“Esistono spiriti liberi e coraggiosi a cui piacerebbe non ammettere che hanno un’anima a pezzi, tracotante, incurabile. A volte, impazzire è un travestimento, per chi ha certezze troppo infelicemente sicure”.
Come i veri duellanti, sa che è bene una parola di meno: conosce l’arte della ritrosia, quando sorride è per distanziarti; spesso arma il sigaro, forse si aggrappa al mignolo del cosmo. Gli occhiali scuri non conferiscono doti superflue all’uomo: chissà dove è posta la differenza tra diffidenza e oltranza. Stenio Solinas mi ha sempre fatto pensare a Charles Marlow, l’eroe difforme di Joseph Conrad, che osserva, racconta, alterna nebbia a folgore, interpreta l’ingrata indole di personaggi diversamente eccessivi, Lord Jim, Kurtz…. In un film – didascalico – di Nicolas Roeg, Marlow è interpretato da Tim Roth, ma secondo me Marlow ha proprio la faccia di Solinas: in continua veglia, nei luoghi arcani del mondo, per gustare una sorta di smarrimento, di gioia giaguaro.
Stenio Solinas – roba nota – appartiene all’alto lignaggio del giornalismo italiano, ha fondato una nobiltà tutta sua, spesso apollinea. In Italia, forse, al di là delle note a margine – ah, Solinas… – lo capiscono in pochi: la sua lingua è ibrida e mutevole, lo stile oscilla tra affioramenti lirici e colpi alle spalle, odia gli ornamenti, la falsa retorica, le sgrammaticatura, la verbosità senza nerbo; nel suo canone spiccano Robert Byron e Wyndham Lewis – a cui ha dedicato, per Neri Pozza, la prima, e unica, biografia italiana –, Bruce Chatwin e Paul Morand, André Malraux, Patrick Leigh Fermor, Drieu La Rochelle, cioè autori che mescolano asprezza e gentilezza, estro giornalistico a sciabolate narrative. Autori, infine, inafferrabili, solitari. A Solinas non piacciono le interviste: è uno che interviene, da sé, secondando le sue stelle e i suoi lari. Per capirlo – o per decorare l’impenetrabile – occorre leggere La bella estate. Un racconto (raccolto in Acquatica, Gog, 2022):
“Io nella solitudine mi esalto, è in compagnia che mi deprimo… L’idea di decidere da me, capisci, di non dover rendere conto a nessuno”.
La parola solitudine, ho contato, ricorre in quel libro poco meno di una trentina di volte.
In fondo, fortunatamente fuori dal proprio tempo – sempre misero, una latrina con qualche spumante intorno – Solinas è un romantico: crede nell’avventura, nell’avvento dell’insolito, nelle avventatezze che danno il senso a una vita intera. Il suo viaggio lungo il Mekong – ancora in Acquatica – ha brividi conradiani (incipit: “Che senso ha risalire il Mekong? Al bar del Majestic, una birra lui, un martini io, Châu mi fissa sconsolato e perplesso”); alcuni ritratti – che velano, con protuberanza di specchi, il profilo dell’autore – affascinano per alterità: quello di Denys George Finch-Hatton, ad esempio, “l’amante distratto di Karen Blixen, uno di quegli inglesi con lo spleen, nati in ritardo rispetto al secolo elisabettiano che sarebbe stato il loro, e che in Africa trovarono il modo di trasformare la passione per la caccia e la vita all’aria aperta in un lavoro” (in La fattoria di Karen, ora dentro Supervagamondo, Settecolori, 2022).
Stenio non cerca l’eccentrico o l’eccessivo. Di ogni vita, di ogni luogo, scopre l’incanto e il punto d’inciampo, il segreto spinato, il mostro – che è poi l’attimo in cui la pietra diventa fenice, la vicina di casa si fa fata e l’attimo dopo tutto si sfata. Di fatto, ripeto – non so se mi ripeto –, ha ideato una nuova aristocrazia dello stile. Che vuol dire? Che Solinas – Stenio è nome conficcato nell’Eneide, di uno che “assale” – riscrive, rimodella, rifà, rivede, amplia gli stessi, miliari, libri. Solo a lui, nel patronimico di uno stile, nell’ascendenza di un rigore anarcoide, è concesso. Così, quest’anno, la pubblicazione di Supervagamondo per Settecolori – che amplia l’antico Vagamondo del 2008 – di Compagni di solitudine per Bietti – che riformula il libro omonimo uscito per Ponte alle Grazie nel 1999 – e di Acquatica per Gog – che assembla un paio di libri, Percorsi d’acqua, 2004, e Da Parigi a Gerusalemme, 2011, aggiungendo materiale finora inedito – è una specie di ingresso nella “Pléiade”, il tributo – non tribunizio, ma vivace, vivo, virile – a un maestro, per natura nazionale ai margini, miracolato dalle forze ostili (ve lo immaginate Solinas marmorizzato in un ‘Meridiano’ Mondadori? Appunto…). Il resto è Stenio: libri che contengono altri libri, a migliaia; un putiferio di storie e di uomini che risuonano nel sogno, quasi un’agiografia, che minaccia e consola, fitta di supreme agnizioni (“Rinascere dev’essere qualcosa di simile, una gioia fragile, un quieto stupore, il non sapere ancora cosa sia il dolore”).
Più che altro, allora, occorre accorgersi degli occhi di Solinas: c’è un ragazzo in agguato nell’iride. Il “genio della giovinezza” scrive Stenio scrivendo del suo Chateaubriand: fiutare il futuro nell’oggi, affittuari della fuga.
Intanto. La vita e l’opera, la vita è l’opera, l’opera annienta la vita. Turba atavica. Come ti poni? Come si pongono gli scrittori che ami?
A Bruce Chatwin, che aveva il feticismo degli incontri, Ernst Jünger oppose una frase di Montherlant, che in realtà era ripresa da Tolstoj: “Fare visita a un grande scrittore non ha senso, perché egli si incarna nelle proprie opere”… Ci si interessa alla vita, che so, di Hemingway, per ciò che ha scritto nei suoi romanzi e nei suoi racconti, ben sapendo che se al tempo avessimo avuto a che farci, con lui come persona intendo, gli avremmo tirato un cartone o, vista la stazza, la sua e la mia, ci saremmo armati di una mazza da baseball… In generale, gli uomini sono una delusione e se sono scrittori deludono ancora di più, proprio perché il loro meglio è altrove. Naturalmente, io ho un penchant per scrittori dalla vita piena di azioni; si è sempre attirati dagli opposti e la mia, di vita, è se non mediocre, banale… C’è quella bella frase di Malraux, “al mercato della esistenza le cose si acquistano pagandole non in denaro, ma in azioni. La maggior parte degli uomini non compra nulla”… Sotto queto profilo faccio parte della maggioranza avara… Detto questo, le Antimemorie di Malraux sono invenzione, ovvero arte, e io leggo Malraux non perché comandava una squadriglia aerea e però non sapeva pilotare, ma perché ha scritto La condizione umana.
L’opera e la politica. O meglio: lo scrittore e la storia. La ignora, la fa? Idem come sopra. Come ti poni? Come la turba dei ‘tuoi’ scrittori.
Un tempo la storia mi piaceva. Adesso mi sembra tutto un déjà vu, e probabilmente ha a che fare con l’età. Quando dico mi piaceva non lo intendo nel senso di una partecipazione… Non ricordo più chi, credo Musil, ha scritto “è segno di grandezza amare il proprio tempo”, perché per quello che mi riguarda il mio tempo l’ho sempre detestato, ma più in generale per la difficoltà di astrarsi da esso, il cercare di non tenerne conto e il doversene comunque occupare, pena altrimenti il restarne vittima. A me piacciono gli scrittori “interventisti”, pur nella consapevolezza che, in linea di massima, il loro interventismo risulterà sterile. Apporta qualcosa alla loro figura, poco o nulla alla loro arte… Detto questo, la storia attuale contemporanea, di noi italiani, naturalmente, perché dovrebbe piacermi? Vivessi in Birmania, in Iran, nello Yemen, qualche motivo per confrontarmi e/o bisticciarmi con essa ce l’avrei, ma qui, ora, l’opulenta decadenza di chi non rischia nulla… Almeno evito il fastidio della retorica, genere di cui, sempre come italiani, siamo prodighi.
Lo scrittore e la morte. Davvero crediamo alla fola che si scrive per vincere la morte, per lasciare di noi un refolo di verbi?
Mi fai una domanda superiore non solo alle mie forze, ma al mio status. Per me uno scrittore è Stendhal, è Tolstoj, è Céline… Che c’entro io? Credo però, ma qui bisogna fare un passo indietro nei secoli, che da Dante a Chateaubriand e quindi fino agli albori della modernità, il tema della morte, della durata, dell’eternità avesse un suono diverso. Nessuno di quelli che scommettevano sull’immortalità letteraria, poteva ragionevolmente pensare che un domani avrebbe ritirato la posta in gioco, ma, come dire, si aveva comunque fiducia nell’al di là… Oggi non c’è più nemmeno quella.
La vita e la morte. O meglio: lo scrittore e il sacro, lo scrittore e Dio. (Oggi – mi pare – gli scrittori preferiscono la sociologia spiccia all’azione politica, il proprio ombelico alla storia, i meri fatti di questo mondo alla lotta contro gli dèi). Cosa dici?
Io ho molto rispetto per il sacro, pur nel mio totale analfabetismo in materia. Sono un panteista che si ignora, troppo scettico perché qualche illuminazione mi metta sulla buona strada. Se capisco il senso della tua domanda, credo che il sacro abbia a che fare con le sfide e i misteri e gli altrove con cui ci si trova via via in contatto o in contrapposizione. Almeno una volta si vorrebbe una scintilla di divino che desse un senso ai nostri miseri ombelichi… Nell’attesa, si continua a sfregare quella piccola pietra focaia di cui è fatta la nostra vita.
Patria. Che senso ha per uno scrittore? Il nuoto, per dire, elude la nazione terrestre verso i meandri di un continente blu…
La patria è ciò che siamo, è la lingua, tanto più per uno scrittore. In quest’ultimo caso, se penso a Nabokov, a Conrad, mi vengono le vertigini nel loro reinventarsi in lingue altrui essendogli stata proibita la patria che era loro propria. C’è una notazione di Céline commovente, quando nell’esilio danese non gli viene la parola per indicare in francese il moschettone a cui si aggancia il guinzaglio dei cani e ne fa un disegno… Una lingua è anche un tesoretto di memorie, un’eredità di fatti e gesta e usi e consuetudini. Uno dei motivi per cui la narrativa italiana contemporanea è illeggibile, ovvero ha una lingua di plastica, è perché non ha il senso della storia, della memoria. Non sa chi è, da dove viene, si compiace dell’istante.
Domanda spot. Lo scrittore – lo scritto – che ti ha cambiato la vita, è stato il tuo “invito al viaggio”. E poi, lo scrittore – lo scritto – che ti porti in tasca di continuo, anche ora.
Mah, sono tanti, come si fa a scegliere? Se ti dicessi che Wodehouse resta un maestro, salterebbe su qualcuno a dire che da questa preferenza si evince il mio qualunquismo anglomane… Se facessi il nome di Salgari sarei tacciato di infantilismo, se citassi il Nabokov di Ada o di Lolita, una via di mezzo fra il pornografo e il maniaco sessuale… Da una ventina d’anni, comunque, leggo Pérez-Reverte e mi fa compagnia.
Ultima. Ti garba il risultato elettorale? Che cos’è, oggi, ‘la destra’, una cultura ‘di destra’?
Mi ha divertito. Una donna, di destra, premier di governo, un “vecchio arnese”, detto con simpatia, come La Russa, seconda carica dello Stato… Tutti conosciamo quella frase di Marx sulla tragedia che si trasforma in farsa allorché la storia ripassa i piatti, ma qui la farsa sono i Letta, i Franceschini, il livido sussiego della stampa progress, l’allarmi siam (anti)fascisti… Macchiette. Sotto questo profilo, Meloni & C: sono la nemesi, il finale di partita, il giù il sipario… Quanto alla destra, trent’anni fa ho scritto un pamphlet che si intitolava Per farla finita con la destra… Come diceva un mio amico napoletano, “Che ne parlamm’a fa”…