“Sono creature perfette”. Le farfalle di Guido Gozzano ad Amalia
Poesia
Marilena Garis e Riccardo Peratoner
Abbiamo comunque esplorato il margine in lungo e in largo, e possiamo porci la domanda finale: come misurare l’apporto di verità di un’opera letteraria, quando all’uomo pare ormai sottratta ogni certezza in merito a ciò che definiamo storia, mondo, realtà (o meglio ancora, il reale)? Come ricongiungere bellezza e verità, in termini credibili e aperti? In questi decenni, gli eventi hanno più volte scosso la coscienza generale (come data epocale, si ricorda anzitutto l’11 settembre 2001) e diversi scrittori hanno apparecchiato svariati meccanismi di veridizione per tentare di raccontarli. Il caso Saviano è scoppiato nel 2006 (anche se come antecedente di Gomorra gli studiosi ricordano L’abusivo di Antonio Franchini, proprio del 2001). Si è parlato di un ritorno al realismo, o quanto meno di un desiderio e di qualche progetto mosso nella direzione; soprattutto, ci si è affidati al già citato genere dell’autofiction. Ma qualsiasi racconto finisce per ipotizzare una realtà come una lastra di ghiaccio su cui pattinare: l’ingiunzione di veridicità non può che nutrire in seno la malattia autoimmune della retorica che infine lo consumerà. Non può essere l’io il garante della verità del discorso. «A parlare di sé son buoni tutti. Parlare fino a cancellarsi, a scomparire dal quadro, a farsi frase, periodo, dettato, questo invece è letteratura» (Giglioli[1]). Ma il problema non è la persona grammaticale né ovviamente l’opzione lirica in sé, che ha sempre avuto senso in una dimensione esemplare. Il nodo riguarda l’opera nella sua interezza e nel suo rapporto con l’epoca, nella capacità, più che di rispecchiarla perché si compiaccia, di ridestarne la memoria: di offrirle, in altri termini, un incanto che germina in profezia. Gli antichi avrebbero suggerito di addolcire con l’arte un’amara medicina; noi sappiamo che non c’è distinzione, che l’arte non ripete un contenuto, ma accade. Mette in atto, ri-attualizza l’esperienza attraverso lo stile – se si ha la destrezza critica di intendere e favorire l’esecuzione dell’opera.
Come per il principio d’indeterminazione di Heisenberg, le parole convenzionali intervengono a perturbare l’orizzonte che vorrebbero descrivere. Ma se in ogni atto enunciativo si compie una falsificazione, restiamo imprigionati nel postmoderno e nel relativismo, che si concedono al più la tradizione e la realtà come repertorio esornativo e consolante. Occorre perciò riattivare la funzione poetica all’interno della letteratura. La funzione poetica attiva una dizione del mondo che non mira ad afferrare, a determinare, ma semmai a evocare, guidata da una memoria che è anche sguardo sul futuro[2]. Questo è il punto per evadere dall’eterno presente del consumismo e dalla fine della storia. La verità è pensabile solo come un incontro che presuppone un duplice movimento: quello di chi desidera conoscere e quello di ciò che vuole farsi conoscere. La parola poetica, in quanto ganglio vitale del campo letterario intero, è pronuncia accogliente, è affidamento a ciò che resta altro da sé, nell’infinita approssimazione rappresentata dal viaggio della conoscenza. Occorre un atto di fiducia in ciò che resta indicibile, come ha raccontato a suo modo Dante, che ha dovuto seguire fino in fondo Virgilio ma anche affidarsi, a un certo punto, a Beatrice. E oggi, il volto di Beatrice, lo sappiamo, è ignoto, non appartiene ad alcun disegno ideologico o dottrinale. È il volto dell’altro, giustappunto.
L’arte ci invita ad attraversare l’inferno del nostro tempo. Il rischio di rimanervi imprigionati è concreto, come ci ricordano i destini di tanti che accolgono la sfida (che si gioca ben oltre i circuiti della carriera letteraria e dei congegni autoreferenziali del successo mondano). Sta a noi ridare voce a questo desiderio vitale, senza cedere alle sirene del compiacimento. Il senso dell’attività creativa è rinnovare un’antica storia d’amore, che ci conduce al confine di noi stessi, al dialogo con l’ignoto.
Per questo, ovunque si sia, sta a noi scoprire e abitare il margine su cui risplendere, per quel che ci è dato.
Andrea Temporelli
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Studio di un angelo
Ciò che riguarda Dio è territorio del demonio – tra angelo e vampiro la differenza è nell’estasi della crudeltà. L’annuncio dell’angelo, esangue, è un assalto. Chissà cos’è poi per gli angeli il dolore.
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Mi scrisse, “È ora, ora può sentirlo”, scrivendomi un indirizzo. Mi sembrò un’intimidazione. Più tardi – forse un anno dopo – scoprii che il tizio, uno sconosciuto, era stato uno dei suoi sodali, un soldato, non troppo capace, all’epoca della lotta armata.
Rispose con una lettera forbita, accettando l’intervista. Lo inseguivo da anni. Per la precisione: la vita mi aveva messo sulle sue tracce. Il mio primo editore aveva pubblicato un suo romanzo, con enfasi; il professore di Storia del cristianesimo antico con cui avevo discusso la tesi era stato il suo insegnante, in carcere, a San Vittore, Milano.
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Come tutti i deboli, i marginali, gli smangiati, subisco il fascino dell’uomo in armi, dell’uomo d’azione. Che il famigerato Eduard Limonov – lo avevo invitato a Rimini, anni prima – non potesse masticare alcun cibo perché un cancro gli inibiva la mascella, mi sembrò affascinante, ostico quanto un simbolo. Lo scrittore che ha morso la vita e imbracciato modelle e fucili, ora succhiava yogurt e formaggi molli, che sembravano meduse. Il dolore, in quel caso, sconfinava nella rabbia raddoppiata, del mutilato.
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F. aveva scelto di mutilarsi dal mondo. I suoi libri avevano avuto un discreto successo: pubblicati da editori notevoli, alcuni erano ascesi sul palcoscenico del Teatro Parenti, a Milano. Mi incuriosiva la scrittura di quell’uomo, dalla parte degli incurabili, degli scarti.
Sei anni prima di conoscerlo, avevo lavorato con l’editore che ne aveva scoperto le doti. Andava a trovarlo in carcere: insieme idearono un’antologia di testi “di evasione” – sconfinava nei doppi sensi, F., insinuato tra le ambiguità. Il suo testo introduttivo, contro i carcerieri, il sistema carcerario, l’ideologia doppiogiochista e concentrazionaria dello Stato, trasudava livore; un livore blu, angelico, aristocratico.
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F. abita in Friuli, in montagna. “Non ti dirò nulla di ciò che vuoi sapere”, mi disse, dalla breve veranda, davanti a casa. L’ho conosciuto un paio di anni fa: F. è magro, basso, atletico; gli occhi ti ghiacciano, “occhi che hanno ucciso”, mi ricordava l’editore. Una generica incuria nei modi dimostrava l’indole dell’estremista; tuttavia, aveva bisogno di compiacere, di essere ammirato, la tara degli orfani.
Tre cani si svilupparono intorno alle sue braccia, come enormi falene su cui F. esercitava un potere notturno.
Aveva una moglie, di cui percepii l’ombra, nel profondo della casa, e la voce, flebile.
Mi propose di fare una passeggiata in montagna. Me lo ordinò. Non riuscivo a stargli dietro, la luce gocciolava dai pini, mi stava provando, pensai, questa salita è un battistero. Mi fermai, lui capì. Disse della volta che aveva incrociato un lupo, ne deglutì il desiderio. “Tra i sognatori e i banditi non vedo differenza”, disse. Mi vedeva in difficoltà. Scardinò la borraccia dallo zaino, mi imboccò, tracannai – potevo bere dalle sue mani.
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La sua vicenda era nota. Il 19 febbraio del 1977, in seguito a un’ispezione di routine, “nei pressi di Cascina Olona, zona Settimo Milanese”, F. uccide un brigadiere, L.G. Era sera, la pioggia, tenue, assegnava a quei luoghi un’aura purgatoriale. La macchina di F. aveva un faro fuori uso, da qui l’intervento dei poliziotti, che obbligano il conducente a fermarsi. È curioso che F. venga fermato dai poliziotti per un difetto di luce.
Nel corso dell’ispezione, i poliziotti scoprono che F. ha dei precedenti; aperto il cofano della macchina, una Citroen che non risulta del guidatore, una tesoreria di armi, di diverso calibro. Insieme a F., quella sera, c’è anche R., donna di maschia bellezza, dal profilo spigoloso, pari a un vampiro. In aula dirà come i poliziotti, allarmati, per primi, abbiano aperto il fuoco, che F. ha cercato di difenderla.
Il “Corriere della Sera”, riferendo l’accaduto, ricordò che “il brigatista rosso” F. aveva 25 anni e “impugnava una colt 38”. Durante lo scontro, F. spara quattro colpi: ammazza il brigadiere e ferisce gravemente l’appuntato, lacerandogli il polmone sinistro.
La dinamica dimostra la destrezza di F. nel rischio: i colpi lo prendono di striscio, terminato lo scontro, si accascia al suolo, fa finta di essere morto, “per evitare il linciaggio” delle pattuglie accorse, dirà.
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A prima vista, F. sembra un serpente. È cauto, si muove a scatti; non è mai allarmato, è certo di essere sempre sotto osservazione. Sa che in ogni visitatore può celarsi un mercenario, in ogni sguardo l’etimo della vendetta. I suoi gesti non sono nervosi, ma esatti: anche quando prende una tazza dalla credenza e la mette sul tavolo, misura i movimenti, levigati, letali. In realtà, F. ha la ferocia dell’efebo: la sua bellezza, nelle fotografie del processo, svoltosi a Milano, è inquietante. F. seduce per sottomettere, con una violenza femminile.
Non ha l’estro del sadico, non agisce con il principio del boia: il sangue lo irrita, vorrebbe ammazzare senza spargimento di umori e di urla, in serie. La sua perizia è affine alla metafisica, rapina l’ambito teologico: F. non è un uomo appassionato e non è un freddo calcolatore; esegue, con disciplina marziale. Vive nell’emergenza e nell’incanto. Poiché ha scelto il pericolo, non ha paura: ha già sacrificato tutto. In lui, la lotta armata coincide con l’ascesi.
Durante il processo, dichiarò di disinteressarsi del giudizio emesso da un tribunale a cui non riconosceva alcuna dignità giuridica. Chiese il massimo della pena, assolvendosi. Lo accontentarono.
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Preferiva vagare in un mobilio di astrazioni, di aggettivi aggettanti, propensi al frainteso. “Ciò che dovevo dire ho cercato di dirlo durante il processo: ho scritto un testo – così ha fatto Renato Curcio. Mi è stato impedito di pronunciarlo, il giudice lo ha giudicato ‘retorica brigatista, inutile’. Lo Stato mi ha tolto la voce, non me la ridarà un giornalista”.
La sua carriera letteraria, che aveva avuto un esordio brillante – la pubblicazione, per Mondadori, di un romanzo sull’adolescenza di Dante, che ricevette ottime recensioni – fu stroncata in pochi anni. Gli ex terroristi convertiti alla letteratura diventarono una moda, poi un impaccio, infine un insulto. Lo accusarono di opportunismo, F. fu obbligato a mollare la collaborazione per un importante settimanale dell’epoca. “Ma io ho pagato”, ripeteva. “Al compagno F.” furono combinati 28 anni per “omicidio, partecipazione a bande armate, porto e detenzione di armi”. I giornali, genericamente, esultarono, perché lo Stato aveva punito un demone, uno strumento delle tenebre; “Lotta Continua”, nel numero del 21 gennaio del 1978, precisa che “Persino gli avvocati d’ufficio di Fontana, che non sono certo di sinistra, alla lettura della sentenza erano incazzati, perché a Fontana era stata riconosciuta la partecipazione a banda armata senza alcuna prova e la premeditazione nell’omicidio dell’agente della Polstrada”.
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Scoprii per caso il nome di F. In casa editrice lo magnificavano; fui affascinato dalla sua prosa, insinuante, sinuosa, apodittica, scheggiata da un rancore prolifico, gentile. Scriveva – c’era da attenderlo – dei soppressi, dei condannati, dei maciullati dalla Storia. Quell’anno, pubblicò un lungo romanzo sulla conquista dell’America da parte degli spagnoli. L’ideologia di fondo era sfumata da una tortuosa passione per l’uomo: F. sapeva amare anche l’oppressore.
Quello fu il suo ultimo libro.
Sono nato il giorno in cui F. entra in carcere.
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Ritornando dalla montagna, F. mi mostra una chiesa, nel primo paese a valle. Entriamo. F. si sdraia sul pavimento, allarga le braccia. Sussurra qualche preghiera in latino. La pala d’altare, dipinta da un anonimo del Seicento, rude pittore di quei luoghi, raffigura San Giorgio che trafigge il drago; la bestia ha occhi mansueti. Per terra, F. sembra un boa che si stia dilungando nell’inghiottire la preda. Quando si alza, dopo un po’, il volto splende – ma non è meno pericoloso.
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In un disegno preparatorio, catalogato come “Studio di un angelo”, il Pontormo ritrae una creatura celeste di ambigua bellezza. L’angelo è visto di spalle, ruota il collo, femmineo, fissando l’osservatore: il suo volto è crudele, glorificato dalla vendetta. È un angelo fuori contesto, un’apparizione notturna, forse.
Sono certo che esistano uomini venuti al mondo per obbedire al caos: sono gli allievi del disordine, i lancieri del nulla. Hanno un loro rigore, una disciplina grigia, la celere obbedienza di chi non ha ideologia né idolo. Sono demoni, vampiri che non si premurano di succhiare il sangue, ma di spargerlo. Creature che non servono al perdono, che non ci è dato giudicare.
Davide Brullo
[1] Daniele Giglioli, Op. cit., p. 78.
[2] Cfr Andrea Temporelli, Memoria e profezia, www.andreatemporelli.com/2020/01/29/memoria-e-profezia/