17 Giugno 2022

“Parlavamo la lingua del Cielo. Di cose che quaggiù non possono dimorare”. Storie dal Tempio

Sopraggiungeva la penombra, sferzante, di sbieco al colonnato dorico. Il Tempio era arroventato, i cespugli di oleandro erano assisi, erme millenarie spostavano la curiosità dei turisti, oltre la recinzione, sotto archi monumentali bruciati dalle intemperie, fin su, dietro la chiesa dell’apostolo San Paolo.

Le anziane mi sedevano accanto. Ed eravamo pensierose, ognuna; le donne con il fazzoletto nascosto in seno, io con la mia serpe, il veleno del risentimento, non aveva alcuna rilevanza dirottarlo al centro del petto, nel mascherone adunco che una memoria slabbrata voleva restituirmi, infilzarlo nel tedio beota dell’indigeno, ignaro di quanta povertà e commozione contenesse quella specie di lungo sonno, non eterno, come la morte, o forse sì; sul crepuscolo, nell’ora del congedo, si celebrava sottilmente, tacitamente, l’armistizio dal giorno, ancora una volta non aveva promesso altro che un replicarsi l’indomani nella medesima successione; la noia e i minuti, il basto su cui piazzare l’inanità opportuna. Un fremito quotidiano destinato ad estinguersi, sotto l’ombra di un melograno.

Per le vecchie del tempio non c’era scampo, il bugigattolo buio era il feretro su cui sistemarsi anzitempo. Dovevo cercarmi un marito, mi consigliavano le vedove. Non lo siamo tutte? borbottavo. Un sussurro, qualcosa di sfuggente, una vipera tra le bacche di ginepro, mi sembrava un segno, un bel no, un diniego orgoglioso.

Non voglio un marrano qualsiasi, no. Dovevo spiegare una nostalgia feconda, non potevo mollarla capite? Mi serve per scrivere, dico all’anziana più addolorata, per cosa non saprei. Un silenzio l’adombrava, un po’ mistica, un po’ tristissima, come soltanto certa sicilianità può succedersi e così repentinamente a uno sguardo fisso, mansueto, sul nulla, su quel che davvero circonda la nostra indolenza: l’esatto nulla.

Non posso, devo dolermi in gran segreto, piangere, consolare con un salmo gettato al mondo o un sospiro su per l’aere. Il Cielo. Deve guardarmi.

Guardami.

Quanto conta la mia preghiera?

Dove va a finire?

Mi ascolti?

Le vecchie volevano andare. Era l’ora. È sempre l’ora, per separarsi. Interrompere una sequela che a forza di stringerla diventa una morsa, un miele strizzato e nauseante, succhiato da favi avidissimi. Bisogna smetterla, dico all’anziana più seria.

Sorride, di un sorriso siciliano e secolare, mi stringe la guancia con due dita tremolanti. Gioia mia. Dice.

“Gioia mia, quanti anni hai?” chiede, serrando gli occhi piccoli e cisposi. Una crocchia di capelli radi intrecciati alla maniera di un mausoleo o un convitato di pietra. A saperlo essere davvero. Non temere. Non temere.

Chiede: Quanti anni hai?

Non lo so.

Un tale attraversa la piana metafisica del Tempio. È un fuori di testa, impreco. Cinquantenne, un ex qualcosa, un ex carcerato, un pervertito. Non lo so. Ha un vecchio stereo portatile, una di quelle radio avveniristiche negli anni ’90, poggiata sulla spalla, la sorregge con il braccio cadente, una mano enorme e sgraziata. Da lì proviene un suono gracchiante. Poi d’un tratto è la voce di Amy Winehouse a scandire, sul resto, la nitidezza, una potenza roca. Mi costringo al petto tutte le evocazioni, risuonano nel cembalo vuoto, sarei io, sorpresa da una congerie di eccezioni, mi riguardano tutte. Non posso aggiungere molto, ma Back to black è una reiterazione del sogno sfinito, dell’attesa paziente che diventa ricorsività spalancata sugli anni.

Io aspettavo, nella dimora della ricorsività, che non ha ricondotto al talamo. Niente niente.

Sedevo sulle panche, negli anni, allora erano anche le panche di un centro commerciale. Dagli altoparlanti, la voce di Amy mi raggiungeva come iridata di ogni malinconia, bussava alla medesima porta, la malinconia, una perdita, a scansione, da accompagnare. Una perdita.

Ero smarrita. Il pianto segreto.

Sono al Tempio, ancora. L’anziana più solenne aspetta la risposta. Quanti anni ho. Dipende, insomma, dovrei capire da quale ante litteram cominciare.

Johannes, il patriarca, sapeva calmarmi. Di solito citava Giobbe, nel suo destino, Giobbe era il suo destino. Io piuttosto ero la vedova bianca, Isaia: libro 54. Sconquassata dalla tempesta. Così ti ha voluta il tuo Dio. Lo spirito affranto. L’abbandonata.

Parlavamo la lingua del Cielo. Di cose che quaggiù non possono dimorare. Sono strane. Diventano avulse, ci fanno avulsi. Soggetti anomali, conficcati nel mondo, per una manovra ardimentosa del fato che può diventare calamità, o se siciliano: fatalità. O tornare e retrocedere e perdonare. Ed essere destino e basta.

Certe volte sbattevo i piedi come una bambina. O saltavo su con tutta la rabbia nel corpo. E avrei urlato cosicché il tempio e i suoi meschini figuri avessero udito il perché più straziante e irrevocabile che mai più, mai mai più, avrebbe tuonato altrove. Ma non mi interrogavo, non urlavo, non saltavo su.

Puoi spostare un versetto? Accomiatarlo? Renderlo domestico, contiguo a una media accettazione dei fatti, nella normalità, nella domestica innocua normalità?

No, direi di no.

Johannes, il patriarca, mi chiamava Scurpiddu, come lo Scurpiddu di Capuana, che non affrettava il passo per non ferire i pulcini e le chiocce.

Esile e rispettoso.

Ma io ero feroce, un pettirosso, il pettirosso da combattimento della Domenica delle Salme di De André.

Alla fine del vicolo inforcava un lungomare, un terrazzamento sull’azzurro. Al bivio, sopra dune sfregolate dalla salsedine e dallo scirocco, fiorivano gigli selvatici, accanto al brillio immemore di rovi di ginestre, spese al sole come un suggello. Il sole nella fine del giorno, scoscesa in tralice e sentimentale, violacea, pazientava sul nostro capo, similmente a un’orma gigantesca, che non noti subito dapprima, semmai voltandoti, come quando cammini sulla spiaggia e certifichi, rivelandoli, i tuoi stessi passi soltanto voltandoti indietro. Anche questo è un destino impresso negli accidenti.

Il destino dei fatti smarriti.

Il castigo preciso per il peggiore dei crimini, o una virtù al contrario: la distrazione.

Finiva il giorno. In tal modo. Finiscono le cose, come dire: verifichi te stessa, all’indietro o dimenticando. D’un colpo, trattenendo il respiro.

@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

Gruppo MAGOG