“Or puoi la quantitate comprender de l’amor ch’a te mi scalda quand’io dismento nostra vanitate trattando l’ombre come cosa salda”
Dante, Purgatorio, XXI, vv.133-136
Ciò che è nostro non ci sarà tolto mai è il titolo dato dalle edizioni Quodlibet, per cura di Francesca D’Alessandro, al lungamente atteso Carteggio 1918-1980 fra due grandi: Eugenio Montale e Sergio Solmi, amici da una vita e per tutta la vita. Uscito finalmente l’1 dicembre 2021 dopo essere stato annunciato parecchi mesi prima da diversi siti, ma dichiarato non disponibile (i piccoli misteri dell’editoria), consta di 338 lettere, di cui 237 di Montale e 101 di Solmi. E quanti ricordi suscitauanti ricordi suscita!
Ho conosciuto Sergio Solmi agli inizi degli anni Settanta. Avevo pubblicato assieme al mio amico Sandro Briosi, diventato poi eccellente professore universitario, un’antologia scolastica dedicata alla narrativa e alla poesia italiana dal 1945 al 1970. Un’operazione coraggiosa, dati i destinatari, e non vincente in partenza, perché presentavamo poeti ormai affermati nel circolo piuttosto ristretto degli amatori della poesia, ma in gran parte ignoti al grosso pubblico degli insegnanti dei licei e degli istituti tecnici. Sandro curò la sezione narrativa; io quella della poesia. Fu un tempo appassionante di ricerca e di studio capillare: per fortuna, allora, il prestito delle biblioteche era molto efficiente e le librerie veloci a procurare i libri richiesti. Mi ero laureato su Renato Serra, come del resto Sandro. Il mio idolo, oltre all’amatissimo Serra, il miglior critico della sua generazione, era Dino Campana, e dei postmontaliani conoscevo poco. Fu un viaggio meraviglioso attraverso nomi che ormai appartengono al mio cuore. Per ricordarne alcuni: Sereni, Erba, Orelli, Pagliarani, Gatto, Giudici, Caproni. E ovviamente Solmi. Su Montale poeta ero informato, non tanto per le poche letture liceali, che si erano limitate a Corno inglese, a I limoni e a Meriggiare pallido e assorto (le antologie per le superiori non andavano mai oltre Ungaretti, Quasimodo e Montale, offrendo tra l’altro pochissimi testi) – anche se poi mi ero affrettato a comprare subito Ossi di seppia, che mi aveva colpito molto e che considero ancora oggi, contro il parere corrente, pari alle Occasioni, acquistate al primo anno di università –, ma perché il mio professore di Italiano alla Statale, Mario Fubini, un vero Maestro, di quelli che oggi non esistono più, aveva tenuto per noi, ancora studenti o laureati, a lui affezionatissimi, un seminario estivo molto coinvolgente su Montale a Champéry, nella Svizzera francese, dove trascorreva le vacanze.
Al contrario, per me il quasi coetaneo Solmi era stato un nome sconosciuto (beata ignoranza!), sicché l’incontro con la sua poesia fu una magnifica sorpresa. Accadde che l’editore gli mandasse l’antologia, e un giorno ricevetti una lettera (ignoro come si fosse procurato l’indirizzo) che diceva:
«Si faccia vivo. Sono vecchio, da anni sono in pensione, e ormai non faccio più nulla che raccogliere, modificare, completare le mie vecchie cose. Ho tutto il tempo davanti, e così mi è venuto il vizio di chiacchierare, magari facendo perdere il tempo a chi non ne ha da perdere».
Mi feci vivo; sapevo che non avrei perso tempo, e poi che importava? Ero ansioso e intimidito all’idea di conoscere un grande poeta, e gliene fui molto grato.
Sono sempre stato convinto, a differenza del giovane Holden, che sia buona norma non incontrare di persona gli autori che ci hanno conquistato: si rischia una piccola o grande delusione, e a questo proposito narrerò poi di Montale. Tuttavia, per ragioni professionali più che per curiosità, ho conosciuto nella mia non breve vita un buon numero di narratori e di poeti, e devo dire che il gruppo dei narcisisti, intenti a contemplarsi allo specchio, sconfigge senza pietà quello di chi non si autocompiace di sé e della propria opera. Solmi non si compiaceva, nemmeno un poco. Aveva una dolcezza d’animo e d’espressione fuori del comune; sapeva ascoltare; parlava con pacatezza di letteratura; sembrava, anzi, più interessato al mondo dei giovani, al clima di protesta tipico di quegli anni, di cui condivideva parecchie delle ragioni. Mi aprì un universo sull’amata letteratura francese dell’Ottocento e del Novecento, di cui avevo letto solo gli autori più celebri. Il ritorno dolceamaro, dichiarato o nascosto, all’età della fanciullezza e dell’adolescenza, che è una costante della sua poesia e delle prose di Meditazioni sullo scorpione, apparteneva al suo mondo interno: forse anche per questo mi sentivo così vicino alla sua sensibilità: era anziano e insieme giovanissimo.
Molti, troppi anni fa, uno dei maggiori psicoanalisti del nostro secondo Novecento, Giovanni Carlo Zapparoli, mi disse una frase che mi fece riflettere: le uniche e vere amicizie sono quelle che si formano dall’infanzia alla primissima giovinezza: gli altri, quelli che vengono dopo, più che amici, sono compagni di strada, legati dal lavoro o da interessi comuni, magari semplicemente da un’attività sportiva o dal bridge. E tuttavia la parte fanciulla di Solmi, lui, «il vecchio che attese/ tutta una vita e non salpò» (“Via delle vele”), ma insieme il bimbo dagli «attoniti occhi infantili» (ibidem), il “bambino irriso” di “Sopra una tomba”, per chi, come me, appartenne a una generazione uscita tardissimo dall’adolescenza, anche per ragioni storiche (eravamo i figli piccoli della Seconda guerra mondiale, della povertà del dopoguerra, dell’incertezza del futuro, e di educazioni molto severe da parte dei genitori e dei docenti – la scuola fu per molti versi un incubo, e la liberazione avvenne solo con l’università), faceva sì che diventasse facile entrare in sintonia con un anziano-fanciullo amabile, coltissimo e passato attraverso ardue esperienze, come si vedrà leggendo questo carteggio. Provato dalla vita, «quando l’ultimo sole non è/ più che un barlume» (“L’ultimo angelo”), vita che peraltro gli aveva dato, nella maturità, anche molte soddisfazioni professionali (terminò la carriera lavorativa come capo dell’ufficio legale della Banca Commerciale Italiana di Milano), ma insieme eterno puer nel sorriso tenero e un po’sperduto che lasciava intravedere le tracce dell’infanzia.
Prendemmo l’abitudine di trovarci nella sua bella casa milanese di via Crivelli, soli o con qualche amico (ricordo specialmente Arnaldo Di Benedetto, insigne italianista purtroppo scomparso da pochi mesi), il sabato pomeriggio o più spesso la domenica mattina. Raramente parlava della sua poesia, ma a volte arrivava in sala con qualche foglietto dattiloscritto e diceva: «Se lo porti a casa e me lo legga, poi mi saprà dire». Erano le ultime poesie, quella de “La rosa gelata”, pubblicate per cura di Lanfranco Caretti da Mondadori, e confluite poi nel primo volume, tomo primo delle Opere (Adelphi, 1983), assieme ad altre, rimaste inedite fino all’edizione adelphiana. Fra le più belle della sua intera produzione poetica, uniscono, rafforzate dall’uso reiterato e ossessivo delle inarcature, estrema concentrazione lirica, e brevità, a disperazione (esemplare “Il fiore”, un ricordo della Grande Guerra: versi indimenticabili).
Sergio, benché ci separassero quarantatré anni, non fu solo un compagno di strada.
Un giorno, nella seconda metà degli anni Settanta, mi propose di farmi incontrare Eugenio Montale. Non riuscii a dirgli di no: benché immaginassi Montale uomo difficile: avevo nel frattempo conosciuto Luciano Erba, delizioso, come deliziose sono le liriche de Il male minore, malinconiche e struggenti (si leggano almeno “Domenica in Albis”, “Gli ireos gialli”, “La Grande Jeanne”, “Don Giovanni” e “Un’equazione di primo grado”), e mi duole che oggi non molti si ricordino di lui: poeta e francesista di valore, appartiene alla categoria dei grandi ingiustamente dimenticati, così come non è attribuito abbastanza il merito (enorme) che gli compete a Giorgio Caproni, un altro dei poeti che amo di più per l’apparente e calibrata svagatezza cantabile che nasconde una sofferenza profonda. Ma ritorno a Montale. Accompagnai Solmi in via Bigli, dove abitava l’amico, pieno di dubbi. Che si rivelarono certezza quando entrammo. Ecco, Montale, che aveva ottant’anni o poco più, non era nella forma migliore: vecchio e stanco, mi colpì la secchezza non priva di acredine delle frasi quando parlava di letterati e di poeti. Ora che non sono molto lontano dalla sua età posso capirlo: la vecchiezza è quasi per tutti, se non sorretti dall’affetto di un nucleo familiare amoroso (Solmi, per contro, aveva intorno a sé la moglie Dora e l’amorevole figlia Raffaella, ed era in continuo contatto col figlio Renato, che viveva a Torino), una delle stagioni più faticose della vita, e non c’è saggezza acquisita che tenga. Fa uscire asprezze e rancori. Ma se in Sergio Solmi le inquietudini della vecchiaia, manifestate in più di una lettera che mi scrisse, peraltro mai con una scontrosità che non era del suo carattere, venivano compensate dal garbo e dal vero interesse per gli altri, in Eugenio Montale colpiva a prima vista un’insofferenza non trattenuta. Forse tuttavia, più semplicemente, era infastidito dal fatto che l’amico, con cui ormai si incontrava di rado, gli avesse portato un perfetto estraneo, un signor nessuno che a stento gli aveva balbettato quattro parole. Fu una visita breve, e di Montale preferisco ricordare il poeta, la vertiginosa bellezza di molte liriche degli Ossi, di “Corno inglese”, di “Arsenio”, di “Fine d’infanzia”, di “Casa sul mare”, di molte fra le Occasioni, di “Dora Markus”, di “Eastbourne”, de “L’estate”, di “Barche sulla Marna”. E di alcuni incipit memorabili degni degli incipit danteschi: “Non serba ombra di voli il nerofumo/ della spera. (E del tuo non è più traccia.)” (“Gli orecchini”). O: “Fu dove il ponte di legno/ mette a Porto Corsini sul mare alto/e rari uomini, quasi immoti, affondano/ o salpano le reti.” (“Dora Markus”). Sì, anche lui, nella lettera a Solmi del 10 gennaio 1920, dichiara di essere «un vecchissimo fanciullo», «un timido e un sentimentale». E in “Riviere” si ricorda come “uno smarrito adolescente”.
Dove era finito tutto questo? Forse, negli anni tardi, le autodifese del poeta, diventato personaggio pubblico e premio Nobel, me ne nascosero il vero volto.
Montale e Solmi divennero amici nel 1917, quando, nel mezzo della guerra, si incontrarono a Parma alla Scuola d’Applicazione di Fanteria: l’uno ventunenne, l’altro diciottenne. Li unì, oltre alla stima reciproca, un’estrema sensibilità per la bellezza della poesia e, allora, ma forse non solo allora, una condizione di esuli dalla vita, vissuta solo a metà. Commuovono, nella loro sincerità, le parole che Eugenio rivolge a Sergio nella stessa lettera del 10 gennaio 1920:
«Puoi immaginarti la mia gioia nel vedere stringersi tra di noi tutti questi dolcissimi legami di amicizia. Legami che fra me e te sono ben saldi, mio carissimo Sergio: bisogna proprio che ti dica chiaramente quello che sento per te: cioè un amore grandissimo, e, quello che conta anche più, una stima sconfinata. Quando mi trovo teco mi par d’essere migliore; cosa assai spiegabile, ché se la bellezza genera nuova bellezza, anche le virtù dello spirito sono presto ritrovate per chi sa ammirarle in altrui».
Ma di questo, come delle varie tappe del loro immediato trovarsi, della loro amicizia e del ruolo all’interno della cultura italiana, visti attraverso il carteggio, rimando il lettore alle pagine, specialmente a quelle in cui viene illustrato il fitto rapporto dei due a proposito di letteratura e letterati e riviste degli anni Venti e Trenta, oltre allo scambio di poesie, di pareri, di scoperte di autori. Il piano appunto, culturale, nell’intento di lavorare entrambi alla creazione di una civiltà letteraria dignitosa e alta: con, assieme alla stima e all’affetto reciproco, come uomini e come poeti, molte intuizioni e qualche meritata passione: Italo Svevo, di cui Montale fu il primo a parlare in Italia con l’articolo “Omaggio a Italo Svevo”, pubblicato su “L’Esame” nel novembre-dicembre 1925, e Valery Larbaud e Aldo Palazzeschi. Benché si mescolino a questo piano, come è normale in un intreccio di parole fra amici che escluda reticenze, parecchie idiosincrasie, molte delle quali comprensibili, ed espresse in giudizi acuminati, non solo da parte di Montale, il più severo dei due.
«La maggior parte di quelle poesie sono orribili», scrive Solmi a Montale nella lettera del 5 ottobre 1932, forse anche per liberarsi di un antico influsso, anche se vago, delle liriche di Cardarelli sulla sua poesia. Restio, credo, ad apprezzare una certa solennità, eppure intrisa di malinconia, nei suoi versi migliori, che ancor oggi mi attraggono. Ma non accade mai che i pareri dei due amici discordino: si osservino, a esempio, i giudizi condivisi, non certo incoraggianti, su due scrittori e critici letterari allora molto noti: Giovanni Titta Rosa e Aldo Capasso.
(A proposito di Capasso, il lettore mi consenta di ricordare, divagando, un episodio dei miei anni di studente di Lettere classiche alla Statale di Milano. Mario Fubini aveva organizzato, oltre alle lezioni, un seminario settimanale dove gli iscritti potevano, a turno, portare un piccolo saggio su un testo poetico concordato col Maestro e leggerlo davanti ai compagni. Io scelsi l’Ambra, un poemetto di Lorenzo de’Medici, una delle sue opere più suggestive. Nella mia esposizione citai anche i giudizi di diversi critici letterari, e tra gli altri, il saggio di Capasso su Lorenzo, in Tre saggi sulla poesia italiana del Rinascimento. Quando lo nominai, Fubini mi guardò con i suoi occhietti celesti e un sorrisino ironico dietro le lenti, scrollando leggermente la testa ed esclamò: «Capasso? Ma le è piaciuto?». No, non mi era piaciuto per nulla).
Nessuno è perfetto, neanche i grandi: nella lettera a Solmi del 29 marzo 1927, Montale, che fu anche, negli anni, come del resto Solmi, un esigente e acuto critico militante (si pensi che le sue prose critiche occupano la bellezza di 3071 pagine nei primi due tomi di Il secondo mestiere, nei Meridiani Mondadori), gli parla di Rubè, il romanzo che Giuseppe Antonio Borgese pubblicò nel 1921 e che raccontava la dolorosa vicenda di un giovane avvocato meridionale, un piccolo-borghese senza qualità reduce dalla Grande Guerra. Letto a distanza di cent’anni, un libro appassionante, di magistrale forza narrativa, senza alcuna sbavatura, uno dei quattro massimi romanzi fra le due guerre insieme a La coscienza di Zeno, a La cognizione del dolore e a Le sorelle Materassi. Ecco, invece, forse dettato da non so quale risentimento personale, o forse dalla sordità per una storia così tormentosa, il giudizio di Montale: «Hai letto sul Convegno l’articolo di Momigliano su Borgese? È il triste avvenimento del giorno. Dice che Rubè val più di ‘Le rouge et le noir’… Qui» (a Firenze, dove collaborava con l’editore Bemporad) «ha fatto, in genere, un’impressione sinistra».
Opinione confermata e ulteriormente peggiorata in una lettera proprio ad Aldo Capasso del 30 giugno 1930, citata in nota da Francesca D’Alessandro: «Una risciacquatura verghiano-dostoievskiana». Assurdo. Lontano le mille miglia dal dolente fascino del romanzo. Anche se Montale modificò in parte il suo giudizio in un articolo-necrologio dopo la morte di Borgese (ora in Il secondo mestiere, tomo I, cit.): «Col romanzo Rubè (1921), che mostrava veramente come il suo “tempo di edificare” non fosse per lui solo uno sfogo critico, Borgese ha dato veramente il suo libro più importante creando una figura di détraqué che sarà citata a lungo fra i personaggi tipici della nostra età». Ma de mortuis nihil nisi bonum.
Tuttavia, a ben vedere, non furono, se non dei détraqués, nell’immediato dopoguerra, e magari anche un po’ più in là, dei disorientati, a dir poco, Montale e Solmi? A testimoniare il salto nel vuoto dei reduci abbandonati al loro destino dopo il congedo nel 1919-1920.
Senza un lavoro, senza un avvenire stabile, in un’Italia sbandata e in crisi economica alle soglie del fascismo. E, in tale senso, l’epistolario Montale-Solmi – vorrei insistere su questo punto – va molto oltre la testimonianza strettamente privata e letteraria; e le frequentissime nonché reciproche esternazioni di sofferenze emotive, angosce, delusioni (due dei molti esempi: «mi sento tanto debole e sperduto, e bisognoso d’appoggi», scrive Solmi a Montale in una lettera del 7 febbraio 1920, mentre l’amico gli risponde il 17 aprile, raccontandogli a sua volta di essere «caduto in uno stato di apatia dolorosa»), esternazioni legate all’affanno del proprio animo o collegate alla durezza della società dell’epoca, divengono la storia paradigmatica di una giovane generazione senza certezze; se non, nel caso dei due poeti, quella, agognata e insieme così fragile, della poesia. Ma si sa che la poesia non dà il pane.
Basti aprire le pagine del carteggio e citare qualche reperto: «Le mie deplorevolissime condizioni finanziarie non mi permettono neppure l’acquisto dei giornali (Solmi a Montale, 14-15 ottobre 1922). «Malandato, senza un quattrino» (Solmi a Montale, 21 gennaio 1923). «L’assillo del pane quotidiano» (Solmi a Montale, novembre 1923). «Sono in bolletta, e non vedo nulla di buono nel mio avvenire» (Montale a Solmi, 29 luglio 1927). «I soldi non alloggiano nelle mie tasche» (Montale a Solmi, 21 novembre 1927). «Non ho soldi e da mesi non leggo un rigo» (Montale a Solmi, 29 novembre 1927).
Ci furono tempi migliori per entrambi, ma molto più in là negli anni. Lo vedrà il lettore da sé, nonostante la scarsezza delle lettere dopo il 1934. Lettere smarrite, come quelle maneggiate dal povero scrivano Bartleby? Non è dato saperlo. Tuttavia appare per lo meno singolare, data la profonda amicizia fra i due poeti, che Montale non abbia mai scritto all’amico dell’amore tormentato per la bella Irma Brandeis, ispiratrice di buona parte delle Occasioni: concluso, dopo molti tentennamenti da parte del poeta, indeciso se seguirla in America, col ritorno della donna negli Stati Uniti nel 1938. Mentre è più che giustificabile il vuoto del periodo della guerra, quando Solmi partecipò attivamente alla Resistenza, col nome di Mario Rossetti.
Memorabile e spiritoso il suo racconto dell’evasione dalla Caserma Muti, dove, una volta arrestato, era stato condotto il 2 gennaio 1945 (“La Resistenza e dopo”, in Poesie, meditazioni e ricordi, vol. I, tomo II). Rinchiuso in una cella strettissima e freddissima in attesa dell’interrogatorio, bussa più volte per essere scortato alla latrina in cortile. Poi, diligente, ritorna in cella, ma quando si accorge che la sentinella ha lasciato la porta socchiusa ed è rientrata nel corpo di guardia, non fa altro che uscire e avviarsi indisturbato varcando infine tranquillamente il portone. Nessuno lo ferma. Come invisibile. E, non solo a questo proposito, ma in chiave più generale e metaforica, in Sergio Solmi. Settant’anni. Uomo e poeta (Il secondo mestiere, tomo II), Montale argutamente commenta:
«Chi come me lo conosca da quarant’anni non può dire che le lunghe stagioni abbiano, nonché scalfito, neppur toccato il suo dono naturale che è di vedere senza essere visto e di essere presente come può esserlo un fatto o meglio un dono di natura. Se è un dono la chiaroveggenza, il vedere prima degli altri e meglio degli altri ciò che si nasconde nelle molte nebulose che ci hanno oscurato lo sguardo, possiamo dire che Solmi abbia avuto questo dono fin dai suoi primi anni».
Le lettere riprendono, poche, dal 1945 al 1948, in mezzo al baillamme politico dell’Italia del dopoguerra, riducendosi poi ulteriormente dopo il trasferimento di Montale a Milano. Il telefono e gli incontri avevano sostituito carta e penna, ma l’affetto restò immutato.
Sulla situazione politica di quel tempo e sulla posizione di Montale e Solmi, in mancanza di significativi riscontri nel loro epistolario, occorrerà rifarsi a un ottimo scritto di Renato Solmi che, in Solmi, Montale e le stalle di Augia (in “Una città”, n.°152, dicembre 2007-gennaio2008), ricorda come, dopo «un’epoca relativamente felice di trapasso e di transizione», durata un anno dalla fine della guerra, fosse poi venuto meno il tentativo di dialogo fra le due forze politiche maggiori, ormai contrapposte, sicché entrambi i poeti si allontanarono via via da ogni possibile impegno politico, «né gli esponenti di una parte, né quelli dell’altra sarebbero stati minimamente disposti a dargli ascolto».
Montale tornerà amaramente, ci rammenta Renato, a quegli anni, e a ciò che si sarebbe susseguito, in “Botta e risposta”, I, parte II (1962), uno dei suoi risultati in assoluto più alti. Dopo il truce ventennio del fascismo, «la liberazione da parte delle acque dell’Alfeo, che finiscono per inondare uniformemente ogni cosa, ha prodotto, per certi aspetti, un risultato ancora peggiore». Venendosi a determinare
«quella totale indistinzione delle parti, quella compromissione universale e sistematica, in cui risulta sempre più difficile preservare la propria dignità personale, e, in ultima istanza, anche la propria libertà di spirito».
«Che senso aveva quella nuova/ palta?», si e ci interroga Montale nei suoi versi; «ed era sole quella sudicia/ esca di scolaticcio sui fumaioli,/ erano uomini forse,/ veri uomini vivi/ i formiconi degli approdi?».
Certo, «ora sai che non può nascere l’aquila/ dal topo», è lo sconsolato finale.
Va detto che, dopo “La bufera”, Montale sconcertò dapprima i suoi appassionati lettori e la critica, suscitando accesi dibattiti, abbandonati i toni alti e drammatici per passare a un linguaggio medio colloquiale, ora intriso di delicato pathos (cfr. “Xenia I” e “Xenia II”) ora, più in là, diaristico o gnomico, con una vena torrenziale insolita per lui. Basti rilevare che in “L’opera in versi”, l’edizione critica einaudiana del novembre 1980, a cura di Rosanna Bettarini e Gianfranco Contini, compaiono, successive alla “Bufera”, ben 389 poesie: molte di notevole valore, altre trascurabili. Ma il Montale post “Bufera” va preso in blocco, e letto come si possono leggere i Cahiers dei grandi scrittori francesi (penso specialmente a Valery Larbaud e a Julien Green), seguendo passo dopo passo le sue giornate, gli umori, le riflessioni, e soprattutto il frequente ricordo del passato e la distanza da un presente in cui non poteva riconoscersi.
Quanto a Solmi, smessa dopo il 1940 la vasta attività di critico militante, abbandonata la scrittura politica, ampiamente testimoniata in Letteratura e società, volume quinto delle Opere, andò orientando i suoi interessi, puntualizza il figlio, «su autori e opere determinate e di maggiore rilievo e importanza». E, fra gli altri, è giusto ricordare il magnifico Saggio su Rimbaud (1974), l’autore preferito, insieme a Leopardi, della sua intera vita. Aperta altresì una nuova e lunga stagione della sua poesia, fino alle brevi e struggenti liriche della vecchiaia, cui ho già accennato.
Sono passati quarant’anni dalla morte di Montale e di Solmi. La poesia ci difende dalla morte, ma verso di essa ci conduce. A ben vedere, sotto il velame la letteratura è anche, se non soprattutto, uno sterminato cimitero di ombre a cui ci rivolgiamo come se fossero vive. Anzi, molte sono ben vive dentro di noi, nella loro parte migliore, al di là delle debolezze della vita. La bellezza e la forza, tanto interiore quanto pervasiva, delle loro opere le rendono cosa salda ai nostri occhi e al nostro cuore. Finché ombre saremo con loro, ombre, per sempre.
*Si riproduce per gentile concessione dell’autore, il saggio pubblicato su “Antologia Vieusseux” n. 82, come “Ombre. Il carteggio Montale-Solmi”; Giovanni Pacchiano ha curato per le edizioni Adelphi le opere di Sergio Solmi