30 Ottobre 2018

“Sulla sua tomba soltanto fiori rossi”: dall’Argentina a Rimini, cercando Federico Fellini, a 25 anni dalla morte

25 anni dalla morte di Federico Fellini, tra i grandi registi del cinema mondiale; tra i più amati a Hollywood. In 25 anni, tanto s’è visto, molto s’è fatto, ma l’esito, in sintesi, è un poco sconcertante: basta pensare che il mitologico “Libro dei sogni”, testimonianza artistica pazzesca, è irreperibile. 25 anni dopo, tiepidamente, si ricorda Fellini. Soprattutto, la sua città, Rimini, ha varato il Fulgor, sta pensando a un immane Museo Fellini. Doveroso. Troppo tardi, vien da malignare – meglio tardi che mai, rispondono gli ottimisti. Resterebbe da fare la cosa più semplice: far vedere i film di Fellini in tivù, per tutti. Quando mai. Fellini è troppo bravo, imbarbarirebbe le strategie di chi vuol farci restare imbecilli. In un recente viaggio a Buenos Aires – città decisamente felliniana, onirica, pericolosa, stramba, rosolata nella nostalgia – ho incontrato un uomo – portoghese alloggiato laggiù da decenni – che di Fellini sapeva tutto, perfino le frasi più celebri dei suoi film. Conosceva la Rimini felliniana meglio di un riminese: all’altro capo della terra ho scoperto più cose, del miracoloso regista, che abitando dieci anni in Romagna. L’anno scorso, la brava scrittrice Maria Soledad Pereira ha fatto un tour a Rimini sulle tracce di Fellini, ricavandone un reportage pubblicato su ‘La Nacion’, il massimo quotidiano argentino. Da quell’articolo abbiamo estratto alcuni passaggi, in memoria di Fellini. Affascinante, piuttosto, è lo sguardo ‘oltreoceanico’ che viene dedicato al maestro. Che percezione si ha di Fellini nella sua città natale? Che percezione dell’onore, del valore, della dedizione riguardo ai propri grandi ha uno straniero, quando sbarca in Italia?  

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Pomeriggio di maggio, Caffè Commercio – Rimini, di fronte a Piazza Ferrari – i tavoli sulla strada sono pieni. Nell’aria, un clima che precede l’estate e in qualsiasi caffè italiano ci si siede davanti a uno spritz o a un aperol a parlare con gli amici. All’interno del caffè, il pubblico si divide in due: chi ordina un espresso, lo prende, scappa via e chi è piegato su un banco a leggere ‘la Repubblica’.

Probabilmente, nessuno sa che il ‘Commercio’ esiste dalla fine del XIX secolo; che da allora ha cambiato posto tre volte; che il caffè che sto cercando – quello che appare su una grande insegna in neon blu, durante la scena delle Mille Miglia, nella pellicola Amarcord – non è, in senso stretto, né questo né alcun altro; probabilmente, nessuno lo sa, ma Lenny, responsabile di sala, lo sa, me lo racconta.

“Il primo Caffè Commercio”, dice, prendendo un pezzo di carta e tracciando un rapido schizzo del centro storico della città, “era qui, in questo angolo di Piazza Cavour. Negli anni Sessanta si è installato dove adesso c’è il Caffè La Galleria, dall’altro lato della piazza. Lì andava Fellini. Noi abbiamo aperto solo nel 1996”.

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Rimini, Borgo San Giuliano, 2017: una fotografia di Maria Soledad Pereira

Mi pare curioso, però, che nel Caffè La Galleria – dove andrò più tardi – non ci siano riferimenti del tipo, ‘Questo è il caffè frequentato da uno dei registi più insigni della settima arte’, come accade, ad esempio, a Les Deux Magots, a Parigi, dove si fermavano abitualmente Sartre e Simone de Beauvoir, a al Martinho de Arcada, a Lisbona, che esalta Fernando Pessoa come un cliente molto speciale. In effetti, nessuno dei luoghi legati alla storia personale dell’artista italiano, come la casa in via Dardanelli 10 o quella in via Clementini, ha insegne che ne ricordano il passaggio, ad eccezione del Grand Hotel di Rimini. Quello che non manca sono i nomi dei locali che si riferiscono ai film del maestro: Caffè La Dolce Vita, negozi di souvenir o di prodotti locali che si chiamano Amarcord, l’Hotel La Gradisca, il ristorante ‘dalla Saraghina’.

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“Il fatto evidente – confessa Fellini nel suo libro – è che non mi piace tornare a Rimini. Lo devo ammettere, è come una paralisi… Quando torno a Rimini mi sento invaso dai fantasmi”. Eppure, Fellini è tornato. “Sono andato via nel ’37. Sono tornato nel ’46. Trovai una marea di macerie…”. Credeva che l’oltraggio della guerra fosse incommensurabile. Tornando nel 1967, per scrivere il suo libro su Rimini, ha avuto la stessa sensazione di quando era passato vent’anni prima. Prima, aveva trovato un mare di macerie. Ora, vicino al mare di luci e di hotel, scopriva quell’atmosfera falsa e felice che si percepisce nell’aria. Fu attraversato da una fitta mortificazione. Nel frattempo, Fellini aveva scoperto un’altra Rimini vicino a Roma. “Rimini a Roma è Ostia”, diceva.

Ma Rimini desidera ancora il suo ‘figlio maggiore’? Paolo Fabbri – riminese, professore di semiotica e ultimo direttore della Fondazione Federico Fellini – mi dice in una mail che è una domanda difficile a cui rispondere. “Rispetto ad altre città culturali, Rimini è turistica, per questo la sua memoria è a breve termine, è stagionale”… La presenza del maestro nella sua città natale è innegabile, ma impalpabile. L’ammiratore riconosce la fontana ‘della Pigna’ in piazza Cavour, nel centro di Rimini, visibile in Amarcord, ma forse non localizza il luogo della ‘fogheraccia’… non ci sono riferimenti, non c’è – ancora – un museo, ma ci sono diversi appassionati disposti a parlare di Fellini. Su indicazione di un commerciante, ho attraversato il ponte di Tiberio per andare a San Giuliano, che fu un quartiere di pescatori, con le case colorate e dipinti felliniani. Su suggerimento di Lenny ho visto la Chiesa dei Servi, che Fellini ricorda nel suo libro come un edificio buio e tenebroso. Passo davanti al cinema Fulgor, con il proprietario il futuro vincitore di cinque premi Oscar aveva fatto un accordo: realizzare caricature dei divi e dei personaggi delle pellicole in cartellone, in cambio di biglietti gratis per lui e per gli amici. Poi vado al cimitero. Benché a Fellini non piacesse tornare a Rimini, infine vi è tornato. Qui c’è la sua tomba: e quella della moglie e del figlio. La tomba è all’ingresso del cimitero monumentale, ha la forma di una vela che viaggia nel tempo e, secondo lo scultore Arnaldo Pomodoro, che l’ha realizzata, rappresenta la gloria e la grandezza del regista.

“Se sono per Fellini – mi dice, qualche minuto prima, il fioraio – che siano rossi”.

Maria Soledad Pereira

Gruppo MAGOG