20 Agosto 2020

Stefan Zeromski, il Lev Tolstoj polacco amato da Conrad. Rileggiamo il suo capolavoro, “Ceneri” (che passò al Festival di Cannes…)

Nel 1966 la giuria del Festival di Cannes è presieduta da Sophia Loren, il Grand Prix va a Signore & signori di Pietro Germi e a Un uomo, una donna di Claude Lelouch. In lizza ci sono altri due film italiani, diversamente memorabili: L’armata Brancaleone di Mario Monicelli e Uccellacci e uccellini di Pasolini. Tra le pellicole tratte da capolavori letterari spiccano il Falstaff di Orson Welles e Il dottor Zivago secondo David Lean, libro verticale sgraziato in melò. Andrzej Wajda, il grande regista polacco, è a Cannes con un film ispirato a un capolavoro della sua letteratura. In italiano il film è tradotto come Ceneri sulla grande armata: si narra l’era della ‘spartizione’ – quando la Polonia fu letteralmente annientata, spartita tra Austria, Russia, Prussia –, l’epopea napoleonica (con la creazione del Granducato di Varsavia), l’avvio all’indipendenza. Wajda trapianta in pellicola Popioly, pubblico nel 1904, uno dei grandi romanzi storici del secolo, scritto dal più grande degli autori polacchi, Stefan Zeromski, una specie di Lev Tolstoj di lì, “la coscienza della letteratura polacca”, secondo Czelsaw Milosz. I libri di Stefan Zeromski – nominato costantemente al Nobel per la letteratura, dal 1921 al 1924, quando gli fu preferito, per un malizioso gioco politico, il connazionale Wladislaw Reymont – furono tradotti, negli anni Trenta, dalla casa editrice Slavia in Torino, fondata da Alfredo Polledro, grande traduttore di Cechov, Dostoevskij, Puskin, Tolstoj… Nel 1946 Einaudi recuperò la versione di Ceneri condotta da Cristina e Clotilde Agosti Garosci: 730 pagine di avventure vivide, violente. Da allora, di Stefan Zeromski – e, in sostanza, del romanzo polacco – non s’è più saputo nulla.

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Nato da una famiglia nobile impoverita – il padre fu tra gli aristocratici polacchi che guidarono il popolo contro l’ingerenza dello zar Alessandro II: furono sconfitti – Zeromski si affanna a vivere, traduce, studia veterinaria, si applica come precettore, è imprigionato “per l’appartenenza a organizzazioni politiche segrete”, fa il bibliotecario, vaga tra Svizzera e Francia, nei ricoveri degli esiliati polacchi. È votato alla causa dei vinti, ama la vertigine della sconfitta, l’eroe che soccombe per amore della libertà. Riuscì a morire, nel 1925, nella sua Polonia; cercò di fondere gli acuti romantici con l’etica del naturalismo, ma non bisogna crederlo uno scrittore del tempo che fu, defunto. Joseph Conrad – morto un anno prima di lui – lo adorava, nella traduzione inglese di Fiume fedele (1913; edito in Italia da Treves, manca in libreria dal 1926…) Bill Johnson rintraccia alcuni legami con Stephen Crane e soprattutto, per ciò che riguarda l’invenzione narrativa, la profezia di William Faulkner.

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Ceneri si svolge, al netto delle nostalgie, tra 1795 e 1812, “vi ricorre come un lugubre tema dominatore della vasta sinfonia la biblica affermazione della vanità di ogni umana cosa: pulvis cinis et nihil: cenere è, nel ricordo dell’amico Gintult, Pietro Olbromski, soldato, sognatore ingenuo di un più umano assetto sociale… cenere diventa per Raffaele la bellezza, la grazia, la travolgente passione di Elena… cenere per Wyganowski il valore militare, il martirio, la gloria. Si agita nel romanzo storico di Zeromski, come in quello sociale, l’eterna lotta fra il bene e il male, così terribile e senza tregua che la vittoria finale sembra riservata al male e in cenere appaiono destinati a cadere tutti i sogni di bellezza, amore, giustizia”. Il nulla che avvolge le azioni dell’uomo, però, è appianato dallo splendore, feroce e perciò ‘giusto’, della natura, “le selve curve e gementi di mille voci sotto le bufere di neve o di vento, la selvaggia bellezza dei Tatra, l’esuberante vegetazione primaverile delle pianure polacche” (cito dall’introduzione di Cristina Agosti Garosci).

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La cenere, tuttavia, non è annientamento, nebbia tossica che brucia le labbra, esalata dalle rovine. Con la cenere si benedice il capo dell’orante, per la conquista degli al di là. Nel suo libro dedicato a Robert Walser, che s’intitola Il passeggiatore solitario, W. G. Sebald ricalca un passo in cui lo scrittore svizzero parla della cenere. “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non vi è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”. L’arrendevolezza e la pazienza della cenere sono tratti felici, quasi, una conquista. Stefan Zeromski, come una fenice, merita di tornare tra noi. In una immagine felice, simbolica, iniziale, iniziatica, un cacciatore, nei boschi polacchi, parla della visione del Cervo Sacro, “il vecchio cervo, terribilmente bello. Porta alte le corna. L’uomo prende la mira e… non vede più il cervo, ma solo la luce, come un sole rosso che esca dal bosco e lo abbagli dritto negli occhi. Il fucile gli cade dalle mani, il cacciatore si inginocchia. E il cervo passa presso di lui, di lato”. Nel cervo, un potere che precede la Storia: il suo palco ha favore di culla. (d.b.)

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Si pubblica parte del primo capitolo di “Ceneri”, il capolavoro di Stefan Zeromski

I bracchi entrarono nel bosco.

L’eco dei loro latrati si affievolì sempre di più, finché si inabissò nel silenzio… Quando il soffiare del vento si acquietava, seguiva una calma sconfinata, inafferrabile, a somiglianza dell’azzurro del cielo tra le nubi, e allora non si udiva più nulla.

Tutt’attorno si ergevano gli abeti con le cime spioventi, come torri snelle, incompiute, prive della croce terminale. I loro lividi tronchi biancheggiavano nell’oscurità. Vecchi muschi pendevano dai rami giganteschi. Penetrando con le radici vitali tra le pietre di un terrazzo roccioso, fino al terreno profondo, conficcando gli artigli delle radici laterali in ogni più piccola zolla e succhiando ogni goccia di umidità, i grandi abeti agitavano le loro vette regali da più di un secolo tra le nebbie della Lysica… A ogni momento, cedendo al proprio peso, sensibile a ogni sospiro di vento, si spandeva la bianca lanugine dei mucchi di neve e si perdeva nello strato sul suolo, senza lasciare traccia, come si perdono le gocce di pioggia nella profondità di un lago. Dalle cime delle piante si involava un pulviscolo appena visibile, e così leggero che scintillando coi suoi cristalli, rimaneva a lungo sospeso nell’aria, prima di scendere a terra.

Le radure dei campi hanno roso la foresta, serpeggiando come una vipera fra i brandelli del suo manto, di anno in anno arrampicandosi sempre più in alto. Il ginepro riveste nudità e ferite. Sempre più di rado l’orso si strofina sul tronco del faggio, sempre più di rado viene a sognare all’ombra delle sue fronde il cervo dalle grandi corna, e il lupo si apposta meno sovente aspettando i cerbiatti. Le aquile sono scomparse: soltanto l’avvoltoio si libra talvolta a mirare dalla vetta, irato e minaccioso, il suo dominio distrutto.

Stefan Zeromski

*In copertina: Horace Vernet, “Napoleone durante la battaglia di Wagram”, 1836

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