Johannes sedeva al tempio. Lo trovavo già lì, mentre le vecchie parlavano tra loro. Con me bisognava salvare sempre qualcosa, qualcuno. Lui diceva di essere un acrobata perciò, bisognava perfezionare il coraggio degli arrischiati, “a starti dietro”, diceva. Non avevo da perdere, nel senso: molto altro. Potrei riassumervi faldoni di traversie, le chiameremmo innocuamente curiose faccende di vita famigliare. Rovesciamenti sfacciati sotto un timido sole di dicembre. O non so, sfighe stellari struggersi sulla terra, proprio sul davanzale di casa mia. Quale casa?
Dovrei aggiungere: nulla da perdere, monsieur. Lasciatemi in pace, dormire sbracata sotto le macerie. Le macerie sono parole da tirar su per accompagnare lo scorcio, il brano di un giorno, un mese un anno un secolo, fino a quando si capisca una volta e per tutte che l’arco teso e che vibra e stende la cima di una cavezza, piuttosto che rilanciare la minaccia di uno strale, rintrona la superbia di una coccarda al massimo, con il suono irritante di un petardo. La damigella bendata vigeva sul tribolo. Onnipotente sul tribolo, perché nulla scongiurasse il finale disimpacciato di rogne. Johannes mi guardava sorridendo, la voce raspante dell’atono senza corde vocali, si esprimeva con una lode nel gesto delle mani, alzate verso il cielo. Ringraziava il Padre.
E con la voce raspante emetteva il suono che io riconoscevo, oppure lo riproduceva sulle pagine volanti che teneva in tasca, ricette mediche, raccomandate postali, dépliant di un centro di meditazione o di un supermercato, scriveva: niente è mio se non per dono. Di sbieco, in calce, sul bordo.
Allora diventava una specie di sciarada, per dono. Tutto unito è: perdono. Hai perdonato?
Quanti dovrei? C’è un numero fissato?
Perdono: è la coniugazione di un verbo. Sai, un verbo che ami tanto.
Io lo amo tanto?
L’altro, l’alter ego disinvolto, direbbe: sì, perdere, per scrollarsi di dosso la briga di vestire una qualche identità. Una questione che ti ha incaricato, al primo vagito hai già un mestiere davanti. La professionista del piagnisteo con dovute eccellenti occasioni di riscatto e talune obiezioni.
Del tipo: perché, di grazia, perché?
Johannes sorrideva, non come sorridevano le vecchie, un po’ turbate un po’ con la loquela da povere del rione. Ci sono migliaia e migliaia di Cristi, scriveva Malaparte. Non è vero che Cristo è morto una volta e per sempre, scriveva nel misticismo nero di un romanzo ferale. Che poi quando le vecchie sono morte, almeno un paio di queste mi hanno cercato. La vedova, sul letto d’ospedale, con il fegato consumato dalla cirrosi, il figlio morto di overdose, la casa popolare venduta al pusher. La vedova chiede, prima di chiudere gli occhi: dov’è la ragazza? Come si chiama?
Io dov’ero? La vidi camminare una mattina sotto il sole filaccioso. Era estate. Le buste trascinate come se fossero – e lo erano – il travaso di vite multiple e abbandonate, cenci, mondezza. I piedi deformi dentro le ciabattine slabbrate. La vidi e mi indispettii e non so la ragione o volevo evitarla la ragione o mi vergognavo di me, millantatrice di una falsa vocazione filantropica. Come fai ad amare l’altro, se non smetti di detestare il fulcro lontanissimo? Al primo vagito, ti inchiodano un destino in fronte. Una spina.
Ti sbattono davanti i poveri della terra, ti cadono sulle braccia, vorresti lasciarli andare. Lasciali andare. Non li ami. Ti amano loro.
Lasciali andare.
Un pomeriggio andai a trovare la vedova con il figlio morto di overdose e la casa popolare venduta al pusher. Entrai nella grande sala di un fondaco. Mi guardai intorno, la trovai seduta su una panchetta. Scomoda, impacciata, sembrava che dovesse togliere il disturbo da un momento all’altro. La casa di riposo Il roseto.
La vedova si illuminò in viso. Mi raggiunse con il passo malandato e i piedi deformi nelle ciabattine lacere. Illuminata così da sembrare un girasole, una corolla di un fiore, un fiore di campo, un fiore nel giardino dell’eternità, la prateria celeste dei dolenti, pallidi e con le labbra smorte, li decantava De André, e che gran pianto alla fine di quel testo che era un salmo, Preghiera in gennaio, e capivo allora che sarebbe morto l’amico, l’amico di allora si chiamava Adam. Non conoscevo ancora Johannes. Adam era russo, aveva una moglie e una figlia concertista, e una casa con il tetto di legno su cui nidificavano le cicogne. E le ruote di fieno. Così Adam è morto di tubercolosi. E poi è morto anche perché beveva.
Perché bevono fino a crepare. I bevitori.
La vedova mi raggiunse con il passo esitante. Mi disse: signora Veronica.
Mi chiamava signora Veronica. Ma quando è morta ha chiesto: dov’è la ragazza?
È morta con la morfina.
Un pomeriggio di ottobre sedevamo al Tempio. E guardavamo entrambe giù oltre la recinzione, i ruderi, qualche metro più in là gli oleandri.
Sembrava possibile tornare a una vita. La vita come un incanto, pencolante in istanti di solidissima felicità, ancorché rapida, ma non puoi chiamarla felicità, soltanto dopo qualcuno, qualcuno sì, dovrà farlo per te, o altrimenti ritornare sommariamente allo start e ammettere che si è stati felici perché non lo si sapesse fino alla fine. Ed era la doglianza futura a scandirne il confine. In quell’istante, acuminato come un diamante, il poggio della felicità, conficcato da alabarde di sconsideratezza, ivi eri stato felice un tempo spazientito.
Adam era l’amico russo. Morì in agosto. Aveva sfondato un loculo, nel rione popolare, era umido e buio come un loculo. Morto.
Finisce così. Sempre così.
Aveva gli occhi sbarrati. E una croce al collo. Gli occhi allungati, smorzati in una fissità pietosa. Occhi celesti.
Voglio dire, finisce sempre che sulla soglia di una dipartita si abbia la certezza laconica che ci sia una stagione fissata. Ci sembra veloce, impaziente. Finisce subito.
Quando appresi della morte di Adam, ho immaginato le sue braccia incrociate sul petto e la Croce, nella prospettiva ingigantita, elevarsi sul resto miserabile che crollava, crollava una pioggia di calcinacci. È finita Adam, è finita, mormoravo, e mescolavo insieme tripudio e rovine. Da allora un certo pianto ha irrigato sentieri e vigne sconosciute.
Verrai a visitare la mia, e quando? Finalmente. Quando?
@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature