Le finestre dei fondaci, nelle vie anguste del quartiere, tosate da canovacci di bitume, erano appuntate da drappi pesanti, cuciti a filo e con nappe dai colori bruni, sonanti e mortali. Un viola macchiato dal grigiore stantio della polvere, un nocciola sbiadito, il rosso cupo di un vinello. Potevo immaginarvi un centrotavola, la guantiera e il rosolio dondolare nell’increspo, nell’orcio di vetro damaschinato, centrini rigidi, dispense obsolete e tacite, simili a cavezze dentro cui nascondere la cresta misera su un pendio di vicende di cui smarrire il nome, o chiamarle semplicemente forme di esistenza muta. Le cose morte. Mute, cattive. Franano d’improvviso, una teiera, una guantiera, tazze di ceramica, rovinano sul pavimento, d’un tratto. Eccola la cattiveria delle cose morte.
Questo tipo di arcaica menzogna la temevo, questo esempio di facezia tributaria, la Sicilia cantata da un pastore sarebbe stata più vera, ma cosa annunciava, di quali uomini parlava? Esiste un ciclo di errabonde novene per cui possiamo asserire con certezza che quel tipo di sicilianità – di terra cretosa, e spigoli di roccia irsuti verso la vetta di un cratere fumante, e il nero e l’ombrosità dentro un animo bruto e consenziente, a qualsiasi epiteto illecito – corrispondesse a un qualche orgoglio di confine, noi e l’isola, noi e i cantori di un falso, una proiezione, fasulla per ciò nel rimestare l’antico con baluardi eretti alla buona, stolti, magniloquenti.
Uomini, pastori, butteri, nuzzari come l’esile Scurpiddu di Capuana, di una tristezza recondita che aborrivo come il male definitivo, di tanto mi nutrivo al Tempio, fino a spezzare il respiro sull’ignoranza del giorno e della notte, il glicine e le voci irriguardose disperse nelle straduzze infuocate, dentro cui infilava la luce opprimente delle ore. Purché ci attraversassero fino a renderci sgomenti dinanzi al medesimo tramonto.
Le estati del Tempio erano purgatori. I cavalli nitrivano stanchissimi, bardati crudelmente, in attesa di svolgere anch’essi il ruolo ingannevole, di mesti servitori di una idea rimpannucciata di sicilianità. Una maestosa consegna di fole. Però c’era un amico. Lo avevo.
Johannes taceva, sembrava che avessimo circumnavigato tutte le apocalissi e tratti in salvo guardavamo l’onda prodiera della tempesta sfuggire lontano, vibrante e inusitata dentro spire e secche, alternando correnti, la vita medesima, il bene e il male, la contesa eterna e escatologica da cui uscirne indenni.
Non dico immacolati.
Johannes mi sorrideva, e con la voce raspante dell’atono, dell’uomo senza corde vocali, con un buco al centro del collo, setacciato come da un succhiello, ricucito da parte a parte, l’uomo dicevo e la sua voce raspante riusciva a sillabare: ce l’abbiamo fatta.
E intendeva: ce l’abbiamo fatta a salvarlo. Lui, il misero, l’orfano.
Tutto l’errore del mondo.
Ce l’abbiamo fatta.
A salvarlo. Salvarli tutti.
L’anatema, da urlarci sopra. Cosa dobbiamo salvare se noi stessi inciampiamo nel nostro dolo, senza esequie?
Lo porgiamo al mondo più scaltro che mai e lo vogliamo intendere sacrificio.
Il sacrificio, il nostro dolo che soppianta l’altro, l’esecrabile da accudire, si enuncia appropriato, non migliore, l’ablazione sul finale. Quella riuscita male tuttavia.
Come abbiamo salvato l’altro?
Johannes raccolse quel cencio che era un uomo, beveva maledettamente.
La notte ricevevo strane telefonate. Balordi, criminali. Vorrei raccontare meglio la mia vita. Non lo faccio con esattezza. Si chiama orgoglio o decenza, non abitano la mia via.
Al Tempio non raccontavo nulla, le vecchie dovevano sapermi la creatura che avevano imparato a compatire. Inutile, rifiorita a tratti nell’abitacolo di qualche infelice conversazione, piantonata da vari non emendabili mea culpa, sillabazioni, balbettii, insulsaggini, tipiche di cotali soggetti in esodo perpetuo, sbalzati fuori dall’ampolla, interrotti. La ragazza interrotta di Susanna Kaysen al McLean Hospital. Sapete?
Sì?
E intanto scrivevo. Scrivevo del cavaliere errante. Era Johannes, voleva salvare tutti. Anche io. Io ero giovane, fragilissima, una collana di perle al collo.
Johannes coltivava radure di nepetella e timo. Io amavo molto invece i fiori del pensiero, di ciliegio, i cipressi e i cespugli di cilestrina.
Ascoltavo la canzone della nonna,
La mia piccola rondine partì
Senza lasciarmi un bacio
Senza un addio partì
Non ti scordar di me
La vita mia legata e a te
Io t’amo sempre più
Nel sogno mio rimani tu
La cantava mentre cucinava o rammendava oppure cantava
Parlami d’amore, Mariù
Tutta la mia vita sei tu
Gli occhi tuoi belli brillano
Come due stelle scintillano
La voce era di Vittorio De Sica.
Il neorealismo, il cinemascope, il bianco e nero di Roma città aperta. La mia infanzia. L’Umbria.
Rimettersi in viaggio a ritroso è una forma di consolazione, ora che osservo la riva, quasi la sfiorassi, nell’ultimo o penultimo guado.
Al Tempio si compiva ogni memoria. Si esaudiva.
Indossavo un cappellino intrecciato a uncinetto, molto francese, una rosa sulla tempia. Lo aveva intrecciato la nonna. Ero una bambina. Le vecchie non avrebbero creduto mai che lo fossi stata veramente e qualcuno che non lo fossi più veramente.
Non avrebbero creduto mai che avessi potuto imparare la nobile arte di stare al mondo, svezzata alla risata grassa e cinica di una qualsiasi megera. E quello era già vivere.
Abituarsi agli addii, alla finitezza delle cose, alla volgarità con cui ogni faccenda si estingue nella consunzione, di norma non elegante, non discreta, a patto di ignorarla con giusta ragione. Evitare l’encomio e il disgusto, nell’identica maniera. Ogni cosa finisce.
Benché ogni cosa sia illuminata anzitempo, nell’andito speciale, fino al passaggio misterico. La riconversione dell’avvenimento ogn’ora caduco in un fatto di radiosità immanente.
Ogni cosa è illuminata.
Non lo dico io.
Lo dice Jonathan Safran Foer.
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature
*In copertina: Ofelia secondo Ernest Hébert (1817-1909)