I
La chiamerò
Bianca;
come sale
e
pelle malata.
Dolore
spensierata rassegnazione,
Bianca;
il freddo, il sogno
e
la morte – luce –
II
Non avere paura;
prendere la vita – per i fianchi –
affondare i denti come rasoi
strappare il dolore dalle carni.
Fissare le ossa per trovare
un passato, qualsiasi.
Scritte di saliva sulle spalle;
troppo tardi – dormi adesso.
III
Entra ed esce.
Complice della goduria,
l’attrito.
Come un ossobuco,
crudo.
IV
Qui senza te,
assopita la lingua
col ventre
scucito,
viaggi contromano;
bevo ancora caffè.
*
Commento di Antonio Veneziani
Entra ed esce.
Complice della goduria,
l’attrito.
Come un ossobuco,
crudo.
Basterebbe questa breve poesia, cinque versi, a far tabula rasa di ogni speculazione passata presente futura sull’Eros. Una andata e un ritorno. Meglio: una entrata e un’uscita.
La visione di de Guttry è devastante nella sua chiarezza di immagine: dal materialismo di La Mettrie al sad mechanic excercise Alfred Tennyson. E in mezzo ai due poli, come una interferenza, l’allucinazione paurosa del Duemila – che prende corpo in un linguaggio scarno, ridotto all’essenziale.
Come, appunto, il bianco dell’ossobuco.
La strada lirica della giovane autrice è già segnata. Parte da qui. In gloria.
*
Commento di Gabriele Galloni
I corpi, in questa scelta di liriche, si definiscono attraverso cavità strette (“Come un ossobuco”). Provano la propria esistenza solo passando sotto i segni ferini delle fauci emotive. A curare le ferite non saliva, ma la caustica testimonianza del sale. I liquidi saranno per altro: termineranno il martirio come inchiostro indelebile sull’epidermide (“Scritte di saliva sulle spalle;/ troppo tardi – dormi adesso”). Il verso è breve; a volte poco più di uno scatto, un tic verbale a raccontare, come oggi poche altre voci, il martirio della carne e la redenzione lontana della gioventù.