“La vita non è altro che nebbia”. Unamuno, hidalgo dello smarrimento
Libri
Silvano Calzini
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Politica culturale
Quello tra Robert Louis Stevenson ed Henry James fu un rapporto di profonda amicizia. Quando l’ultimo eroico erede della tradizione romanzesca inglese e il primo autorevole arbitro della nuova letteratura americana si conobbero erano entrambi in cerca di capire dove stava andando quella forma inafferrabile che chiamiamo romanzo. Come l’odore della pantera nei bestiari medievali, il romanzo sembrava infatti ovunque e da nessuna parte, dilagato impetuoso per il secolo della borghesia trionfante. L’amicizia tra i due si configurò quindi subito anche come un proficuo incontro-scontro tra due differenti modi (termine che con Frye ha assunto valore tecnico nella teoria letteraria) di intendere la scrittura romanzesca.
Si incontrarono per la prima volta nel 1874 al Savile Club di Londra. Da una parte un ventiquattrenne scozzese dal passato turbolento e ancora alla ricerca della sua vena letteraria; dall’altra un trentenne newyorkese, già affermato per la sua torrenziale produttività, che stava flirtando con la cultura inglese per cercare di lavarsi dal peccato di essere nato in una terra selvaggia. I due inizieranno un fitto dialogo epistolare, rimanendo sempre in rapporti che definire da Amici rivali, come recita il titolo della raccolta delle lettere pubblicata in Italia da Archinto, è forse eccessivo. O se vogliamo possiamo ammettere in effetti la rivalità solo in senso professionale, cioè rivalità tra idee diverse sul proprio lavoro. Perché al di là delle polemiche letterarie il legame che univa Stevenson e James fu davvero forte se quest’ultimo, alla morte dell’amico nel 1894, ammise di aver perso “una delle ragioni più grandi e salde… per andare avanti, cercare di lavorare, progettare e sognare il futuro”.
Lo scambio epistolare assume il carattere pubblico della discussione su rivista quando nel 1883, dopo un passaggio in sordina sul giornale per ragazzi “Young Folks”, viene pubblicato in volume Treasure Island, riscuotendo grande successo. Il romanzo che, come scrisse Tabucchi, ha «dentro il vento, la fantasia e l’infanzia» apparve subito un mostro strano al severo scrittore di interni e ritratti borghesi sulle due sponde dell’oceano.
Non stupisce quindi che l’anno seguente, nel suo influente The Art of Fiction, James affronti anche l’opera del caro amico in termini incerti e incapaci di definire cosa veramente sia questa meravigliosa avventura senza scrupoli. Il discorso teorico del saggio verte sulla necessità di un approccio serio al romanzo, di prenderlo per una vera e propria forma artistica, governata da regole e precetti precisi. Le osservazioni di James su una forma di realismo molto particolare, l’«aria della realtà» e l’«illusione della vita», includevano alcuni riferimenti all’Isola del Tesoro. Si trattava sì, secondo l’autore, di una storia «incantevole», ma con un inconveniente: lo scrittore americano non riusciva a identificarsi nel racconto: «È vero che sono stato un bambino anch’io, ma non sono mai andato in cerca di un tesoro sepolto». E qui la memorabile risposta di Stevenson rivela tutta la distanza tra il pragmatico artista del nuovo mondo e la sorniona wit della antica nobiltà scozzese. In A Humble Remonstrance, pezzo uscito come diretta risposta al saggio di James, Stevenson infatti afferma: «Ecco, a dire il vero, un paradosso voluto; poiché se egli non è mai stato alla ricerca di un tesoro sepolto, si può dimostrare allora che non è mai stato bambino». La chiusa elegante sottende un discorso che in realtà si articola in argomentazioni ben precise, dato che Stevenson procede a una strenua difesa del suo modo di intendere il romanzesco. E il centro del suo pensiero è che le avventure e le strane marionette che sono Jim, Long Silver, i pirati, ma poi anche Jekyll e Hyde, i fratelli Ballantrae, personaggi non circoscritti in una arbitraria analisi psicologica come i protagonisti del realismo e naturalismo borghese, dicono con la loro buona dose di iconicità molto di più sui sentimenti e le passoni umane di quanto faccia un volumone di particolari su tazzine di thè e descrizioni di sguardi.
Nel suo precedente saggio sul romanzesco (A Gossip on Romance, 1882), Stevenson aveva delineato chiaramente questa concezione che tende verso un naturale edonismo dell’esperienza letteraria: «In qualsiasi cosa meritevole del nome di lettura, il processo stesso dovrebbe essere avvincente e voluttuoso; dovremmo divorare con gli occhi il libro, restarne estasiati e, terminata questa lettura meticolosa, rimanere con la mente ricolma di una fantasmagorica, sfrenata danza di immagini, incapaci di prender sonno o di pensare ad altro. Le parole dovrebbero continuare a risuonarci nelle orecchie, come il fragore dei marosi, e il racconto, se di racconto si tratta, riproporsi con mille immagini variopinte di fronte agli occhi». Il discorso prosegue poi verso il nucleo della sua teoria: meglio prediligere l’ideale al reale, o meglio cercare di rendere realistico l’astratto e l’iconico, ciò che chiama «poesia della circostanza». Il realismo imperante della sua epoca rischia al contrario di dire ciò che non serve, di perdere la visione d’insieme e la componente mitica della letteratura. Il romanzo moderno di avventure, erede del romance tardo medievale e poi rinascimentale, porta con sé quegli archetipi antropologici, tratti anche dalla fiaba e dalle parabole orali, che secondo Stevenson sono tutto ciò per cui vale la pena scrivere. Qui sta la grande distanza, questa volta artistica, con James. Perché i ritratti di signora e le scene di vita sociale così ben descritti dallo scrittore americano non contemplano minimamente la via epico-fiabesca scelta da Stevenson. Pur ammirando il sapiente gioco letterario dell’amico, James non riesce a capirne i risvolti profondi e direi tragici. Come il gioco dei bambini la scrittura per Stevenson è infatti piacere, desiderio e fantasia presi tremendamente sul serio. Nel seguito di A Humble Remonstrance troviamo: «credo che, nella maggioranza dei casi, si dimostri vero il fatto che l’artista scriverà con molto più gusto ed efficacia intorno a quelle cose che ha soltanto desiderato di fare, che non a quelle che ha fatto. Il desiderio è un telescopio meraviglioso».
Ecco, se dovessi scegliere un’epigrafe all’opera di Stevenson, sceglierei questa: «Il desiderio è un telescopio meraviglioso». Partire dal desiderio, naturale e gioioso come il vento in faccia, per raccontare l’uomo e le sue cose è stato il credo dello scrittore scozzese. E non senza una tenera ironia Stevenson ha tentato di coinvolgere il caro amico nella girandola di paure e meraviglia che è la sua opera, se è vero che ha scelto di chiamare i due fratelli Ballantrae dell’omonimo romanzo proprio Henry e James. Due fratelli fatalmente legati e divisi, come i due scrittori in vita.
Filippo Reina
*In copertina: Robert Louis Stevenson secondo John Singer Sargent, 1887