“La lotta appassionata con il Dio che punisce”. Andrea Caterini entra nelle viscere del “Giobbe” di Joseph Roth
Letterature
Andrea Caterini
Come si può combattere contro la complessità del quotidiano e del futuro, con una inoffensiva frase compassionevole, o una pacca su una spalla? Suona strano ma in effetti, nella bilancia delle forze in gioco nella società, diceva Simone Weil (1909 – 1943), è come se “il grammo avesse la meglio sul kilogrammo”.
“Dal momento che il grande numero obbedisce – scriveva nel 1934 –, e obbedisce fino a lasciarsi imporre la sofferenza e la morte, mentre il piccolo numero esercita il suo potere di comando, ciò mostra come non sia vero che il numero sia una forza. Nonostante la nostra immaginazione ci porti a disconoscerlo, il numero è una debolezza. […] Il popolo non è sottomesso nonostante il suo numero, ma è sottomesso perché è quel numero”.
E ribadiva: “Non può aver luogo la coesione se non tra una piccola quantità di uomini. Oltre questa soglia, si dà solo giustapposizione di individui, ossia debolezza”.
Eppure, agli occhi della pensatrice francese, anche questo non indicava per forza una via di uscita – il male, la violenza, sono sostanzialmente ineliminabili dalla società:
“L’ordine sociale, per quanto necessario, è essenzialmente malvagio, qualsiasi esso sia. […] Le lotte tra concittadini non provengono da mancanze di comprensione o di buona volontà; esse fanno parte della natura delle cose, e non possono essere risolte, ma solamente soppresse con la coercizione. Per chiunque ami la libertà, non è affatto desiderabile ch’esse scompaiano, ma solamente che rimangano entro un certo limite di violenza”.
Ero a Londra, quando lessi queste parole, una primavera; avevo trovato una raccolta della Weil, in un negozietto di libri usati, Oppression and liberty (che include il saggio, tradotto per Adelphi, Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione, più altri testi e frammenti – pubblicatidi recente da Farina Editore in Libertà, obbedienza, rivoluzione). In quello stesso periodo, dovevo prendere la metropolitana per arrivare all’università, invece del solito autobus, perché le strade erano bloccate da proteste. Quelle manifestazioni erano organizzate da un movimento ambientalista, Extinction Rebellion, il loro simbolo una clessidra in un cerchio: in qualche modo, mi sentivo ugualmente partecipe alla loro protesta, pur essendo dotato solo di una matita e di quel libro nello zaino – in copertina, un dettaglio da una scena apocalittica in un quadro di un pittore inglese, Joseph Paul Pettitt, intitolato Armageddon.
Chi si sia mai accostato a un libro di Simone Weil, in fondo potrebbe ritrovarsi nel racconto di Simone de Beauvoir – in un passaggio di Memorie di una ragazza perbene – del loro incontro, ancora studentesse, alla Sorbona:
“Mi avevano raccontato che nell’apprendere che in Cina era scoppiata una grande carestia s’era messa a singhiozzare; queste lacrime m’imposero il rispetto più ancora dei suoi doni di filosofa. Invidiai un cuore capace di battere all’unisono coll’intero universo. Un giorno riuscii ad avvicinarla. Non so più come nacque la conversazione; lei dichiarò in tono deciso che la sola cosa importante, oggi, sulla terra era la Rivoluzione, che avrebbe dato da mangiare a tutti quanti. Io di rimando, e in tono non meno perentorio, risposi che il problema non era di far la felicità degli uomini, ma di trovare un senso alla loro esistenza. Lei mi squadrò. – Si vede che non avete mai avuto fame, – replicò. I nostri rapporti si fermarono qui”.
Del resto il suo editore italiano, Roberto Calasso, in un’intervista, diceva proprio intorno al rapporto fra scrittori e politica:
“Non ci sono esempi impeccabili in questo senso. Conosco soltanto un numero molto ristretto di scrittori che abbiano fatto cose molto buone in politica. Simone Weil potrebbe essere un esempio. È difficile trovare un punto su cui attaccarla – sia come persona che come scrittrice. Penso che sia una tendenza fastidiosa e fuorviante quella di giudicare uno scrittore come se dovesse essere l’ideale del buon cittadino. Non è così che vanno le cose. Non siamo fatti in questo modo. È già tanto se qualcuno riesce a scrivere un buon libro”.
Anni dopo, mi capita un’altra piccola raccolta fra le mani, Pour une littérature combattante (Indigéne éditions 2020): quattro testi in cui Weil affronta il tema del ruolo degli scrittori e il valore della letteratura.
Mi colpì in particolare una lettera del 1941, ai Chaiers du Sud, rivista della zona libera con cui collaborò poco prima e durante il suo esilio inglese (tra gli altri, vi apparve, sotto lo pseudonimo anagrammato Émile Novis, il saggio “L’Iliade o il poema della forza”), sulla “responsabilità della letteratura”. Sarebbe stata resa pubblica dalla stessa con dieci anni di ritardo – l’autrice allora ne aveva appena 32 (si segnala, a proposito del suo pensiero e delle vicende di quest’ultimo periodo: Sabina Moser, Essere nell’eterno per vivere nel tempo. Gli “Scritti di Londra” di Simone Weil, Lorenzo de’ Medici Press, Firenze 2008).
Léon-Gabriel Gros, poeta e critico francese, aveva – ci fa sapere Pétrement, biografa di Weil – “pubblicato due articoli nei Cahiers du Sud, nei quali argomentava contro la tesi, quasi ufficiale allora, della responsabilità degli scrittori nel disastro nazionale del 1940. Simone sentì la necessità di informare la rivista che non era dello stesso parere”, proponendo una riflessione più ampia sul carattere stesso del XX secolo, che pensava essere “l’indebolimento e quasi la scomparsa della nozione di valore” – di cui, a suo parere, movimenti artistici e letterari come il surrealismo e il dadaismo erano “casi estremi”, “affetti dalla stessa carenza, la carenza del sentimento del valore”.
Una “maniera di vedere” di cui non pochi altri intellettuali – fra cui anche, “per sfortuna”, come scriveva, alcuni per cui non provava simpatia – di fronte alla catastrofe della guerra e alla “sciagura del nostro tempo”, si sarebbero fatti portatori (si pensi ad esempio al C.S. Lewis de L’abolizione dell’uomo di pochi anni dopo). Nella lettera, Weil sosteneva al contrario che “gli scrittori non devono essere dei professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E niente è così essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in ogni istante, che il bene e il male. Quando la letteratura diventa per partito preso indifferente all’opposizione tra bene e male, essa tradisce la sua funzione e non può aspirare all’eccellenza. […] Il sentimento del bene e del male impregna tutti i suoi versi [di François Villon, “il primo, il più grande” scrisse altrove, ndr], come impregna tutte le opere non estranee al destino dell’uomo.”
Per concludere:
“Certo, esiste qualcosa di ancora più estraneo al bene e al male dell’amoralità, ed è una certa moralità. Coloro che accusano in questo momento gli scrittori famosi valgono infinitamente meno di questi ultimi, e l’‘aggiustamento’ che certi vorrebbero imporre sarebbe ben peggio dello stato delle cose al quale si pretende di porre rimedio. Se le sofferenze attuali dovessero mai portare ad un aggiustamento, non avverrà per l’effetto di slogan, ma nel silenzio e la solitudine morale, attraverso le pene, le miserie, i terrori, nel più intimo dello spirito di ciascuno di noi”.
Di seguito una traduzione della lettera (una versione era già apparsa in un volume del 1993, a cura di Adriano Marchetti, Poesie e altri scritti, per Crocetti) – non so perché, ripensandoci, mi vengono in mente le parole di un monaco dei nostri giorni, secondo cui, “C’è solo una cosa che vale più della vita ed è il significato della vita”. (Alessandro Burrone)
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Lettera sulla responsabilità della letteratura
Leggendo l’allusione fatta da Gros alla controversia sulla responsabilità degli scrittori, non posso astenermi dal tornare sulla stessa questione per difendere una maniera di vedere contraria a quella della rivista, contrario a quella di praticamente tutti coloro che mi sono simpatici, e simile in apparenza, per sfortuna, a quella di persone per le quali non provo alcuna simpatia.
Io credo nella responsabilità degli scrittori dell’epoca che si è appena conclusa nella sciagura del nostro tempo. Con questo non intendo solamente la sconfitta della Francia; la sciagura del nostro tempo si estende molto più lontano. Si estende al mondo intero, cioè all’Europa, all’America, e agli altri continenti, per quanto l’influenza occidentale vi sia penetrata.
È vero, come Mauriac ha fatto notare, che i migliori libri contemporanei sono ben poco letti. Ma la responsabilità degli scrittori non si può misurare sulla cifra di un tiraggio. Perché il prestigio della letteratura è immenso. Lo si può verificare dagli sforzi compiuti in passato da certe formazioni politiche per assicurarsi i nomi di scrittori celebri per fini demagogici. Coloro ai quali il nome stesso degli scrittori celebri è sconosciuto non subiscono meno il prestigio della letteratura che essi ignorano. Non si è mai letto come oggi. Non si leggono libri, ma giornali mediocri o pessimi; questi giornali penetrano dappertutto, nei villaggi, nelle periferie, e, per effetto delle convenzioni letterarie della nostra epoca, tra i peggiori di questi giornali e i migliori dei nostri scrittori non c’è rottura di continuità. Questo fatto che è conosciuto o piuttosto confusamente sentito dal pubblico, abbellisce ai loro occhi le più ignobili imprese pubblicitarie del prestigio della alta letteratura. Ci sono state, nel corso degli ultimi anni, delle bassezze incredibili, come certe consultazioni sentimentali accordate da scrittori conosciuti. Senza dubbio non tutti si sono abbassati a un tale livello; gli sarebbe mancato ancora molto. Ma quelli che l’hanno fatto non sono stati ripudiati né respinti dagli altri, e nemmeno perdevano la propria reputazione tra i loro pari. Questa facilità della coscienza letteraria, questa tolleranza della bassezza dà ai nostri scrittori più eminenti, una parte di responsabilità nella demoralizzazione di una ragazza di campagna che non è mai uscita dal proprio villaggio e non ha mai sentito i loro nomi.
Ma gli scrittori hanno una responsabilità più diretta.
Il carattere essenziale della prima metà del XX secolo, è l’indebolimento e la quasi scomparsa della nozione di valore. È uno dei rari fenomeni che sembrano essere, per quanto se ne possa sapere, veramente nuovi nella storia dell’umanità. Potrebbe essere, sia detto, che si sia già prodotto nel corso di periodi che sono poi sprofondati nell’oblio, come accadrà forse con la nostra stessa epoca. La sostituzione della quantità alla qualità nella produzione industriale, il crollo del lavoro qualificato presso l’ambiente operaio, la sostituzione dei diplomi alla cultura come obiettivo degli studi della gioventù studentesca ne sono delle espressioni. La scienza stessa non possiede più dei criteri di valore in seguito all’abbandono della scienza classica. Ma gli scrittori erano per eccellenza i guardiani del tesoro che è stato perduto, e alcuni tra loro si sono fatti vanto di questa perdita.
Il dadaismo, il surrealismo sono dei casi estremi. Essi hanno espresso l’ebbrezza della totale dissolutezza, ebbrezza nella quale si immerge lo spirito quando, rigettando ogni considerazione di valore, si consegna all’immediato. Il bene è il polo verso il quale si orienta necessariamente lo spirito umano, non solamente nell’azione, ma in ogni suo sforzo, compreso lo sforzo della pura intelligenza. I surrealisti hanno eretto a modello il pensiero non orientato; hanno scelto per supremo valore l’assenza totale di valore. La dissolutezza ha sempre inebriato gli uomini, ragione per la quale, lungo tutto l’arco della storia, le città sono state saccheggiate. Ma il sacco delle città non ha sempre avuto degli equivalenti letterari. Il surrealismo ne è un esempio.
Gli altri scrittori dello stesso periodo e del periodo precedente sono andati meno lontano, ma pressoché tutti – a eccezione forse di tre o quattro – sono più o meno affetti dalla stessa carenza, la carenza del sentimento del valore. Parole come spontaneità, sincerità, gratuità, ricchezza, arricchimento, parole che implicano un’indifferenza quasi completa per le opposizioni di valore, sono apparse più spesso sotto le loro penne rispetto alle parole che implicano un rapporto con il bene ed il male. D’altronde questa ultima specie di parole si è degradata, soprattutto quelle in rapporto al bene, come Valéry aveva rilevato qualche anno fa. Parole come virtù, nobiltà, onore, onestà, generosità sono diventate quasi impossibili da pronunciare oppure hanno preso un senso bastardo; il linguaggio non fornisce più alcuna risorsa a chi voglia lodare il carattere di un uomo. Ne fornisce qualcuna in più, ma certo non più per lodare lo spirito di un uomo; quella la parola stessa, spirito, o parole come intelligenza, intelligente e simili sono anch’esse degradate. Il destino delle parole rende sensibile il progressivo venire meno della nozione di valore, e per quanto questo destino non dipenda dagli scrittori, non si può fare a meno di considerarli responsabili, dacché le parole sono un un affare che li compete direttamente.
Si è elogiato negli ultimi tempi, a giusto titolo, l’opera di Bergson; si è parlato dell’influenza esercitata da quest’ultimo sul pensiero e la letteratura della nostra epoca. Cionostante, al centro della filosofia dalla quale vengono le sue tre opere si trova una nozione essenzialmente straniera ad ogni considerazione di valore, ed è la nozione di vita. Invano si è voluto fare di questa filosofia una base per il cattolicesimo, il quale d’altronde non ne ha alcun bisogno, avendo delle basi molto più antiche. L’opera di Proust è piena di analisi che tentano di descrivere stati d’animo non orientati; il bene non vi appare che in rari momenti dove, vuoi per l’effetto dei ricordi, vuoi della bellezza l’eternità si lascia presentire attraverso il tempo. Si potrebbero fare osservazioni analoghe per molti scrittori del periodo prima e soprattutto dopo il 1914. In linea generale la letteratura del XX secolo è essenzialmente psicologica. E la psicologia consiste nel descrivere gli stati d’animo distribuendoli su uno stesso piano senza discriminazione di valori, come se il bene e il male fossero loro estranei, come se lo sforzo verso il bene possa essere assente in un qualsiasi momento dal pensiero di qualsiasi uomo.
Gli scrittori non devono essere dei professori di morale, ma devono esprimere la condizione umana. E niente è così essenziale alla vita umana, per tutti gli uomini e in ogni istante, che il bene e il male. Quando la letteratura diventa per partito preso indifferente all’opposizione tra bene e male, essa tradisce la sua funzione e non può aspirare all’eccellenza. Racine che in gioventù si prendeva gioco dei giansenisti, smise di farlo quando scrisse Fedra, e Fedra e il suo capolavoro. Da questo punto di vista, non è affatto vero che non c’è continuità nella letteratura francese. Non è vero che Rimbaud e i suoi successori (escludendo alcuni passaggi de Una stagione all’inferno) siano dei continuatori di Villon. Che importa se Villon ha rubato? Rubare fu, da parte sua, forse un effetto della necessità, forse un peccato, ma non un’avventura né un atto gratuito. Il sentimento del bene e del male impregna tutti i suoi versi, come impregna tutte le opere non estranee al destino dell’uomo.
Certo, esiste qualcosa di ancora più estraneo al bene e al male dell’amoralità, ed è una certa forma di moralità. Coloro che accusano in questo momento gli scrittori famosi valgono infinitamente meno di questi ultimi, e l’“aggiustamento” che certi vorrebbero imporre sarebbe ben peggio dello stato delle cose al quale si pretende di porre rimedio. Se le sofferenze attuali dovessero mai portare ad un aggiustamento, non avverrà per l’effetto di slogan, ma nel silenzio e la solitudine morale, attraverso le pene, le miserie, i terrori, nel più intimo dello spirito di ciascuno di noi.
Simone Weil
*La traduzione e la cura del testo sono di Alessandro Burrone