21 Dicembre 2019

“Sarei uno stupido sentimentale se ti immaginassi un esiliato come Joyce, un ribelle alla Van Gogh, un solitario alla Rilke. Avrai il tuo posto di lavoro, la tua burocrazia, non preoccuparti”. Riscopriamo Stephen Spender, il poeta che ha diretto la rivista culturale della CIA

C’era una volta a New York una rivista bizzarra di nome Encounter. Fu fondata nel 1953 da Stephen Spender mentre stava appollaiato sulle spalle dell’aquilotto più grande, W.H. Auden. Sopra di loro volava mamma-falco, la CIA, con discreti finanziamenti.

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La fiaba collassa nei primi anni Sessanta quando, non si sa bene per quale stramaledetta disclosure, vien fatto chiaro chi mette i soldi nella rivista e allora apriti-cielo, nel parapiglia generale Encounter prosegue a scossoni fino al 1990. Ma è l’ombra pallida dell’originale: una rivista nata quando la Guerra Fredda era ancora un piccolo diversivo.

Una rivista, in sostanza, dove facevano capolino i racconti di Brancati e Silvio D’Arzo insieme ai reportage di Barzini sulle famiglie aristocratiche italiane di primo Novecento – un Proust in sedicesimo. Fu Encounter a ospitare il racconto di Nabokov sulla famiglia Vence, la sua piccola smentita su Lolita (Un libro chiamato Lolita), oltre alle prodezze della Yourcenar da giovane (Riguardo il Krishna) e ai soliti sotterfugi di Landolfi russofilo.

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Poi, per rimanere in forma, Encounter pubblicava tra primavera ed estate del 1958 la poesia di Brecht sul tribunale e quella di Saint-John Perse sui vascelli. Ora vi domanderete: perché tanta spregiudicatezza? Perché in fondo la cosiddetta destra, anche agli occhi schematici della CIA, doveva essere un filo anarcoide. Sicché la bella principessa, prima di esser risvegliata dal principe rompi-palle che le dice “guarda che i finanziamenti sono sporchi”, aveva fatto bei sogni.

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Perciò andiamo a prendere la principessa nel sonno. Ammiriamone i lineamenti senza svegliarla. Leggiamoci in pace una poesia di Spender dal nitore michelangiolesco, filtrato da George e Rilke.  Dopodiché passiamo sul divano a bere lo sherry del suo editoriale. Andrebbe regalato a tutte le ereditiere che consumano la cultura patria sugli scaffali di cristallo. In sostanza Spender va al centro dell’editoria nell’età dei consumi: era diventata già allora, negli USA anni Cinquanta, un tritacarne mediatico dove un autore segue all’altro senza coerenza, quando la giovinezza non è più freschezza di novità ed esplorazione, ma un semplice fatto anagrafico. Un mostro che conosciamo bene…

Spender aveva visto giusto: ci saranno sempre più torme & orde generazionali che si mangiano a vicenda mentre, in alto, gli officials della cricca e della consorteria universitaria (come li chiama lui) guardano soddisfatti. E allora buona lettura, felice lettura…

Andrea Bianchi

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Stephen Spender, Orfeo – Adamo – Cristo

Chi canta con dolcezza: è lui che sa ascoltare.
Orfeo che vedeva un albero nei rami del mondo
incantava gli animali: ma per primi furono loro a incantarlo
– ondeggiando nel suo sangue, il loro ritmo fu fatto musica.
Il sole venne alla luce dai suoi occhi; fischiavano gli uccelli lungo le sue ossa:
da entrambe le cose ricavava i toni e li fissava col flauto.
Prima di lui, Adamo fu l’asse della Creazione,
il centro da cui si irraggiavano gli unicorni che gli ruotavano intorno.
Finì per ardere sul fuoco con gli animali
e soffrì con le bestie che ricevano da lui il loro nome
e fece fiorire la vita nell’Eden con parole incantate.
Poi Cristo, inchiodato alla sua Croce, ricevette dentro le sue piaghe
il calice amaro versatovi dagli uomini –
Eli eli lama sabachthani. Di qui –
come Orfeo che doma gli spiriti, come Adamo che nomina il creato –
fece cristiana l’umanità, stretta da amore senza fine
per mezzo dell’agonia trasformata in Inno di gioia.

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Lettera a un giovane scrittore

Caro Henry James Joyce Junior,

Nulla mi fa più piacere dell’idea che gli anni Cinquanta potrebbero essere un decennio nel quale la letteratura riceverà nuovo impulso dalle riviste letterarie (…) e però, invecchiando – mi immaginavo – oltre a capelli imbiancati, denti caduti e profilo imbolsito, ecc, cose che sono successe, mi aspettavo di essere lasciato indietro nella Marcia del Secolo. Invece oggi vedo bene che ogni cinque anni c’è una nuova generazione. Come potrebbe essere altrimenti, quando la gioventù dimenticata di ciascuno è letteralmente qualcosa di preistorico per chi abbia venti anni in meno di lui? Per una matricola del 1939, quella del 1918 [Spender è del 1909, ndr] aveva in mano degli strumenti e dei pensieri ormai scartati dal processo evolutivo – e così va anche oggi coi ventenni, quando l’ultima battaglia per l’impero britannico è soltanto materia d’esame da imparare alla svelta per l’esame. Per non dire degli anni Trenta!…

Bene, mi sono reso conto di questo fatto ma ho comunque fatto un errore. Non ho previsto che il giovane non ha, per forza di cose, gli attributi che io collegavo alla nozione “essere giovane”. Pensavo che essere giovane significasse avere nuove idee, essere “avanti”, sperimentare. Pensavo al giovane come uno che sostiene, nelle arti, i movimenti moderni che sganciano la mente dall’atmosfera industriale sviluppando un idioma adatto alla città moderna. Per me, i giovani erano quelli che buttavano il sangue nella battaglia condotta nel nome del “monologo interiore”, della “rivoluzione della parola” e del surrealismo.

Perciò – dovrei vergognarmene, caro Henry? – il giovane di questo secolo mi sembrava uno che segue gli uomini di genio con degli spunti personalizzati, dopo una digestione immaginifica: James Joyce che accartoccia notte e giorno dublinesi nelle teste di Leopold Bloom e Stephen Daedalus; il primo Eliot, coi suoi Preludi, La Terra desolata e la sua esperienza di sviluppo urbano che sottintende le visioni di Spengler e di Toynbee; Apollinaire che esibisce il suo corpo sensuale e la sua lieta intelligenza davanti ai fucili del Fronte occidentale; D.H. Lawrence che pensa di poter cambiare il corso del progresso creando un sentiero dove i sessi si possano intendere in modo più istintivo.

Così per il mio modo di pensare la gioventù non era semplicemente un fatto generazionale, non era lo stesso che “essere giovane”. La si misurava dalla capacità di sviluppare una mente contemporanea ai fatti, un buon senso. L’idea della “scrittura nuova” voleva esprimere un’esperienza moderna a partire da un certo centro vitale e forniva valori importantissimi coi quali giudicare il mondo moderno.

Se uno guarda così le cose, la gioventù è andata diminuendo a partire dagli anni Dieci: è diventata un lusso. I lieti anni Venti erano troppo cinici perché i giovani andassero a tradurre i dati esterni nel pensiero interiore che Joyce o Rilke erano riusciti a raggiungere; gli anni Trenta furono abbordati dalla politica perché le condizioni basilari della vita avevano reso impossibile, minacciandola, un’arte che fosse antimaterialista; i surrealisti furono coraggiosi, a dire il vero, e strapparono un ultimo brandello di gioventù, ma al prezzo di perdere il controllo intellettuale e consapevole sul loro materiale.

Può darsi, caro Henry, che io non stia scrivendo proprio della gioventù che tu hai in mente quanto invece del movimento moderno, ora fuori corso, che aveva arruolato tutti i giovani, anche quando erano affascinati dai pensieri mortuari di Lawrence o dalla sapienza anziana di Yeats (per dire). “La gioventù” ora tu protesti così, “non è altro che aver 25 o 26 anni e non 40 o 60; i vecchi dovrebbero imparare dai giovani che gli argomenti pieni di significato non sono più quelli di una volta”.

Quindi forse, caro Henry, i vecchi non hanno più diritto di attendersi che i giovani siano moderni.

Ad ogni modo possiamo chieder loro di non cedere le anime agli officials i cui gradi si estendono ai vari reggimenti di burocrazia, pensiero universitario e cricche di critici austeri. Per come la vedo, le aree vitali che oggi vengono paralizzate dal conformismo sono sempre più vaste. Chi accetta il conformismo non mette in questione l’esistenza della società di massa e del consumo di massa, nemmeno quando ne rifiuta i valori. Nessuno prova più a leggere Rilke o Joyce, a digerirne interamente l’esperienza in una vita più interiore, dove questa massa si può sciogliere e ricomporre per dar forma a una nuova civiltà. Forse questo abbandono del vecchio compito lo si deve, in fin dei conti, alla politica: perché oggi nessuno immagina nulla, per cambiare le cose, fuori di lei, e questa rafforza – sempre – il materialismo dell’epoca.

È difficile ora non essere uno degli officials. E sarei un sentimentale attardato ad attendermi una qualche rivolta da parte tua – diventare un esiliato come Joyce, un ribelle alla Van Gogh, un solitario alla Rilke. Potrai entrare a far parte della burocrazia, avere il tuo posticino o il tuo lavoro, un qualche titolo ufficiale per poi fare le scarpe ai tuoi superiori, tutto col tuo spirito ombroso, con la tua forza oscura e interiore. Forse mi capisci e stai già facendo tutto questo, e in questo caso la mia lettera sarà inutile. Può anche darsi, caro Henry, che tu mi prenda per i fondelli quando mostri che esser giovani, in fondo, non vale nulla. Se riesci a nasconderti le cose davanti a te stesso, saresti un tipo sveglio.

Stephen Spender

* traduzione di Andrea Bianchi

**In copertina: Stephen Spender (1909-1995) ha diretto la rivista “Encounter” dal 1953 al 1966

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