Le nostre chiacchierate al bar sono episodiche, ma epiche. Stiamo lì, come sopravvissuti all’incoerenza di un inverno millenario, scampati alla Siberia di questi anni Duemila, aggrappati alla tazza di caffè come a una mano. In media, parliamo per un paio d’ore. Gli avventori ci pigliano per scemi, mentre un video manda in onda, con costanza compulsiva, un tiggì con le notizie del giorno alternate a quelle sportive. Negli ultimi tempi le nostre conversazioni vertono sui russi: d’altronde lui condivide con me le scorribande in quei territori lì, che terrorizzano con stupori, ha attraversato l’opera di Osip Mandel’stam e di Vasilij Grossman, ad esempio. Si di lui – e sul fatato corpo di Daniela Giovanetti – ho cucito un testo teatrale dedicato a Ingmar Bergman. Il fatto è che Silvio Castiglioni, attore di callida fama – tra le tante cose, è tra i fondatori del Centri di Ricerca per il Teatro di Milano, ha fondato il Teatro di Ventura, ha lavorato con Tiezzi+Lombardi, ha diretto il Festival di Santarcangelo – esercita l’arte della critica letteraria a teatro. Lettore finissimo, dona altra vita ai testi letterari – ha dissepolto l’opera di Silvio D’Arzo e quella di Nino Pedretti e quella di Pietro Ghizzardi, ha fatto a pugni con Jack London e preso a mordi Dostoevskij, ad esempio. Per capirlo, va vista la sua Storia della colonna infame – dove a un certo punto Alessandro Manzoni sembra l’unico al mondo ad aver capito cos’è il male, e dove stanarlo e come pacificarlo – e il Filò di Zanzotto, fatto in blusa da Arlecchino, mentre si cuoce il riso. Veniamo a ora, allora. Nel luglio del 2015, a sfidare i paradossi, porto Antonio Moresco (in copertina: photo Carlo Bevilacqua) a Riccione. Ci sono anche Silvio Castiglioni e Daniela Giovanetti che insieme leggono pezzi da La lucina. Lì è il primo bagliore di un lavoro perpetuo e ostinato nel dubbio – Castiglioni fa così, lacera e macera i testi per anni – che trova risposta quest’anno, quando l’attore ritiene di aver trovato ‘la quadra’ per mettere in scena La lucina, nell’anno in cui – malie del fato – Jonny Costantino e Fabio Badolato hanno tradotto in film quella fiaba che forse è una delle cose più belle di Moresco. Che l’azione critica – cioè, sfiancare un testo letterario fino alla mungitura del miele e del veleno – sia nel gesto di un uomo di teatro mi pare un segno del nostro tempo. (d.b.)
Come si affronta Antonio Moresco, combattendolo o facendogli spazio, largo? Cosa ti attira della sua scrittura?
Moresco si oppone alla semplificazione pervasiva in cui siamo immersi con mezzi singolari. Innanzitutto chiede al lettore, e all’attore, uno stato di abbandono, di rinuncia. La stessa che lui stesso s’impone come scrittore. La sua scrittura non imbelletta, non sfoggia ricercatezze stilistiche, ma cerca di spingersi verso qualcosa che viene prima del linguaggio. E questo genera una lingua piana, trasparente; che preferisce, nei verbi, il modo indicativo, e una costruzione elementare della frase. Apparentemente semplice, allo scopo di non agitare l’acqua, per non intorpidirla – direbbe Moresco – e così scrutare in profondità. Disarmato e disarmante. E tuttavia combattente: un autore che fa a pugni con la realtà, ne registra il disagio, e risponde.
Analogamente si richiede all’attore di non farsi scudo del suo mestiere. Il mestiere è utile e necessario, se la tua voce non arriva alle ultime file, è normale che si distraggano, no?, ma guai ad affezionarsi ai propri mezzi, a strafare. Non devi perdere di vista lo scopo, la visione poetica della quale sei al servizio, e sulla quale si sono convocati gli spettatori. Anche all’attore è richiesto di essere nudo, disarmato, senza maschera né armatura. Al servizio, appunto. Mi colpisce d’altra parte il fatto che M. non dimentica mai il corpo, la presenza del corpo. E questo può dare una mano all’interprete. M. lo senti respirare accanto a te, mentre leggi. È il corpo di un io parlante, piuttosto che di un io scrivente, secondo una mia classificazione molto personale. In prima o in terza persona, nella sua scrittura il corpo è sempre presente. Un tratto, questo, che mi fa pensare a Dostoevskij, non so bene perché. I personaggi di D. ti stanno addosso, puoi sentire se gli puzza l’alito di cipolla. Moresco sembra più delicato, ti fa camminare con lui, ti da un ritmo, tu prendi il suo passo e vai. Ma quando meno te l’aspetti, quando ha guadagnato la tua fiducia, ecco che ti arriva un bel pugno nello stomaco. E tu lo prendi, non dico volentieri, ma lo prendi e poi, se ne hai voglia, continui a camminare con lui.
In sostanza ti chiede, come essere umano, di esercitarti al distacco. Quest’ultima cosa ha a che fare col tema della morte, e come M. lo inserisce nelle sue opere. Un tema che ha a che fare col possesso e lo spossessamento, con l’allenare la nostra capacità di distacco, per salvarci, e per salvare coloro che amiamo. Un invito a mollare la presa e, insieme, un incitamento a combattere, per indirizzare la potenza del desiderio oltre il piacere del dominio e il possesso materiale, che invece tende, come sappiamo, a occultare la morte, facendo crescere a dismisura il suo potere nel mondo.
Collegata a questo, c’è la dimensione cosmica di Moresco, particolarmente potente in questo testo, direi perfino maestosa. Quel sentimento che affiora, per esempio, nel corso di una lunga camminata solitaria in montagna, quando ti senti granello di sabbia perso nella vastità del cosmo. È così raro, oggi, trovarla a questi livelli nella scrittura, affrancata da ogni sedimento romantico. Ne abbiamo bisogno come dell’aria che respiriamo, per osservare nella giusta prospettiva le nostre vicende, sommerse dal troppo umano.
Quali strategie hai usato per mettere in scena una fiaba tenera e terribile come “La lucina”?
Devo la conoscenza di questo gioiello all’amica e collega Daniela Giovanetti, con la quale ho mosso i primi passi nel cercare una strada per addomesticarlo per la scena senza snaturarlo. All’inizio ero entusiasta. Sono partito in quarta. L’invenzione di Moresco è straordinaria: la testimonianza del viaggio solitario del protagonista dentro se stesso fino a raggiungere una profondità tale da permettergli di stabilire un contatto con il bambino che lui stesso è stato. Per incontrarlo, consolarlo, stargli vicino e infine abbracciarlo, quel bambino. Poi però mi sono incagliato. Il terribile che questa singolare fiaba t’invita a guardare negli occhi, mi ha spaventato. Non riuscivo, e non volevo, andare avanti. Finalmente Georgia Galanti, la mia compagna, decisiva poi anche nel trovare la soluzione scenica, ha dato la spinta che mi mancava, e così ho completato il lavoro di riduzione. Si sa che ridurre per la scena un libro anche di piccole dimensioni come La lucina non è mai semplice. Si tratta di afferrare il cuore incandescente dell’opera nello spazio di un’ora. Qui però è in ballo qualcosa di più grosso. Un libro sospeso fra la vita e la morte. Sul bambino morto che abita in noi e sulla morte che dobbiamo attraversare per salvare chi amiamo. Se arrivi a dire una storia come questa devi fartene carico, e fare i conti col bambino morto custodito dentro di te. Non sono un esegeta di Moresco, ma soltanto un suo lettore disordinato e indisciplinato, e posso testimoniare che il suo ostinato evocare e interrogare la morte come una condizione permanente e necessaria della vita, a volte può generare insofferenza nel lettore. Poi si apre uno spiraglio, e cominci a capire perché lo fa; perché, nel nostro mondo reificato (si diceva una volta) non si può non farlo.
Ma La lucina è un libro felice. E se si accetta anche il terribile che lo abita si riesce a venirne a capo. Ora il testo ha le dimensioni giuste per abitare la scena in modo essenziale. Che significa, innanzitutto, affidarmi alla potenza della parola. E poi alle figure generate davanti ai nostri occhi dalle mani di Georgia, che fa, smonta e trasforma. Prima tracciando figure con un pennino su un vecchio quaderno; poi giocando con un sillabario come si usava nella scuola elementare di tanti anni fa; e infine trasfigurando il tutto con materiali ed elementi dell’universo vegetale che fa da sfondo al racconto. Una metamorfosi continua che crea un proprio mondo autonomo, che non spiega e non commenta il viaggio di conoscenza del protagonista, ma lo accompagna. Proprio come lo stesso protagonista si dispone a fare per stare finalmente vicino al suo bambino.
Continui a lavorare dentro la parola letteraria, ora contemporaneissima: come mai? Che qualità di parola porta con sé?
Disobbedienza linguistica. Consapevolezza etica. Radicalità estetica. I tratti della poesia, che tu ben conosci e sai così ben disegnare. Questo cerco, nella parola letteraria, nella grande letteratura. In generale, non solo sulla scena, occorre tenersi lontano dalle chiacchiere da bar, anche ben fatte e ben condotte. Che son parole al vento (quando non sono contumelie e parolacce) ossia parole senza responsabilità. Invece dobbiamo sempre assumerci la responsabilità per ciò che diciamo, anche sulla scena. Non amo il proliferare delle sillabe a caso, per fare il simpatico o per strappare una risata. Riaffermare con tutti i mezzi la necessità della poesia, che è sempre misurata e precisa, anche quando è fluviale e tempestosa, è l’ultimo baluardo per difendere la capacità del linguaggio di dire e articolare la complessità.
La grande letteratura fornisce strumenti affilati. Questo ci serve. Precisi. Rifugge dallo stato d’animo del momento e dall’approssimazione, cerca altrove e lontano la sua prospettiva. In questo modo mantiene alta la nostra capacità di affrontare e dire il reale. Il presente, il qui e ora, lo affronta da sublimi lontananze. D’altra parte, se devi recitare una poesia, ti attieni a quella, non si aggiunge niente. Chiunque lo capisce. Questo vale in generale per le parole che si scelgono di dire. Per tutte. Le parole sono importanti. Tratta la poesia come prosa e la prosa come poesia, diceva il grande e mai dimenticato Leo de Berardinis. Magari tagli quel che in scena è di troppo, perché la presenza viva, il corpo in scena, rende superflue molte parole. Tagli, e non aggiungi a caso. Se è vera scrittura, significa che l’autore ha sudato sangue prima di scegliere quelle parole.
Dopo Baldini e Zanzotto, Pedretti e Manzoni, Mandel’stam e London e tanti altri, dentro quale autore vorresti immergere il tuo teatro?
Fra i tanti autori che mi guardano dal ripiano nobile della libreria (V. Grossman, W.G. Sebald, Th. Bernhard, J.M. Coetzee, Leopardi) c’è anche J.W. Polidori col suo Vampiro, il primo della letteratura. Un racconto non privo di limiti, che però si presta bene per indagare alcuni tratti del vampirismo: seduzione e menzogna, rapacità e assenza di scrupoli; insomma, un campione della follia predatrice di questa nostra specie feroce e autodistruttiva. Anche l’attore in scena ne subisce il fascino, e ne è tentato. Rovesciando la prospettiva: qualcuno ci sta vampirizzando, non c’è dubbio, ma è ben camuffato. A chi abbiamo concesso il permesso di succhiarci il sangue, ossia l’anima? Non lasciatevi sedurre, ammoniva Bertolt Brecht, un autore passato di moda.
E poi spero sempre di imbattermi in un testo decisivo, magari composto, con sudore e sangue, e nella mia stessa lingua, dal vicino di casa.
*“La lucina” che è “una storia tratta dal libro di Antonio Moresco” con la presenza scenica di Silvio Castiglioni e le immagini di Georgia Galanti, sarà in scena questa sera, giovedì 8 novembre, alle ore 19, presso la sede della casa editrice Sem, in via Cadore 33, a Milano.