Il mercato rintronava urla arcaiche, risuonava una lingua oscura, tra i banconi del pesce, nel buio dei porticati; sembrava di retrocedere fino a un tempo di paganesimo bestiale e superstizione, un Ade di spelonche infilate in qualche cava arenaria dell’entroterra, o inseguire lungo le mulattiere arse delle colline dell’Arcura una Sicilia di fauni o di giovanotti alla Scurpiddu, egipani, mostruosità radenti una ferocia sconosciuta, la deità delle rocce rossastre e delle arenarie, di cieli luttuosi sopra le piane dell’isola infuocata.
Il mercato fremeva nelle mattine del Tempio. Allora lo spazio metafisico asciolveva istanze di modernismo, come a rompere un digiuno estatico, una specie di economia oziosa sistemata su fasti imbellettati. Qualcosa che esortava ad avanzare, a guardare oltre, persino, la stretta fune dell’orizzonte dove gli anni e il resto delle cose – così come accadevano – irrompevano in gigantesche petroliere, panfili, esclusività, mondanità, una clemenza luccicante che concedeva il cosiddetto mondo, quello fuori, alla stregua di un gadgì per una enclave di sinti. Lo straniero, voglio dire. Al Tempio eravamo avanzi del medesimo mondo, meno luccicante e esoso, torvo casomai, trafitti da cieli verticali e trapassati di azzurri dentro cui una grazia vergine riusciva a ritagliare la cima di un campanile, un tegolato, la prospettiva tragica di una grecità impressa d’intorno, a ricordarci, vagamente, una stirpe, un gene.
La mattina, il mercato del Tempio mi faceva rabbrividire. Promanava una solitudine catacombale, uno spregio di insufficienza, il gelataio con la voce raschiata e il furgoncino che barbugliava nel centro di un cortile polveroso, mostrando la poverissima merce, pezzi di antiquariato, ostili a un qualsiasi cenno di decoro, più che cremerie di un faubourg. Ossuto, aspro, sgarbato, era il brano di mondo cascante, la mattina al Tempio, con i turisti in bermuda, curiosi e schifati osservatori di una civiltà aliena perché apparecchiata al lutto, una esibizione patetica perlopiù, nel centro di un Occidente spostato dentro il grande mare.
Le vecchie si chiudevano dentro, caverne che davano sulla strada, casette del dopoguerra. Prive di lucernari, nere come ossidiane.
Il tempio era anche quel tipo di Sicilia, la Sicilia del ricottaro, con la motoretta insolente, qualcosa di scarno equivalente al mezzogiorno di una periferia, non una qualsiasi, la nostra, una periferia del sud. Ed era un mood che temevo. Ecco perché tornavo al Tempio soltanto il pomeriggio, quando il crepuscolo smorzava l’eccesso tribale delle luci e dei suoni che affliggevano il rione, un manifesto ruffiano utile come un battage, ma poi c’era la vita, se così vogliamo chiamarla, su cui sprofondare ogni giorno. Su cui sedersi intontiti, su una panca, all’ombra di un melograno. Senza aspettare, se non l’attesa.
L’attesa è molto siciliana, un ramo della scienza della sicilianità, si chiama attesa, imbarbarimento contemplativo. Ai siciliani stanno molto bene le antinomie.
A me non importava molto dei siciliani, malgrado – seduta al Tempio – ne fossi circondata secondo una eloquenza brutale. Torme di vecchi, ambulanti, braccianti. Sembravano usciti da un romanzo di Capuana. Era talmente prevedibile scorgerli solcati da una remissione malevola, non appagata. Una combutta solitaria e repressa disegnata sulle guance rugose, una fissità svuotata di qualsiasi malinconia o gentilezza. Una fissità siciliana.
Il crepuscolo addolciva i peggiori moti dello spirito. Quella certa violenza che mi sorprendeva d’un tratto quando era facile smarrirsi nell’insensatezza, la vita girava e girava intorno a sé stessa, non era altro che un vorticoso ritornare al punto, al massimo spiando un esempio di futuro su una ipotetica bertesca, oltre l’orizzonte, esatto; per questo esistono passeggiate lungo i crepuscoli violetti che dicono promenade, il porto, gli attracchi, uomini aitanti vestiti di bianco che lucidano ottoni. Per questo esistono al Sud le rade e le baie e il diportismo magniloquente che beve Moet et Chandon sulla prua di un catamarano.
Le anziane aprivano le bicocche dei vicoli e nell’ombra paziente scendevano giù, alla fine della straducola, svoltavano all’angolo con l’edicola votiva e la Vergine dipinta con stilemi naif, sedevano insieme. Le vedove.
Beghine di un trattato del Pitrè. Assiomi iconici, a pensarci bene, tutto nell’insieme lo era.
A volte incontravo un compagno del liceo, suonava il piano e leggeva le poesie di Milton. Studiava il pensiero filosofico dei teocrati. Era fuori dal mondo anche lui. Ma stava sul filo, lo è stato per un po’, poi non so dire cosa sia successo, ha cominciato a farsi di eroina, che era adulto e poteva già essere un padre di famiglia.
Allora quando lo vedevo attraversare la piana del tempio, mi venivano in mente le sue Berceuse, suonate al piano, volavano via come colombe dalla finestra di un palazzo barocco. Era nobile quel compagno, sottile nel corpo e nello spirito, sottile alla stregua di talune intuizioni benevole stavolta, che capiscono in pochi e perciò non devi spiegare.
Attraversava il tempio con una donna, l’avrà amata davvero, perché poi lei è morta, e lui era sempre più curvo e pallido, di un pallore funereo. Per una ragione molto semplice decisi di non conoscerlo più, di non salutarlo, non vederlo, era preferibile, piuttosto che stringersi in terribili conversazioni sul come sia possibile perdere tanto, tutto, subito, con quale deprimente facilità può accadere nella vita di perdere tutto subito, abbastanza, repentinamente.
Le parole coprivano ogni omissione, una pezza all’indolenza e all’incapacità di appartenere a una razza, una plebe, empaticamente comparteciparvi. Dolersi sul solo bastione dell’ignoranza altrui. Del disordine. Del cattivo odore. Di un fastidioso clangore tra i budelli del dedalo.
Dolersi non veramente, dolersi di sé. Ma quello era un mestiere.
@Veronica Tomassini/emmeerre letterature
*In copertina: Jan Ciaglinski, Siracusa, 1910