali i suoi libri, i suoi testi, gli strumenti musicali e quelli scientifici che aveva collezionato. Morì nell’aprile del 1695, a causa di una epidemia ignota. In un libro di sgargiante grandezza, Suor Juana o le insidie della fede (in origine 1982, pubblicato da Garzanti nel 1991, ora introvabile), Octavio Paz, il poeta Nobel per la letteratura, che fa della messicana lo zenit della letteratura in lingua spagnola, usa parole perentorie: “La mia generazione ha visto i rivoluzionari del 1917, i compagni di Lenin e di Trockij, confessare davanti ai loro giudici crimini irreali in un linguaggio che era spregevole parodia del marxismo, allo stesso modo in cui il linguaggio bigotto delle dichiarazioni di fede che suor Juana firmò con il sangue sono una caricatura del linguaggio religioso. I casi dei bolscevichi del XX scolo e quella della monaca poetessa del XVII secolo sono molto diversi, ma è innegabile che, nonostante le numerose differenze, ci sia tra essi una inquietante somiglianza di fondo: sono fatti che possono accadere solo in società chiuse, rete da una burocrazia politica ed ecclesiastica che governa in nome di una ortodossia. A differenza degli altri regimi, siano democratici o tirannici, le ortodossie non si accontentano di punire le ribellioni, le dissidenze, le deviazioni, pretendono la confessione, il pentimento, la ritrattazione dei colpevoli”.

Nel 1689 Suor Juana presenta un testo teatrale dal titolo Amor es más laberinto: la vicenda classica del Minotauro prende svolte inaudite. Il labirinto “dai sentieri intricati/ i gironi che s’intrecciano/ tanto che perfino il discorso/ ne dice ignorandolo”, non è quello in cui è rinchiuso il mostro, infine, ululante vanità, ma il cuore umano. Teseo, infatuato di Fedra, è preda dei trucchi di Arianna, di lui innamorata. Infine, il labirinto del tempo, pieno di tagliole, tentò di alienare Suor Juana; lei, la bimba che leggeva mozzandosi i capelli, lo sfidò, fissandolo.

***

A una rosa

Rosa divina, dolce coltura,
la tua fragrante discrezione
è magistero purpureo di bellezza
candida sapienza in splendore.

Eludi l’umana architettura,
emblema di vana gentilezza
in cui tutta la natura si assembla
allegra culla, contrita sepoltura,

volitivo sfarzo, premurosa
superbia, rischio di morire martire
infine svanire, sconosciuta.

Anche tu sei caduca, pronta ad appassire!
Così, con maestria di morte e vile vita
esisti per ingannare, insegni a morire.

*

Se mi lascia, ingrato, lo cerco;
se mi insegue, ingrata, lo lascio;
adoro chi maltratta il mio amore
maltratto chi chiede il mio amore.

L’amore che cerco mi sembra un diamante
sono un diamante per chi cerca il mio amore
trionfante voglio vedere chi mi uccide
uccido chi vuole vedermi trionfare.

Se lo prego, subisce il mio desiderio;
se mi prega, l’ira, regale;
in ogni modo, sono infelice.

Ma io scelgo il gioco ardito;
sono violenta con chi non desidero
l’ossessa spossessata con chi non mi ama.

*

Perché continui a perseguitarmi, Mondo?
Come ti offendo, se il mio intento
è intendere la bellezza
senza intridermi di bellezza?

Non m’importano tesori né ricchezze;
per questo, sono felice quando
insinuo la ricchezza nel mio pensiero
più che pensare alla ricchezza.

Non m’importa la meraviglia: è un
ricatto, premio civile dei secoli,
non m’importa la menzogna dei ricchi,

avendo a cuore le mie convinzioni,
sconfiggo le vanità della vita
senza farmi sconfiggere da una vita vana.

*

Verde incantesimo della vita umana,
speranza folle, frenesia dorata,
labirintico sogno a occhi sgranati
vani tesori forgiati dalle illusioni;

anima del mondo, vecchiaia rigogliosa
decrepita giungla di immagini;
l’oggi delle promesse beate,
il domani di quelle sconfessate:

segugio di ombre cerchi il tuo giorno
come chi, con vetri verdi sugli occhi,
vede tutti dipinto dai propri desideri;

ma io, che accordo la mia fortuna,
tengo gli occhi sulle mani:
vedo soltanto ciò che tocco.

*

Fermati, ombra del bene inafferrabile,
figura dell’incantesimo che amo,
lampante illusione per cui muoio felice,
dolce finzione per cui vivo infelice.

Se alla calamita del tuo corpo, attraente,
il mio petto s’inchina come acciaio obbediente
perché rapirmi in una lussuria di lusinghe
e burlarti di me, mentre fuggi?

Non ha blasone più alto la vittoria:
la tua tirannia trionfa su di me;
ma anche se mi tormenti tra i lacci

che cingevano la tua mirabile forma
poco importa giocare con le braccia e il petto:
la mia fantasia forgia una prigione per te.

*

Questo pomeriggio, amore mio, ti parlavo
e il viso e le azioni sviavano
le mie parole, non ti ho convinto
di ciò che desidera il mio cuore;

e Amore, che intende i miei intenti,
ha sconfitto ciò che sembrava impossibile:
nel pianto, scavato dal dolore,
il cuore disfatto stillava.

Smettiamo il rigore, amore mio, basta:
non ti tormentare come uno scellerato tiranno
la vila diffidenza non veli la tua inquietudine

con ombre velenose e vani indizi,
hai visto e toccato, liquefatto,
il mio cuore, un nulla tra le tue mani.

Suor Juana Inés de la Cruz

 

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