Morale o moralista? David Foster Wallace, il Dostoevskij americano
Politica culturale
Il tempio è un luogo metafisico. Una piana di pietra bianca e obliqua, un selciato in tralice, le panche riparano sotto ramoscelli di melograni. Di fronte ci sono i ruderi del tempio greco, il tempio dorico dedicato ad Apollo, che diventò una chiesa bizantina, una moschea, una caserma spagnola, rimane un tentativo di stilobate, la cella, gli oleandri fioriti, le bacche di ginepro, oltre le stradine che proseguono nella contemporaneità.
Io sedevo al tempio. E andare al tempio significava molte cose, contaminarsi, meditare, riassumere una qualche vita, la più grassa e oscena, la più infelice o sudicia o finanche la via gretta verso una illuminazione, tipo: la vita è semplicemente un conclave di uomini spersi, che sorteggiati insieme contagiano il mondo di abominevoli inutilità, idiozia, asperità. Era una specie di linguaggio in codice, vediamoci al tempio, con l’amico, il mite, l’uomo senza voce. Si chiamava Johannes. Johannes che leggeva Giobbe la sera, in special modo.
Diceva di essere ebreo, per ciò indossava il tallèd. E un bastone intarsiato che avanzava come un cespite sulla punta svettante, consumata da una raggiera leonina. Legno lucido e bruno istoriato da venature d’oro. Sedevamo al tempio perché era povero, ma non per tutti, nella nostra prospettiva lo era, traghettatori di avvenimenti di solito esosi, o stralunati, qualcosa che non poteva mai incontrare l’assoluzione gratis et amore Dei, eccetto del reprobo, o ancor meglio di una compartecipata attitudine. Ho scontato i miei anni biblici, al tempio. Ne ho contati sette, come le sette piaghe d’Egitto, negli anni della giovinezza. Gli altri non concludono ancora una cifra apocalittica, un numero biblico, un segno, devo rifletterci. Quanti anni sono passati?
Ora che si chiude un grande ciclo, l’orbita dentro cui rovinavano uomini forgiati da ogni disdetta, precipitati similmente al fuoco e al terrore dal cielo, ghiaccio e fiamme, uguale alla sventura reiterata proscritta in una pergamena ante litteram, applicata a faccende umane.
Come i sette anni biblici. O le vedove, che versano tutto quel che hanno, pochi danari, nel tesoro del tempio.
Sedevo con loro. O con Johannes. Così man mano veniva configurandosi una certa avulsa vita, menomata di una qualsiasi grazia estetica e evidente. Al tempio la mia identità, che prescindeva il canone adeguato, incapace di esprimersi senza essere lo scandalo per qualchedun’altro, diventava un fatto necessario e insieme inabbordabile, esserci in quanto elemento vano e di contrasto al resto che non poteva senz’altro superarmi in meschinità. Al tempio srotolavo la cavezza di un bandolo non curandomi affatto che mai e poi mai avrebbe preteso di tracimare la cruna dell’ago. Il mio amico un tempo cantava. Ero l’unica che sentiva la sua voce, e ne ero sicura. Traducevo per lui, agli indigeni. Era muto. Le corde vocali tranciate. Un buco al centro del collo. Quando è morto, è morto per il buco al centro del collo, mentre le acque del mare risalivano e brillavano nel verde smerigliato di una mattina di settembre. Lo hanno sommerso, sotto la cala del porto. Traducevo per lui agli indigeni del tempio.
Indigeni incespicanti e patetici. Si può imparare ad amare il sacrificio maldestro, l’esempio empirico di una volgarità talvolta cisposa, talvolta perdonata. Ma amare i poveri: non saprei, qualcosa di teologale, astratto, impreciso. Qualcosa che non succede se non costretta dal chiodo che ti salda alla tua croce. Il chiodo che tu non sai mai hai ben conficcato al centro della mano. Potevo persino tacere, al tempio.
E guardarli tutti attraversare la piana bianca, un profilo sgomento e di traverso, eccitati e smodati per un ciancicare vano, sproloqui rabbuiati dall’ignoranza.
Il pederasta con il cappellino della squadra di baseball americana. Il mito americano sbarbato fino alla modestia del sottoprodotto di un sottoprodotto, un film americano, una banalità in serie qualsiasi, da adottare fuori tempo massimo. Eroi da vasectomia ancora in lizza, bicipiti gonfiati, qualcosa di americano e ridicolo schiamazzare sulle labbra indignate del volgo, che trasuda in dialetto un ibrido plastico, una combutta ridicola tra arcaico e importato. Un millenarismo da due soldi sul finale dentro cui leggerci gli ultimi versi di varie apocalissi.
Ed eccola la fine smorta. La anticipava il tempio. Smorta, piccola.
Così certe profezie con Johannes riuscivano, e li perdonavamo tutti. Lui più che altro aveva il vizio di perdonare tutti e alzare le braccia al cielo ché sembrava un patriarca.
Non aveva un destino da chierico. Però posso dire che siamo stati salvati. In un plurale ipotetico, anche. Salvati, da una mitezza che compatisce. Essere capiti fino al limite disumano. Una comprensione smisurata, simile a una preghiera, alla stregua di una maglia che cede nodi su nodi. Ogni guerra taceva.
Nessuna creatura poteva essere tanto avulsa da non appartenerci nella commiserazione disumana, fino a non distinguere oltre i confini tra noi e l’altro. L’altro con i connotati deprecabili si ergeva santificato nella certezza che Johannes esprimeva certune volte teatralmente degna del Padre, di un Amore sovramondano. Io ero perdonata. E smettevo di agitarmi, di combattere battaglie che avevano smesso di scavare trincee e far fumare canne di fucili caricati a salve.
Io ero perdonata.
Le vecchie del tempio mi aspettavano ogni pomeriggio, e se tardavo, Johannes mi avvertiva con un messaggio: sono tutte in pensiero per te, scendi?
E io correvo da loro, per non fare nulla, per non dire nulla. Fino alla sera, per poi guardare distrattamente l’ora e concludere: adesso vado.
E non sapere esattamente dove, tornare. Bè, poi tornavo.
Dove? Da chi?
Veronica Tomassini
©Veronica Tomassini
*Il racconto è illustrato con opere di William Blake