28 Settembre 2018

“Sono un seguace di Cristo e credo che se sopravvivi alla vita sei un eroe”: dialogo con Maurizio Maggiani

Ho incontrato un gigante: Maurizio Maggiani. Una grande quercia che guarda la valle. Sai che quando tutti gli arbusti saranno scomparsi, quando gli alberi giovani, i frutteti e le vigne saranno diventati polvere, lei sarà ancora lassù a dominare il vuoto. Le sue opere, anche quando conturbanti, hanno il potere catartico di donare serenità, mettono in pace. C’è magari un progetto avvincente che regge l’impianto: una città assediata, un ritorno, una ricerca, il sacrificio di un Dio. Sono solo pretesti, per dipanare la matassa di vite e aneddoti, che ogni comunità antica o moderna, decadente o nascente porta con sé. Qui capita a molti di noi, lettori, di riconoscerci. Nell’esito del diuturno cesello cui sottopone la parola e l’idea, nell’indagine minuziosa dei dettagli, nei gesti apparentemente futili, si svela il bosco di senso e significato che sfonda le radure delle nostre convinzioni. Proprio oggi, quando quella parola sembra inessenziale e gli intellettuali si scatenano tra nostalgici del vecchio ordine familiare, marxisti sessuali massimalisti e liberisti dell’eros plus-gaudenti, Maurizio Maggiani scrive L’amore (Feltrinelli, 2018).

Maggiani
Maurizio Maggiani ha appena pubblicato “L’amore” con Feltrinelli (photo servizio di Matilde Cerlini)

Nei suoi libri c’è una ricerca antropologica, a volte più evidente, a volte meno. È molto bella, perché è la ricerca della cultura che vive nelle comunità.

Io scrivo dei romanzi. Saranno pure storie di ἄνθρωπος.

Di esseri umani, certo. Ma di esseri umani nella loro cultura. Quello che a me ha sempre colpito è questo proliferare di storie, di storie anche piccole, di historiuncole, potremmo dire. Storie di singole persone o piccoli eventi che creano la Κοιν del villaggio, del distretto, della nazione.

Sai, io ritengo… ho una cultura che si sosteneva di quello. Una cultura contadina. Non proprio una civiltà, ma una cultura che sì, si sosteneva di quello, si sosteneva della narroterapia. Non c’era altro modo di sopravvivere alla fatica…

…che raccontare storie.

Non semplicemente raccontare storie. Non era solo una questione di raccontare storie. Il luogo narrativo della mia famiglia – io non faccio una teoria, io parlo di me – era questa grande tavola in cucina, questa cucina con ancora il focolare, negli anni cinquanta c’era ancora il focolare. Una lampadina non molto potente sopra alla tavola, una famiglia che era lì per l’unico pasto della giornata, perché di giorno si lavorava e quindi erano tutti dispersi nei campi o in fabbrica. E poi questi, sfiniti, questa gente a pezzi, umiliata, stanca, invece di andare a letto… Secondo me c’era proprio la creazione di un luogo sacrale, uso una parola grossa. Quella cucina, con il gesto che uno, uno qualunque faceva, un celebrante fra i molti presenti, di allontanare il piatto da sé e prendere e rimboccare la tovaglia e stenderla, in questo modo qui. E penso proprio che questo gesto, che poi è ripetuto centinaia di volte, sia il nostro “introibo ad altare Dei”: “A sa lè cos’è success, no?”. Dico sacrale perché il racconto non è la cronaca, non è giornalismo, perché sarebbe umiliante fare la cronaca di tutta la sfiga che ti è capitata durante il giorno. Non è terapeutico. È un’altra cosa, è trascendente: la tua vicenda, pur insignificante che possa essere, nella narrazione diventa un’epica. Cioè, il fatto solo che tu sia lì a raccontare, che sei sopravvissuto alla vita, che sei stato più forte della fatica, della sconfitta, dell’umiliazione, ti innalza a una posizione eroica. Trascendente, direi proprio. Che poi, la narrazione orale è infinitamente più potente di quella scritta, perché quella scritta è una superficie piatta, monodimensionale, un segno nero su fondo chiaro o bianco. La narrazione diventa altra cosa: ci sono i timbri di voce, i ritmi, ci sono gli spazi, gli sguardi, la gesticolazione, la gestualità. È una celebrazione. Questa sai, è una questione originale. I greci ci hanno costruito una psicoterapia di massa. Di cui si sono curati per qualche secolo. Non tanto, perché poi la tragedia greca non è durata tantissimo, si sono sfiniti, però hanno tentato questo grande esperimento di terapia di massa. La mitologia antica assume tutta una grandiosità che viene dal fatto che i greci di Atene o di Tebe erano il massimo dello splendore della loro epoca. Non lo erano i castelnovesi quando sono nato io. Anch’io ho bisogno di sacralità, ho bisogno di grandezza, di vastità d’animo e quindi di vastità di vita.

Mi sembra di ricordare ne “Il romanzo della nazione”, la madre dice qualcosa sugli scritti dal figlio, del tipo “Ma perché dici tutte queste balle”. Mi piacerebbe metterci vicino quello che dice a un certo punto il padre, alla domanda “Ma cosa fa tua figlio?”, risponde: “Lavora in politica”. Il mestiere dello scrivere come menzogna e come politica.

Ma perché l’immaginario, per gente che ha vissuto tutta la vita nell’oralità e quindi nella gratuità, l’idea che si potesse onestamente ricavare dell’onesto profitto dalla trascrizione letteraria, era impensabile. Chiaro che poi, nella trascrizione, quello che è consentito nella narrazione orale, l’epicizzazione, diventa bugia, di fatto. Là, in quella cucina, alla sera, c’era una celebrazione: quindi anche la transustanziazione nell’ostia del corpo e del sangue di Nostro Signore, qualche dubbio, se lo levi di lì, dall’altare della celebrazione, te lo dovrebbe far venire… È un’operazione che un antropologo culturale conosce bene. È l’effetto terapeutico che ne deriva poi. Questa gente moriva di cancro standosene a lavorare, morivano giovani, però di fronte alla malattia avevano questo sistema di terapia che è il lamento. Qualunque cosa ti capitasse. Ancora adesso, quando ho un raffreddore, la prima cosa che mi viene da fare è imitare quello che facevano le mie zie e le nonne e le mie prozie e bisnonne, cioè lamentarmi: “Oddio, come sto male”. Ma i contadini lo dicevano mentre lavoravano i campi. “Cos’è successo?”. “Una disgrazia, una disgrazia che non ti dico”. Che fosse moribondo, morto o che semplicemente si fosse rotto un’unghia non cambiava niente. Però qui c’era un forte effetto terapeutico perché la lamentazione ti confonde. Se io comincio a fare: “Che palle, non ce la faccio più, vorrei morire”, un po’ mi passa. Mi confondo da solo. C’è in tutti gli scrittori di romanzi.

Cerlini
Simone Cerlini ha pubblicato con Feltrinelli “La ragazza che ballava sui cornicioni”. Ha intervistato Maurizio Maggiani

La scrittura come riparazione.

Se escludi le storie che sono un prolassamento dell’io dell’autore. Le storie vere, di uomini e di donne, hanno bisogno che si costruisca un palcoscenico intorno. Il palcoscenico è la loro cultura, sennò non stanno in piedi.

Che poi, insieme alle piccole storie della famiglia, ci sono le grandi storie. Penso agli eccidi nazifascisti, alla guerra, alla costruzione dell’arsenale di La Spezia. Gli eventi della storia diventano mito.

Beh, certo. Ovviamente, perché il mito salva. La cronaca uccide. Se fai la cronaca della Guerra di Troia, cosa dici? Una piccola città, uno sputo di città che però si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato. Se fai la cronaca giornalistica, c’era questo avamposto, c’è stata una guerra, va bene, ci sono stati mille morti, la città rasa al suolo, buongiorno e buonasera, come ci siamo visti ci lasciamo, è una delle innumerevoli guerre che ci sono state nel mediterraneo negli ultimi tremila anni. Fine. Ho assistito all’assedio di Tuzla in Bosnia ed era un dramma infinitamente più potente, nel senso che lì sparavano coi cannoni, non facevano i duelli con le spade, una tragedia ben più grande. Ma di Tuzla, se ti dico l’assedio di Tuzla, tu cosa mi dici? Boh? Certamente se ti dico “fammi i nomi dei dieci più valorosi soldati che hanno difeso Tuzla” non me li sai dire. Perché Tuzla non ha avuto quello che ha avuto Troia. Troia ha avuto la grande epica, ha avuto un tale o più tali, non saprei, che se ne sono fatti una passione e hanno cominciato a raccontare. Erano lì, chiaro che se sei lì anche se è una piccola città, è la tua città, anche se è una piccola guerra, è la tua guerra, la tragedia è immensa in qualunque circostanza. Allora noi sappiamo chi erano i più valorosi soldati di una guerra di tremila anni fa. Sappiamo i fatterelli di tutti quanti, lì dentro. E anzi, se non li sai ti danno anche tre e ti mandano al posto. Se tu non sai chi sono i soldati più valorosi di Tuzla, non gliene frega niente a nessuno. Quindi dalla costruzione dell’epopea nasce il mito. E io mi occupo di questa roba qua, nel senso che ho bisogno di mitologia, perché come diceva mia nonna: “Chi nasce merda, muore merda”. E lo diceva nel senso più socratico possibile. È un fatto, io son nato lì, posso peggiorare o migliorare, però morirò quel che son nato.

Beh, però nato da una tradizione che non è tutta da buttare. C’è l’Anarchia, il lavoro, la libertà. Preparando questo incontro, mi è venuto naturale pensare alla sua scrittura come “letteratura dinamitarda”. C’è questo senso, credo sia ne La Meccanica Celeste”, cioè…

C’è una bomba in copertina. Che è anche lo stemma della Garfagnana. Non sarà un caso.

Esatto, poi diciamo che le bombe in Garfagnana sono molto utili per i mestieri che si fanno nella valle.

Loro avevano una predilezione per l’artiglieria. Erano proprio minatori, ma in guerra caricavano i cannoni. In Garfagnana hanno sempre avuto quello che qui chiamano lo “sbuzzo”…

maggiani amorePer l’esplosivo. Subito pensiamo all’effetto devastante, successivo, mai alla cura che ci si mette prima. Non si può trattare un esplosivo senza metterci cura: un controllo, un’attenzione, una competenza particolarissima. Dentro questi libri si sente questa stessa cura per il materiale esplosivo che essi contengono.

Sai, scrivere è il mio lavoro. Sono stato educato così: la verità è che banalmente sono stato educato così. Sono stato educato da gente che insegnava a lavorare con cura. Mio padre faceva l’operaio, ma faceva l’operaio in proprio. Quando si è ammalato, è andato ricoverato all’ospedale quattro mesi, non si sapeva cosa mangiare. Però lui ha sempre voluto lavorare per conto suo. Mio padre faceva preventivi per il suo lavoro, perché era muratore, elettricista, faceva i preventivi con la matita copiativa, legale, quella che lascia un segno indelebile. Prendeva il quaderno a quadretti che aveva, staccava la pagina centrale aprendo bene le graffette, poi richiudeva le graffette e faceva il suo preventivo. A matita, se la leccava molto bene che la matita copiativa ha la mina molto dura. Mio padre scriveva questi preventivi e in fondo scriveva “Il tutto a regola d’arte, Maggiani Nino”. Mio padre non era Michelangelo, era un operaio. Però un operaio sa che il suo lavoro, se è un lavoro ben fatto, è un lavoro a regola d’arte. È una formula poi che si usa: “Il tutto a regola d’arte, Maggiani Nino”. E ho visto per caso da un orologiaio di ottantasei anni con il negozio ancora aperto, il diploma che gli fu dato, Cavaliere del Lavoro, come la dicitura “Maestro d’arte e d’esperienza”. L’esperienza ce la metti te, e l’arte devi averci lo sbuzzo, penso.

Il tema della cura ha anche un importante risvolto etico. Il prendersi cura ha a che fare anche con la determinazione, la costanza. Penso anche alle relazioni umane: il rispettare un patto, la fedeltà.

Beh, sai… io appartengo a una generazione che ha potuto vivere la giovinezza sbadatamente, in una libertà mai provata prima, che poi penso che mai più le generazioni future riproveranno. Una libertà anche morale, anche fisica.

Sbadatamente è bellissimo.

Tutta tesa a scoprire, sperimentare. Era il boom economico: ha portato anche questo. Le cose non potevano andare meglio di com’erano. Eravamo la prima generazione post bellica, quindi la gran cura con cui i nostri genitori ci han cresciuti, a cui penso solo adesso, che sono vecchio, e posso guardare abbastanza dall’alto. In effetti capisco perché ci accudivano con così tanta cura. Perché eravamo pochi. Eran tutti morti. Noi eravamo i primi a ripopolare l’Europa. Metà degli uomini, metà dei giovani della generazione precedente alla mia era morta. Ci hanno generato i sopravvissuti. E quindi ci hanno viziato, di fatto. Ci hanno dato tutto quello che potevano. Ci han dato il cibo. Sai, nel ’47 l’Italia era il paese peggio nutrito d’Europa. Sono nato nel ’51. Per me, i miei genitori sono andati al macello, che era una cosa inimmaginabile. Ci hanno dato il cibo, ci hanno dato la salute, le penicilline. Debellata la tubercolosi, la poliomelite. Poi ci hanno dato questa cosa grandiosa, che ci han dato il tempo. A tutti. Io sono figlio della miseria. La generazione precedente alla mia, e tutte le altre che l’hanno preceduta, a dodici anni erano già tutti a lavorare. Tutti. Compreso mio padre, naturalmente. Invece io ho avuto la possibilità di spassarmela fino a 18 anni. Mi han dato almeno sei anni di tempo per spassarmela. Poi me la sono spassata anche dopo, però… Era l’idea di far studiare i figli. Tutta l’Italia ha studiato. Tutta l’Italia, tutta. Pensa a cosa non è stato, gli anni ’50 e ’60. Un paese che ha generato una generazione sana e istruita. Cosa puoi volere di più, no? La gente lavorava e aveva un salario in cambio del suo lavoro, per cui a 18 anni ho potuto decidere cosa fare della mia vita. Mio padre mi ha imposto di studiare, poi mi ha detto “devi lavorare”, quello l’avevo capito, però ho potuto fare quello che volevo. Ho scelto il mio lavoro. E quindi siamo cresciuti sbadatamente, tutti proiettati verso il futuro, verso la liberazione. Emancipati dalle campagne, tutti inurbati, la prima generazione tutta in città. Io adesso so tutto delle mie origini, della cultura che mi ha generato, ma io a vent’anni quello che volevo fare era scappare il più velocemente possibile. E così ho fatto. Però mi è stata data questa possibilità. Ecco, in questa situazione prendersi cura viene da un impulso etico. Viene soprattutto dalla fame. La fame ti impedisce di essere sbadato. Prendersi cura dell’orto o del tuo animale o del tuo compagno, dei tuoi figli, è impedire al destino di soverchiare. Il destino di chi ha fame. Non hai un aiuto, non hai la serva che fa per te, sei tu che devi curarti, prenderti cura di ogni cosa perché sia il più possibile salvaguardata.

maggiani amoreNon è paradossale che da un mondo che aveva queste esigenze di prendersi cura, che sentiva questo senso dell’accudire, del curare, sia nata una generazione che invece parlava essenzialmente di liberazione, di diritti?

Certo, perché siamo stati favoriti. Si sono presi talmente cura di noi, sbadatamente anche loro, che ci hanno dato l’impressione che tutto fosse risolto, che non c’era che da spassarsela. Ma non lo intendo in senso negativo. Io ho avuto una giovinezza felice, invidiabile. È così, le possibilità che sono state date a me nessuno si sogna di darle a te. Era tutto risolto, c’era solo che da farla finita con il passato. In questo, i nostri genitori non si opposero perché il passato per loro era la guerra, il fascismo che aveva portato la guerra, era esser morti o esser vivi per caso. I valori contro cui noi ci siamo posti a 18 anni erano semplicemente quelli passati. Erano passati, inqualificabili: si doveva andare avanti tutti quanti. Guarda che era così per tutti, potevi essere anarchico o democristiano, cambiava niente. Poi era il ’68, era in quegli anni lì. Il ’68 è stata una rivolta mondiale. Io credo che la sua natura fosse proprio quella di movimento di liberazione dal ricordo della Seconda Guerra Mondiale, una roba irrisolvibile. Secondo me oggi siamo ancora lì che facciamo i conti con quella roba lì. Tutta questa roba dell’Europa. L’unica Europa che si è realizzata davvero è stata l’Europa di Hitler. L’unica. E non quella di Spinelli, quella sicuramente no, quella idealistica, quell’ideale, quella dei padri fondatori: non hanno mica fondato l’Europa che volevano fondare. Chi ha fondato l’Europa che voleva fondare è stato Adolf Hitler, è durata cinque anni, poco, ma quella è la realizzazione dello spirito hegeliano che compie il suo disegno. Quella lì c’è stata: con un unico governo vero, con un unico intento. Erano diventati tutti nazisti. La Francia, che aveva 45 milioni di abitanti ed era il paese più grande d’Europa dopo la Germania, era governata durante l’occupazione da 3500 funzionari tedeschi, cosa vuol dire? Che c’erano almeno altri 200 mila funzionari francesi. Così come l’Olanda, la calvinista o la luterana Norvegia, hanno aderito, tutte quante, senza battere ciglio. Il ’68 è stato proprio, ci è stato proprio concesso, in tutta la mia esperienza di rivoluzione ho fatto tre giorni di galera. Mi dovevano dare tre anni minimo per quello che avevo fatto: occupazione del suolo pubblico, interruzione del pubblico ufficio.

Lancio di molotov al comizio di Almirante.

Ci han lasciato fare perché noi eravamo l’espiazione di quel senso di colpa tremendo che è stata per la generazione dei nostri genitori il non avere impedito quella guerra.

Se io cerco tracce di Europa nei suoi libri le trovo ad esempio in un funzionario che impedisce la norcineria tradizionale.

Quello è un episodio vero.

Però è significativo. Il burosauro dei regolamenti europei che si sovrappone alle identità locali, all’identità del distretto.

Sì, però io mi sento europeo e non italiano. Mi sento di Val di Magra sicuramente, perché la mia lingua, la mia cultura, sono quelle. Ma poi se dovessi dire perché sono italiano… Boh, perché sono italiano? Non lo so perché sono italiano. Perché la cultura a cui appartengo è quella di Castelnovo Magra e va bene, però la cultura a cui aspiro è quella europea. A me fa schifo Manzoni, figurati. Ho ribrezzo per quell’uomo. Scrive il grande romanzo della lingua italiana che ha come tema fondamentale “è inutile che te la stai a tirare, sei il popolo bue, l’unica cosa in cui puoi sperare è la provvidenza divina, sennò ciao, sei in balia dei quattro venti”. Quegli anni lì, Victor Hugo scriveva “I Miserabili”, forse il tema era un po’ diverso. O “Casa Desolata” di Dickens. Un po’ diversi in Europa. L’Europa, appunto, l’Europa è un’altra cosa.

Erano gli anni in cui Cavour fondava l’arsenale militare.

Sì, esattamente. E va bene, ma quella era un’idea europea. Venivano gli ingeneri che costruivano l’arsenale ed erano stranieri, anche quelli dell’ex Regno delle Due Sicilie, erano lì perché avevano studiato ingegneria a Londra. Le vasche di idrodinamica ce le avevamo a La Spezia, perché gli studi di idrodinamica li avevano fatti a Southampton

Dunque abbiamo capito che il prossimo libro parlerà dell’identità dell’Europa. Eppure l’ultimo romanzo sembra trattare temi lontanissimi dalla nascita di una cultura comune. Come si può, oggi, parlare d’amore?

Come si fa? Mi è passato per la mente così, non so. Però non c’è altro modo di chiamare quella roba lì che volevo fare. È quella roba lì, quindi si chiama così. Non so perché mi è venuto in mente. Io scrivo un romanzo ogni quattro o cinque anni, invece questo è uscito due anni e mezzo dopo. Potevo aspettare ancora due anni. Perché mi è venuto di fare quella roba non te lo so dire. Era un inverno infame, schifoso. Fatico a camminare, ormai. In bicicletta in inverno non ci si può andare, qua, perché qui ci sono le stagioni, io non sapevo delle stagioni, sono ligure, cosa sono le stagioni? Niente. L’inverno è quando fa più fresco, l’estate è quando fa più caldo. E qui è diverso. Ho passato un terribile inverno, e per passare il tempo mi son messo lì a scrivere. Ho detto: “Voglio scrivere una canzone”. Non son capace di scrivere canzoni. Ho detto: “Voglio scrivere una canzone d’amore”, tanto per darmi una cosa da fare. È difficile scrivere una canzone d’amore. È venuto fuori questo libro. Una canzone d’amore. È stata una fatica enorme, poi non so com’è venuto. Avete notato che sul campanello non c’era scritto “Lev Tolstoj”, neppure “Dostoevskij”. Quindi so chi sono. Però so di aver fatto un buon lavoro, so riconoscere un lavoro ben fatto. E la parte più difficile del lavoro era proprio quella delle parole, della cura delle parole. Se devi parlare d’amore… Ma no, bisogna parlare con cura sempre. Però, su quella roba lì, è particolarmente difficile. Ho faticato tantissimo. Sono stato tanti giorni, non ho vergogna di dirlo, giorni per trovare un sinonimo più soddisfacente di quello che avevo tra le mani, di un qualunque vocabolo. Sono stato pomeriggi lì, chinato, con la sofferenza al collo, davanti al computer a smangiarmi per trovare la parola giusta. Anche perché una canzone non puoi sbagliare una parola, se sbagli una parola ti crolla tutta la canzone. È così. E quindi l’amore è da un lato un atto di ribellione contro la cruda e ingrata stagione invernale. È anche un atto civile, secondo me. Parlare d’amore con molta cautela, con molto riguardo, con molta attenzione, con molta cura, con molta verguenza, come si può tradurre, con molta…

Pudore, candore…

Candore. Bravo. È anche un atto civile, quello, anche perché questa non è l’epoca. Io, appunto, la parola amore non la sento dire quasi più. Cioè, io ho vergogna a dire “ho scopato”, oppure “ho fatto sesso”, ho vergogna a dirlo. Sono abituato a “ho fatto l’amore”, semmai. Io non lo sento dir da nessuno, sento dire “Ho fatto sesso”. Parlo dei ragazzi, eh. Negli adulti la parola amore comunque non si usa. “Si è messo con”, “sì è sposato con”. Anche perché, lo capisco, dopo Bakunin, in Stato e Anarchia, l’amore è quanto di più anticapitalistico si possa immaginare.

Qualcuno ha detto che è un vizio borghese.

Ma no, non è un vizio borghese. Perché un vizio borghese? Ma è anticapitalistico per forza, perché non porta nessun guadagno, c’è solo spesa. Profitto non ne viene. Viene profitto dal “fare sesso con”.

Quello sì, quello produce reddito. O vantaggi di varia natura.

Sì, sì, ma anche reddito, proprio concretamente. Ci sono tanti presidi sanitari oggi per svolgere l’operazione, sono un’industria. Invece l’amore non ha accumulo. Non c’è legiferazione possibile al riguardo. Che poi attenzione, io preferisco parlare dell’“amare”, non dell’ “amore”. Perché l’amore come sostantivo astratto già è equivoco. Ma proprio l’amare, come verbo transitivo, come azione, come atto, come materia, quello è assolutamente inadatto al sistema economico corrente. Come fai a lavorare e amare allo stesso tempo.

Ci stavo pensando mentre lo diceva. È veramente intrinsecamente associato alla gratuità e al dono.

E alla cura. No? Veramente non conviene, l’amare. Anche per il PIL, per la crescita economica, l’amore è una minaccia. Angosciante, eh?

Eppure, nella lingua di mio padre “ti amo” non esisteva. “At voi bein”, diciamo noi.

“Se voi ben”.

“At voi bein di mondi” è proprio l’amore assoluto.

“Di mondi”?

Di mondi. Che vuol dire “molto”.

Bello. Eh ma perché quello che contava era l’azione, non l’astrazione. Il voler bene è agire, a “voler bene” non ci sono discussioni. Se uno ti dice “ti amo”, poi viene una settimana dopo a dirti “Sì, però non mi ero spiegato bene”. No? Però se uno ti dice “ti voglio bene” non è che poi può dire “ho capito male”, si sa cosa vuol dire “ti voglio bene”. È pura e semplice azione.

C’è un rapporto stretto tra questo amore come gratuità e dono e la parola di Gesù.

Sì, certo, non c’è dubbio. Ma io non mi vergogno di dire che sono un cristiano senza Dio. Sono un seguace, ma un seguace non all’acqua di rose, un seguace del Cristo.

È impegnativa, come affermazione.

Sì, so che è impegnativa. Però non ho la fede nel figlio di Dio, ma non è mica obbligatorio. Hanno discusso tre secoli prima di decidere che Cristo è figlio di Dio. E per deciderlo hanno fatto un po’ di morti.

E cosa significa essere seguaci di Cristo, pur senza Dio.

Seguace di Cristo significa che condivido e cerco continuamente di rispettare la sua parola, il suo esempio e la sua condotta di vita. Quello che ha chiesto che fosse per i suoi seguaci, i suoi discepoli. Sono di cultura geneticamente anarchica. Per me è facile, molto facile, perché un anarchico come un seguace di Cristo è in questo mondo ma non è di questo mondo. Un anarchico come un seguace di Cristo è convinto che questa umanità non basti a compiersi nel grande disegno, ma che sia necessaria una nuova umanità. Cristo è venuto a predicare la nuova umanità. Non una revisione della vecchia, proprio una nuova umanità, una nuova umanità e un nuovo mondo. Il regno su questa terra, il regno del Padre, non di Dio, in questa terra. Mi piacerebbe avere la fede perché sarebbe di grande aiuto, diventerebbe tutto molto più facile, ma non ce l’ho. Sempre più facile: penso alle suore che ho visto la domenica della manifestazione conclusiva del G8 del 2001, picchiate a sangue dalla polizia. Indossavano una maglietta sopra il saio. Una maglietta che avevano fatto loro, l’avevano stampata nella loro stamperia con scritto “Un solo padre, sei miliardi di fratelli”. Capisci che è più facile, no? Adesso, come fai a dire “sei miliardi di fratelli”? ti ridono in faccia. Ma se dici “un solo padre, sei miliardi di fratelli”, evitano di offenderti, se non altro.

Anche se non evitano di prenderti a manganellate.

No. Quindi sì, io penso di poterlo dire, vivo parcamente e per rispettare, nei limiti delle mie possibilità, vivo parcamente candido come una colomba e prudente come un serpente. Casto, come una colomba.

E le colombe fanno l’amore frequentemente.

Frequentemente. Non è paradossale, perché la parola castità te l’hanno rubata i preti, per l’appunto, ma castità significa candore, significa mancanza di malizia. Le colombe fanno l’amore senza alcuna malizia. Il problema c’è anche con l’astuzia dei serpenti. Qual è la prudenza del serpente? Se tu sei pratico della montagna o della campagna, non lo vedi finché ci metti il piede sopra. Non scompone, non lascia segno, lascia le cose il più possibile come sono. Non urla, non ha nessuna espressione sonora se non quel sibilo. Che però il sibilo non ti avvisa, è una minaccia che usa solo proprio quando è messo alle strette. Pensa che io trovo augurale, e se non succede ci rimango male, incontrare preferibilmente una vipera, ma se non capita anche una serpe, all’inizio dell’estate. Lo trovo augurale. In Liguria le vipere riuscivo a vederle facilmente, qui no. Però le serpi van bene lo stesso. Anche quest’anno l’ho incontrato, i primi di giugno, un serpentone, e lo trovo augurale, son contento. In questo sono cristiano, cioè sto bene sulla strada. La cosa che quando vai a dottrina ti dicono chi era Cristo. Questo era uno che per trent’anni, cosa cazzo avesse fatto non si sa, ma per tre anni è stato sulla strada. Sulla strada, in Galilea: ha fatto tutta la Galilea a piedi. Senza una casa, senza niente. Quindi devi immaginarti uno polveroso, vestito alla bell’è meglio, come capitava, e soprattutto con una grande conoscenza di tutto quello che aveva intorno. Quando parla di colombe o di serpenti parla di roba che ha lì intorno. E sì, in questo sono cristiano, sono sulla strada. Ma non ho il dono di san Francesco, non so parlare agli animali. So parlare soltanto agli animali più rozzi, più semplici. Ai primati non so parlare, agli ignoranti, ai cafoni, ai cretini, ai prepotenti. Non sono francescano, quel dono lì non ce l’ho. E come cristiano, sull’esempio di Cristo, non sono un uomo del dialogo. Sono un uomo che parla con tutti, ma non l’uomo del dialogo. Cristo non si è mai rifiutato di parlare a nessuno. Non si è mai rifiutato di toccare la mano di nessuno. Però, dialoghi, pochi. E solo per quelli a cui andava bene. Siccome l’inferno non esiste, penso che il peggio che mi possa capitare sia di finire, come minacciava Cristo, di finire nella Geenna.

Nella dimenticanza: la Geenna era la discarica di Gerusalemme. Beh, qua gli argomenti sono tantissimi, mi sono venute altre cento domande, sarebbe stato bello parlare per ore… E su Genova? Io immagino sia stato per lei un buco anche più grande che per noi.

Io per Genova se non ti dispiace non voglio dir niente.

Non volevo neanche chiedere, ho chiuso il quaderno e ho fatto la domanda.

Non voglio aggiungere, ho scritto un articolo, uno, e basta. Sarà un casino. Per noi è un problema vero, perché gli volevamo bene a quel ponte, gli vivevamo intorno. Un po’ come Shrek, Shrek è brutto, grande grosso e anche un po’ cattivello, ma nel villaggio in cui vive…

È amato.

È così.

Simone Cerlini

Gruppo MAGOG