18 Gennaio 2021

Soutine, il ribelle che fece di una carcassa la propria musa

La generazione della Grande Guerra contava tra i suoi membri profughi e mutilati, xenofobi e antisemiti, geni letterari e artisti dirompenti. Gertrude Stein la ribattezzò Generazione Perduta, l’industrializzazione li aveva travolti e storditi su ogni aspetto della loro vita: aveva decuplicato la potenza di fuoco ma si era anche intrecciata alla creatività artistica. In Germania ad esempio, la creatività cavalcava l’onda dell’inflazione profittando dei bassi costi di produzione, l’embargo del 1916 bloccava l’importazione delle pellicole straniere provocando un isolamento artistico che costituì la condizione ottimale per il fiorire del cinema espressionista tedesco. Lo stesso anno, Hermann Bahr pubblicava Expressionismus (Silvy, 2012), una riflessione tanto organica quanto polemica sull’essenza della corrente artistica che contiene autori tra loro molto diversi, sia da un punto di vista biografico che di status sociale, ma uniti da incontenibili pulsioni ribelli. «L’uomo è diventato uno strumento della sua stessa opera – scriveva Bahr – non possiede più i sensi da quando serve esclusivamente la macchina. Questa gli ha tolto l’anima». Straordinaria la sua considerazione dell’Impressionismo, che intendeva come il derivato artistico di una società borghese abbrutita. Sulla soglia degli anni Trenta, Carlo Levi contribuiva a fornire una delle più autorevoli chiavi di lettura della ribellione espressionista. Scopriva infatti i quadri degli artisti maledetti e ne percepiva la forza sovversiva, ma avendo sofferto tutta l’esperienza fascista e pagato a caro prezzo l’eroica opposizione allo squadrismo, non poteva che percepirla sulla base del proprio vissuto. In particolar modo, lo travolse il furore cromatico di un grande e tormentato esponente della ribellione espressionista: Chaïm Soutine. Un genio onnivoro che fagocitava il mondo restituendo opere che rappresentavano il demone della miseria e della privazione che ne avevano compromesso la condizione psicofisica. Agli occhi di Levi, le opere di Soutine contenevano un assordante grido di ribellione capace stordire l’ottusa e letale repressione fascista.

Chaïm Soutine secondo Amedeo Modigliani, 1916

Chaïm Soutine nasce a Smilovichi – nei pressi dell’odierna Minsk – nel 1893 da famiglia ebrea in condizioni di estrema povertà. È il decimo di undici figli, che al pari di molte altre famiglie del ghetto patiscono la miseria e vivono di stenti. Il rapporto con i genitori è drammatico e conflittuale, si racconta che il padre lo punisse segregandolo in uno stanzino buio infestato dai topi e limitandosi a fornirgli pane e acqua per diversi giorni. Subisce questo trattamento il giorno in cui viene sorpreso a rivendere un coltello del padre per acquistare un set di colori. A questo periodo appartiene un altro degli aneddoti più ricorrenti della sua biografia. A scuola, durante la lezione, esegue il ritratto del rabbino trasgredendo il precetto ebraico che vieta la rappresentazione della figura umana. Il fanatismo religioso della comunità alimenta lo scandalo, Soutine viene brutalmente picchiato dal figlio del rabbino, rimediando ferite talmente gravi da rendere necessario il ricovero in ospedale. Alcuni anni dopo è a Vilnius, crocevia culturale dove ha l’occasione di frequentare artisti e intellettuali, pur continuando a soffrire la disperazione economica che gli appartiene da sempre. Conosce Krémègne, frequenta l’Accademia di Belle Arti con scarsi risultati, mentre i tumulti interiori iniziano a logorare la sua psiche già gravemente tentata dall’atroce miseria e dall’ostilità antisemita, lo stesso Krémègne era scampato ai pogrom. Soutine avverte una pressione incontenibile che può liberare solo attraverso la pittura. Lo raggiunge l’eco degli artisti che si sono stabiliti a Parigi, dove vi giunge nel 1913 grazie al contributo di un medico ebreo che si è offerto di pagargli parte del viaggio. Vi giunge da profugo, alienato, fisicamente stremato. Si unisce ad altri immigrati ebrei che vivono a La Ruche, civico 2 di passage Dantzig, 15° arrondissement, Montparnasse.

Si vuole affidare la contestualizzazione parigina alla testimonianza di una illustre esponente del nomadismo intellettuale che interessò Parigi all’inizio del XX secolo, Gertrude Stein, che in Parigi, Francia (Elliot, 2018) esordisce così: «Parigi, Francia è entusiasmante e calma». L’intera trattazione è una raccolta di memorie legate al soggiorno parigino, incluse quelle dell’infanzia, integrate con interessantissime riflessioni di questo tipo: «È per questo che gli scrittori devono avere due nazioni, quella cui appartengono e quella dove vivono davvero. La seconda è romantica, e distante, non è reale, ma è davvero dentro di loro». E ancora, contribuendo a fornire un’immagine della Parigi in cui confluivano gli artisti di tutto il mondo, Gertrude Stein osserva come «non c’è battito più autentico che rappresenti la situazione di una nazione del suo prodotto artistico caratteristico, che non ha niente a che fare con la vita materiale. E così fin quando i cappelli a Parigi saranno deliziosi e francesi e diffusi allora la Francia starà bene. Quindi Parigi fu il posto ideale per tutti noi che avremmo creato la letteratura e l’arte del XX secolo, in modo abbastanza naturale». Ma il ventaglio di esperienze degli artisti migranti è assai vario, eppure si rimanda a Gertrude Stein proprio per quell’intreccio armonico tra storie straordinariamente inconciliabili come quelle di Soutine e della stessa Gertrude Stein. Quest’ultima apparteneva a una famiglia della upper middle class americana, Soutine era di tutt’altra estrazione, eppure la percezione che i francesi hanno della morte raccontata in Parigi, Francia sembra accordarsi alla visione attonita della vita di Soutine: «E poi il modo in cui si sentivano di fronte alla morte, è così amichevole, così semplicemente amichevole, e nonostante fosse inevitabile, niente tristezza, e nonostante accadesse, nessuno shock. Non c’è differenza tra la vita e la morte in Francia, e anche questo fece sì che i francesi facessero da scenario al XX secolo». Meglio si comprende il ruolo di Soutine nella scena di La Ruche se paragonato a quello di Modigliani. I due si conoscono nel 1915, dopo che Soutine aveva lavorato agli scavi delle trincee e aveva sofferto a lungo la totale solitudine. Modigliani era più vecchio di dieci anni, ebbe inoltre modo di osservare fin da subito come il trascorso di Soutine lo avesse reso incupito e quasi selvatico. Pare che un giorno Chagall ebbe a dire: «È vero, Soutine fa proprio schifo». Erano entrambi ebrei, ma molto diversi tra loro. Il passato di Modigliani non conteneva gli stessi orrori del passato di Soutine. Il loro rapporto va inoltre filtrato dalla stigmatizzazione rintracciabile nel cinema e nella tradizione orale. Sembra infatti che Soutine a un certo punto della sua vita provasse un certo rancore nei riguardi di Modigliani.

Chaïm Soutine, Le dindon, 1925

Nel 1916 condividono uno studio nella Cité Falguière, dove Soutine realizza Natura morta con pipa e Natura morta con limoni. È soprattutto l’anno in cui realizza Natura morta con aringhe, un’opera pienamente soutinana. Sarebbe ovvero fuorviante ammetterla nel catalogo delle opere espressioniste: le aringhe esprimono un stato d’animo proprio di Soutine e di nessun altro. Le forchette si manifestano nella forma di braccia scheletriche di un giovane ebreo afflitto dalle angosciose persecuzioni della fame e dell’antisemitismo. Curiosa è la sovrapposizione con le forchette francesi alle quali Gertrude Stein riserva uno spazio tra i suoi ricordi: «la cosa più entusiasmante erano le forchette e i coltelli, così tanto affilati che la lama era sottile come un pugnale con una leggera curva sulla punta, e le forchette così leggere che quando si spingevi un po’ si piegavano. Questi coltelli e forchette erano le cose più appassionatamente francesi che conoscessi, potrei persino dire che abbia mai conosciuto». A proposito di forchette, pare che Modigliani insegnò a Soutine a usare le posate. Soutine segue Modigliani ovunque, teme la solitudine e riceve dal pittore livornese l’ammirazione per i suoi dipinti. Non passa molto tempo prima che Modigliani lo presenti a Léopold Zborowski, il noto mercante d’arte che ha assunto un ruolo centralissimo nella biografia di Modì. È altrimenti noto che Soutine si lasciò ritrarre da Modigliani su una delle porte di casa dei coniugi Zborowski, in rue Joseph Bara n. 3. Pare che in quella occasione Modigliani disse: «un giorno questa porta verrà tanto oro quanto pesa». Zborowski era spesso ostile nei riguardi di Soutine, complici l’inamabilità e le gravi carenze igieniche, non ne riconosceva neppure il genio creativo. Nel 1919, poche settimane prima della morte di Modigliani e su insistenza di quest’ultimo, Zborowski offre a Soutine un contratto di esclusiva, ma vuole allontanarlo da Parigi. Lo invia a sue spese a Céret, nei Pirenei, dove si stabilisce per i successivi tre anni. Si tratta di uno dei periodi più angosciosi per il pittore, che sente di essere stato abbandonato da Zborowski e quasi esiliato. Contrae debiti, medita il suicidio, la miseria e i suoi demoni non gli danno tregua. Tuttavia, tra il 1919 e il 1922 Soutine realizza circa duecento tele, perlopiù paesaggi privati del cielo e densi di elementi sovrapporti con impeto e rancore. I boschi, le rocce e le case non vengono contemplati in una composizione, piuttosto si smaterializzano in una fusione cromatica che esprime l’impellente e perversa fame di caos, come a voler fagocitare il tutto per riempire il vuoto che lo terrorizzava. Si comprende allora la ragione di non voler ammettere la possibilità di individuare le somiglianze vocative tra Soutine e Van Gogh, che a differenza del primo odiava il mondo per troppo amore e quasi mai corrisposto. La passione di Soutine è anzitutto passione religiosa, il pessimismo atavico dell’ebraismo è parte integrante del suo corredo artistico. Quando giunse a Parigi preferì i musei ai corsi di disegno, l’esperienza visiva all’apprendimento didattico. Assiduo frequentatore del Louvre, ammirava immensamente Coubert e riteneva che Funerale a Ornans fosse il capolavoro del museo. Di Courbet replicò Fanciulla sulla riva della Senna. Aveva adottato come maestri Tintoretto, El Greco, Goya. Difficile anche solo immaginare un dialogo con Van Gogh: il linguaggio di Soutine è una testimonianza unica della crisi della civiltà.

Preme allora per rientrare a Parigi, ma Zborowski ignora la sua richiesta di aiuto. Il collezionista Jonas Netter, al quale dobbiamo più che quello che riteniamo di sapere sul patrimonio pervenutoci degli artisti maledetti, interviene liquidando i suoi debiti. Soutine rientra a Parigi, e non molto tempo dopo un facoltoso collezionista e imprenditore farmaceutico americano di nome Albert Coombs Barnes nota Il piccolo pasticcere nella galleria di Paul Guillame. Dopo averlo acquistato, chiede di essere accompagnato in rue Joseph Bara, dove Zborowski custodisce molte delle sue opere. Barnes le compra tutte per tremila dollari. Soutine ha vinto la miseria, si trasforma in un dandy, riceve da Zborowski venticinque franchi a settimana e ha disposizione una vettura con autista. Ciò che non ha invece vinto è la circospezione che logora le sue relazioni sociali. Trova conforto soltanto nei rapporti con Paulette Jourdain, socia di Zborowski e vecchia modella di Modigliani, e con i coniugi Castaing, che quasi tutte le estati lo ospitano nella loro villa a Lèves, dove può godere della loro stima e del sostegno finanziario, soprattutto dopo la morte di Zborowski sopraggiunta nel 1932. In questo periodo ha luogo la grande sconfessione: Soutine distrugge gran parte dei quadri della giovinezza. Si trattò in parte di una sconfessione inconsapevole, dovuta all’ossessione di dover disporre di tele usate per realizzare l’opera concepita in seno ai suoi tormenti. In altre parole, le tele dovevano essere vissute, poco importa se si trattava di vecchie tele rimediate altrove o dei suoi stessi quadri che era disposto a distruggere raschiando via il colore.

Chaïm Soutine, La table, 1919

Nel 1925 acquista un’intera carcassa di bue, la trascina nella sua abitazione accogliendola come una divinità nel suo tempio sacro. Si preparava a replicare il Bue macellato del sommo Rembrandt, del quale ripropose anche Donna che entra nell’acqua, quando obbligò la modella a posare nel mezzo di una tempesta ignorandone le suppliche. Soutine immortala la carcassa su tre tele diverse, con il passare dei giorni le esalazioni riempiono l’ambiente ma lui procede imperturbabile. I vicini denunciano il fetore insopportabile, gli ufficiali sanitari si presentano alla sua porta scortati dalla polizia. Soutine si nasconde come un animale tramortito dallo spavento, Paulette prende le sue difese ribadendo che il dipinto non è finito e che non intendono disfarsi della carcassa. Gli ufficiali tentano allora di persuaderli affinché iniettino la formaldeide per arrestarne la putrefazione. Soutine si indigna, la carcassa è la sua musa, e come tutte le muse è sacra e inviolabile. Tuttavia, la putrefazione ne causa il progressivo scolorimento. Chiede allora a Paulette di accompagnarlo a rimediare del sangue fresco. Tornano con un secchio da latte colmo di sangue che Soutine sparge sulla carcassa, procedendo a ultimare il suo capolavoro. Negli anni successivi continua a selezionare pollame in base all’iridescenza del piumaggio, realizzando diverse tele. Nel 1937 si stabilisce in rue Villa Seurat n. 18, un piano sotto l’appartamento in cui vivono Henry Miller e Anaïs Nin. Così lo ricorda Miller: «Aveva un’ossessione per Rembrandt, che idolatrava… ora sembra addomesticato, come se stesse cercando di riprendersi dalla vita selvaggia di altri giorni. Esita a salutarti per strada, teme che tu ti possa avvicinare troppo. Quando apre bocca è per dire quanto fa caldo o freddo». Lo stesso anno si lega a Gerda Michaelis, una rifugiata ebrea tedesca. Si trasferiscono nello Yonne, dove li sorprende la guerra, Gerda viene arrestata e deportata. Nonostante venga esortato a lasciare la Francia, Soutine si rifugia a Champigny-sur-Veude. Nel mentre si era legato a Marie-Berthe, già moglie di Max Ernst. Nel luglio del 1943 viene ricoverato a causa di atroci dolori allo stomaco, deve essere trasportato a Parigi per un’operazione d’urgenza, ma per non finire nelle mani della polizia Marie-Berthe decide di passare per la Normandia. Giunge a Parigi quando è troppo tardi, Soutine muore il 7 agosto a causa di una perforazione intestinale.

«Mai c’è stata un’epoca scossa da un errore simile e dalla paura della morte. Mai si era steso sul mondo un tale sepolcrale silenzio. Anche l’arte grida nelle tenebre, grida in cerca d’aiuto, grida in cerca dello spirito: questo è l’Espressionismo». Questa riflessione di Bahr precede di circa dieci anni il Bue scuoiato di Soutine. Bahr aveva presentato al mondo l’Espressionismo nella sua vera essenza ribelle. Nel capolavoro di Soutine, le lacerazioni della carne contengono il grido di ribellione che aveva impressionato Carlo Levi, nella cui coscienza le traumatiche esperienze avevano innestato il coraggio e lo spirito d’avventura indispensabili a far sentire il proprio dissenso. Al tempo di Levi, il fascismo mussoliniano puntava ad imporre una cultura nazionale tradizionalista dove l’individuo servisse da ingranaggio dello Stato e il principio di società gerarchica fosse essenziale per la sopravvivenza della comunità. Ma se la ribellione è una delle forze intrinseche dell’arte, e avendone colto la sua consistenza cruda e carnale, fatta ovvero di aringhe, forchette, carcasse e sangue, sorge allora spontanea una domanda: può l’arte fare a meno della carne?

Chaïm Soutine, Le Bœuf écorché, 1925

Dell’Espressionismo si conosce anche la sua manifestazione astratta, dalla quale l’arte contemporanea ha ereditato la forza distruttiva, ma che al contrario di Soutine vuole privarsi della carne e degli orrori, della materia e delle sue leggi. L’Espressionismo non è che un atteggiamento, una reazione intima e privata, presente sia nell’esigenza spirituale di Antonello da Messina che nell’ossessione di Soutine per la consistenza carnale dei bisogni, come anche nelle macchie di Kandinskij. Occorre soltanto individuare il trait d’union che lega artisti separati dai secoli. L’arte ha dimostrato di saper concepire la ribellione sia esasperando la realtà che privandosene. Si suggerisce al lettore di verificare l’armonia del confronto tra il Bue scuoiato di Soutine e una delle Antropometrie di Yves Klein. Al Centre Pompidou è custodito il Primo acquerello astratto, realizzato nel 1913 da Kandinskij. L’opera simboleggia un’evidente rottura con il passato, eppure, parte della tradizione considera l’arte astratta in continuità con le esperienze pittoriche precedenti o coeve. Nel corso degli anni Cinquanta, gli Stati Uniti assistono al fenomeno dell’abstract expressionism. Il furore cromatico e i contrasti spiegano l’espressività, l’assenza di oggetti spiega l’astrattezza. Può l’arte astratta dirsi ribelle anche in mancanza dell’oggetto? L’assenza dell’oggetto reale, implica l’assenza dell’oggetto della ribellione? L’arte contemporanea tende a prediligere l’abstractism, perché molto spesso si tratta di un’astrazione che si spiega nel bisogno di annullarsi privandosi della realtà. Come se disponendo di troppi oggetti, l’artista volesse privarsene esercitando una forza uguale e contraria a quella che animava Soutine quando sovrapponeva il tutto sulle tele stracolme e disperate, per riempire il vuoto che lo rendeva poi non così diverso dai suoi contemporanei. L’arte contemporanea è esposta a feroci critiche che insistono su una sola questione: quella del suo significato. Ripensarla in termini di ribellione contro una realtà straripante di oggetti, aiuta a concepirla in modo uguale e contrario a come Carlo Levi e prima ancora Herman Bahr intendevano quei furori artistici, astratti e non. Scriveva Bahr: «anche l’arte grida nelle tenebre, grida in cerca d’aiuto, grida in cerca dello spirito: questo è Espressionismo».

Enrico Picone

*In copertina: Chaïm Soutine, Autoritratto, 1918

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