29 Luglio 2022

“La seduzione dell’errore”. Storie dal Tempio

C’è un divenire delle cose o un farsi delle vicende che in superficie paiono conclavi insensati di accidenti. Il fatto sbattuto in faccia alla provvisorietà o ancor di più alla casualità. Come non so due tizi barbugliare ubriachi sotto l’ombra del melograno, crepare l’indomani, crepare prima della bestia che si trascina al fianco, crepare e non aver piantato altro che gramigna, rogne per gli altri, lasciare al mondo torme di correità, senza valore, senza un crimine esauriente sul finale; uomini simili allo scaracchio di una carcassa, qualcosa di precipuo a una identità, un significato umano. A ben vedere, non chiami uomo il soggetto deprecabile, eppure ammetto di averne subito la seduzione, la seduzione dell’errore per cui sai e puoi ergerti sopra e dichiarare guerra e vincere all’istante, puoi vincere sull’epa molle del bevitore, del sacco vuoto altrimenti detto peccatore.

Non c’è niente di evangelico in quel che medito. Il peccatore è lo scandalo, voglio dire, la ragione dello scandalo.

Al Tempio ne trovi quanti ne vuoi. Le cicale nella controra sono il mio Requiem. L’upupa o il barbagianni la notte idem. Puoi morire di tristezza per il frinire delle cicale nella controra.

Uomini afflitti. Fissavo la punta delle mie scarpe, col decolleté, fuori stagione. Meglio che fissarli questi bovari col destino imbrattato di fatica lurida, di terra da disossare. Zolle troppo dure, corbelli da riempire di frutti dell’albero avaro. Frutti cattivi, vinello ammalorato in brocche dai fregi sbeccati.

Dove andavano? Piegati nel fosso di pensieri ricurvi nell’idioma, abbuiati da meraviglie non traducibili, stordimenti popolani, efficaci per sopravvivere. Il non sapere deve dominare la miseria, perché diventi il cappotto di albagio, rozzo, ostile, da indossare, patendo senza ribellioni teoretiche, guizzi dell’intelletto vispo, cinismo di intelligenze superiori, perché tutta la miseria indossata, come un volgare pannozzo, diventi assurdamente la conversione degli altri, l’alone di bellezza inviolabile, il barbaglio sfuggente. E proprio alla fine di una miseria. La pietra dello scandalo brilla al sole similmente alla mica dai riflessi argentati.

La pietra di scarto è diventata la pietra d’angolo.

Man mano, le vecchie scendevano dal vicolo, percorrendo lente e malinconiche giaculatorie di devozione. Tutto atterriva al Tempio, sotto il cielo arroventato dei tramonti e specchiato nelle estati e nella controra; o quando ogni voce, agire, animosità, si perdeva nell’ozio contumace e il deprecabile nell’esergo di un areopago vibrava di risentimento: tutto atterriva nella constatazione di esservi in quel preciso istante e nel mezzo di un castigo qualunque, destino o vita chiamatela come credete, persino un castigo abraso prossimo a certe rocce sul mare avvitato e blu, sondante abissi smemorati, gabbiani bianchi e dal piumaggio boffice e impaziente, sulla cima del costone.

Potevo salvarmi gettandomi nei luoghi migliori che la memoria scansionava con scrupolo, culla ascetica, placenta forbita di omissioni. Io ero una bambina. Eccoli i luoghi migliori, la discesa di bitume infuocato, l’albero di carrubo, nel podere ingiallito dall’arsura di agosto, una capanna di canne di bambù, sentieri di fusti di ulivi, una brace fumare.

Raggiungo il mare, ai piedi indosso zoccoletti con la cinta di cuoio, celestina.

Ogni cosa nel mio desiderio di bambina doveva essere un vezzeggiativo. Anche i colori. Ma ero il puledrino gagliardo e dal costato fremente, che l’occhio del padrone non guarda.

La spiaggia è la rena sconfinata che risale il pendio fino ai costoni sopraelevati. Radure bruciate, roveti, cespugli di more, il crepitare della luce sulle spalle. Arrivo sul confine tra la roccia e lo scoscendimento, le acque si irradiano dal centro fino ai segreti dei fondali, nel diametro cristallino, chiarissimo, ad intuirne un qualche seguito con l’infinito, una necessaria parentela con il bisogno di eternità, che ci perseguita; il singulto con cui il sonno si interrompe senza ricordarsi i segreti della sequela, da dove veniamo, da quale amore ascoltiamo scandire il suono del nostro nome, pronunciato nella perennità, da cui giunge il ristoro, talvolta, a sapere ascoltare il sussurro, tra i rami, la sera.

Sono una bambina. Ho i capelli bruni. Un delizioso caschetto, la frangia. Piccola. Selvatica. Indosso zoccoletti ai piedi e un costume blu, dello stesso blu del mare aperto, alle due del pomeriggio.

Quando mi lascio cadere, con la schiena diritta e attenta che l’urto con le acque sia gentile, sono quasi sicura di aver agguantato la cuccagna nella giostrina della ruota che gira, il pannozzo alla fine, il premio.

La felicità.

Nell’istante attesissimo ho raggiunto una forma di felicità rapida, eloquente, prima di sprofondare nel paziente tacere dei flutti.

E scendere giù, concordando il tempo esatto, il silenzio quando diventa ostile, la pressione recondita, invincibile, il ripudio e la sofferenza che le stesse acque placide e della pazienza or ora restituiscono. E dunque devo risalire.

È la felicità. Quel che dura, quel che promette nel mondo. Breve. Con un tradimento o una meraviglia buia nel colpo di coda. Il patimento. L’inevitabile emancipazione dalla medesima, breve ingannevole istante, breve ingannevole esercizio di pazienza.

Qualunque cosa sia, lo ero. Emergevo dal verde, nel raggio adamantino e d’intorno i pesciolini guizzare a ricordarmi la gentilezza dei vezzeggiativi, la gentilezza nell’innocenza.

Emergevo dagli abissi appena intercettati. Ero felice. Brevemente. Pressappoco.

Pressappoco è la misura della felicità, come qui ci è consentita.

Ripercorrevo il sentiero, la rena sconfinata, sceglievo un canto e sulla sabbia ardente stendevo il mio corpicino, nella direzione di una croce. Non proprio la felicità, ma un sentimento arcaico, il brivido del calore prolungato, le goccioline salmastre scivolare dolcemente tra i fianchi e le braccia sottili, diventando aureole biancastre. Le labbra serrate, un combattimento di punti verdi rossi gialli sotto le palpebre, ogni ricordo assommato e raggrumato, persino quelli non miei. Una trascuratezza feroce nell’universo degli adulti, calpestato da passi pragmatici, era una questione che meritava l’appellativo di libertà.

Era quella la libertà, la trascuratezza feroce d’intorno, senza perdono.

Il sole di agosto. La casa malinconica sulla rupe. L’idea confortevole e insieme paurosa di un autunno secolare, di anime redivive, di assenze nobilissime e vitree. Anche questo confuso meditare nei pulviscoli colorati sotto le palpebre chiuse era simile a una questione di libertà o felicità.

Tornava l’autunno e presenze amene o sepolcrali.

O cosa?

Rifacevo il sentiero, fino al podere con il carrubo, la brace fumante nel giardino di ulivi. Il vagabondo che vi occupava ubriaco la capanna costruita con canne di bambù.

La luce della canicola bruiva addosso, scandendo, come in un solfeggio, i brividi improvvisi, una sofferenza profetica.

@Veronica Tomassini/emmeeerre letterature

*L’immagine di copertina è di Jacques-Louis David; le immagini nel corpo del racconto sono di Edward Lear

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