
“In un angolo sghembo del mondo”. Kavafis, il gigante solitario
Poesia
Nicola Crocetti
Bisogna pensare a un uomo steso in un letto d’ospedale. Cosa gli sia successo non lo capiamo esattamente. Quello che sappiamo è che in quel letto c’è un uomo che sa di essere e non essere lui. È un uomo che non si riconosce più, o che vive non tanto un distacco dal proprio corpo ma uno strappo dalla propria vita, come se quella vita, e quell’uomo, fossero osservati già da un altrove.
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Stefano Simoncelli è tra i migliori poeti italiani viventi. Seguo il suo lavoro da anni, ho letto ogni sua silloge, gli ho dedicato un saggio in un mio libro (Patna. Letture dalla nave del dubbio), ci siamo conosciuti e immediatamente trovati per la stima comune che abbiamo per Enzo Siciliano (per entrambi ha significato molto), siamo diventati amici, per quanto sia consentita una amicizia a distanza, ci siamo incontrati in qualche occasione e sentiti diverse volte, ma soprattutto scritti. Non sapevo nulla di quello che ha vissuto, non sapevo di un uomo, un amico, in un letto d’ospedale a un passo dal renderlo definitivo, quello strappo dalla vita. Ma Simoncelli cosa racconta in questa sua ultima raccolta poetica, A beneficio degli assenti (Pequod, 2020)? Non una malattia, non una sofferenza, ma la visione di un altrove che sono i giorni ospedalieri, in cui il tempo non è tempo, o è il vero tempo, quello impossibile da scandire, quello in cui la vita, strappandosi, mostra il suo buco nero, la feritoia in cui le cose, prima di accadere, appaiono.
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Forse sono immagini del passato, ma è solo un’illusione. Quello che Simoncelli vede è la realtà per come questa si mostra, appunto, in un’apparizione, «c’erano le rondini, tantissime rondini./ Questa è stata l’unica immagine che ho portato con me nel buio// in cui nuotavo verso un posto/ dove arrendermi e dormire». E poi la presenza per nulla fantasmatica dei morti: sua madre, sua moglie, suo padre; morti che sono stati altre mille volte raccontati da Simoncelli. Solo che qui, quei morti, quegli amori perduti, sono a un passo da lui, sono con lui – lui stesso, forse, è già morto, o risorto in uno spazio che non è qui e non è altrove, rimasto sull’abisso di quel passaggio, di quella ferita, di quell’apparizione in cui si è non essendo più, «Non so più chi sono/ e quale il mio vero nome», o ancora: «Mi sono intravisto di spalle/ e ero vulnerabile, indifeso,/ un’indistinta linea di luce// al confine con l’ombra,/ ma conservavo dentro/ la voglia insepolta// di sfiorarmi la faccia/ e chiamarmi “Onafets”/ come fece mio padre// per l’ultima volta».
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Ho parlato di resurrezione, ed effettivamente, con questa parola, potremmo far significare diverse cose, o stati, o momenti d’esistenza, ed essere al contempo metaforici e non, ovvero allusivi o assolutamente concreti. Ma forse potremmo dire con più chiarezza che Simoncelli ci fa capire con la sua poesia, con la propria esperienza, con la propria visione, quanto la resurrezione sia assolutamente reale; qualcosa che non riguarda tanto la salvezza e nemmeno un altrove ma quanto in noi ci sia già un essere che nello stesso tempo non è, essendo. È, proprio nel suo non essere e non riconoscersi già più. «Sono quello con l’abito scuro/ delle nozze e camicia celeste/ che si specchia un attimo,// fuggendo, sulla vetrina/ smerigliata di un bistrot,/ ma si capisce dallo sguardo// che sono intercambiabile/ e in frenetica ricerca/ di una mano,// aggancio/ ramo o relitto/ per non sparire.// Nelle fotografie/ verrò pallido/ o sfocato».
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Nella poesia di Simoncelli ci ho sempre letto qualcosa di tanto reale da sembrarmi alle volte inverosimile. Ma oggi, con A beneficio degli assenti, in cui Stefano è talmente se stesso da essere a se stesso estraneo, quella realtà mi pare tanto vera che non può che mostrare tutta la sua ustionante fragilità: ed è la fragilità di un uomo e di tutti gli uomini.
Andrea Caterini
*In copertina: Stefano Simoncelli e aereo; didascalia sua: “Sono il nuovo Italo Balbo, ciao”