19 Aprile 2022

Perché il forte uccide l’inerme? Simone Weil sulla guerra

Chiunque abbia letto con attenzione i versi dell’Iliade coglie l’atmosfera liturgica del poema, e sa immediatamente che nulla separa Ettore da Achille. Ma a Simone Weil va il merito di aver riscattato questa remota rapsodia dalle categorie letterarie, per porla nel suo repositorio di testo sacro.

Il cantore cieco, che sia stato o meno, è presenza coerente e voce armonica di un immane lavoro tragico: nume che osserva con veduta altissima; non parziale, non guerresca, ma colma di pietà. Quel contegno equanime nel narrare gli alterni umani destini che è proprio di chi sa: della ciclicità del tempo, del dominio della forza. La forza che è «vero eroe, vero argomento» dell’intera esistenza.

È questa potenza scura l’unico vincitore di ogni conflittuale vicenda, in cui vittima e carnefice sono ingranaggi di un congegno di necessità: privati d’anima, smorzati a entità ignare, puramente corporee, opache come pietre. Ma la meditazione di Weil sui rapporti di forza tra le creature e l’apparente assenza di Dio nell’universo pervade tutta la sua ermeneutica. In Attesa di Dio (a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi 2008) più volte si fa menzione dell’uomo spento dalla durezza degli eventi, che diviene orfano d’anima: privato di pensiero autonomo, di libertà d’azione, di compassione. Assente all’amore.

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Ogni essere umano è ferito, per quello che nel mondo normalmente accade, a suo danno ma anche per sua opera: la quotidianità è pervasa da una forma di degradata «giustizia naturale», di meccanicismo che si genera nel rapporto tra tutte le creature, impresso da Dio affinché il reale possa esistere in autonomia; sanguinario dispositivo di mutua sopraffazione, che Tucidide espone chiaramente nell’ultimatum che gli Ateniesi rivolgono agli abitanti della piccola isola di Melo: «Considerata la natura dello spirito umano, si esamina ciò che è giusto solo quando da entrambe le parti c’è uguale necessità. Ma nel caso ci siano un forte e un debole, ciò che è possibile viene imposto dal primo è accettato dal secondo […] per una necessità di natura, ciascuno comanda ovunque ne abbia il potere […] sappiamo bene che anche voi, come tutti gli altri, una volta giunti allo stesso grado di potenza agireste allo stesso modo».

Questa lucidità riguardo l’ingiustizia nativa che abita le cose, dice Weil, è già luce, quella luce che sa del male e che può, se la riflessione su sé stessi evolve, schiudersi in carità. Il primo passo, per il potente, è non accreditare la propria causa come giusta, ma come desiderio e brama; «diritto» non del bene ma dell’ottenibile, e adesione alla predisposta legge universale dell’infierire su chi ha sorte avversa.

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Nondimeno, il vero bene che si porta al prossimo è, secondo Weil, una delle tre forme di devozione amorosa (insieme a quello per il creato e per le liturgie) che non solo restituiscono l’interiorità umana alla propria essenza, ma possono altresì prepararla a quel momento di rivelazione purissima in cui «Dio in persona» sceglie un’anima e le si avvicina, venendo «a prendere per mano la sua futura sposa».

Questo non accade nel frastuono sociale, nell’ostentazione di moralismo, nel dogma ecclesiastico, ma nella quiete dell’intima preghiera: «Anche se qualche rumore si fa sentire, tutto lo spazio viene riempito da un denso silenzio che non è assenza di suono, bensì oggetto positivo di sensazioni, più positivo di un suono, ovverosia la parola segreta, la parola dell’Amore che fin dall’origine ci tiene fra le braccia» (Lettera a Bousquet, in Cahiers du Sud, CCCIV, 1950, in Attesa di Dio, op. cit.); amore per il prossimo e amore di Dio si alimentano l’un l’altro, nella lealtà del silenzio, nella docilità al sacrificio di sé: «Il primo silenzio, lungo appena un istante, che si produce attraverso tutta l’anima in favore dell’amore soprannaturale, è il seme gettato dal Seminatore, è il granello di senape quasi invisibile che un giorno diventerà l’Albero della Croce» (Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Milano, Adelphi, 1996).

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Posto che la vera spontanea giustizia sulla terra potrebbe aver compimento solo nel pieno convergere di due volontà, ciò che Platone diceva «mutuo consenso», e Filolao «pensiero comune di pensanti separati», questo può accadere con naturalezza solo tra pari, laddove le cose si pongano in equilibrio naturalmente. Ma chi invece, «tratta da uguali coloro che il rapporto di forza pone su un piano inferiore fa loro veramente dono di quella qualità di esseri umani di cui la sorte li aveva privati». È così che l’uomo, «per quanto è possibile a una creatura, riproduce […] la generosità originaria del Creatore».

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L’amore implicito di Dio, nella sua forma di amore per il prossimo, è scandalo e insurrezione, perché va contro la necessità meccanica che regola l’universo secondo la legge, stabilita nelle stesse soprannaturali sfere, del prevalere di una creatura sull’altra mediante l’uso della forza.

Simone scrive a padre Joseph-Marie Perrin: «Credo che, eccetto lei, tutti gli esseri umani ai quali mi è capitato di dare, con la mia amicizia, il potere di procurarmi facilmente delle sofferenze si siano divertiti talora a farlo, di frequente o di rado, consciamente o meno, ma tutti, qualche volta […] Tutti gli uomini portano in sé questa natura animale. Essa ne determina l’atteggiamento nei riguardi dei loro simili, con o senza consapevolezza e adesione da parte loro. Così talvolta, senza che il pensiero se ne renda assolutamente conto, la natura animale di un uomo ha sentore della mutilazione della natura animale in un altro e reagisce di conseguenza […] ciascuno si sottrae [a questa necessità meccanica] proporzionalmente al posto che il soprannaturale autentico detiene nella sua anima» (Simone Weil, La fede implicita, in: Attesa di Dio, op. cit).

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Padre, perdona loro, perché non sanno quello che fanno (Lc 23, 34), diceva Gesù davanti ai suoi aguzzini. Assolvere chi ci strazia, vedendone, nel riflesso, il non diverso giogo.

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Se l’imposizione del bruto sull’indifeso, sia essa di natura fisica o morale, è il canone di una realtà sociale che rotola in automatismo, e che, benché abitata da esseri dotati di coscienza, diviene come un «grosso animale» (anche in Platone, Repubblica, VI, 75 e sgg) opaco a sé stesso, ebbene il singolo cuore che ancora vede lo sventurato, ferito e affamato, ignorato sul ciglio della strada, e lo accoglie nella propria attenzione, lo ridà al mondo come creatura degna, dotata d’anima, operando un battesimo. Generando «dall’alto, a partire dall’acqua e dallo spirito». E ancora, colui che rinuncia a esercitare qualsiasi forza o potere sul fratello che è nella malasorte, ma anzi fa il suo bene donandogli alimento, ricovero e aiuto, è portatore in sé del Cristo, di quel divino insito nell’uomo che si desta alla materia, e al processo basale non risponde. «La compassione e la gratitudine discendono da Dio, e quando vengono donate attraverso uno sguardo, Dio è presente nel punto in cui gli sguardi s’incontrano».

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In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me. (Mt 25, 40)

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Tale anima accesa, infondendo nel fratello caduto sguardo e dono, limita sé stesso e sopravviene al meccanicismo della propria singola, istintiva autoaffermazione: delimitandosi e diminuendosi, ricava in sé uno spazio attentivo che è creazione d’amore; così come Dio, assoluto Essere che conteneva tutto, si è ridotto in atto creativo dandoci alla luce.

Il dono che passa da un uomo all’altro in questo modo, quando c’è bilaterale consapevolezza che la sventura è unità di misura mobile e pervasiva dell’esistenza umana, e che le infelici sorti, così come le gloriose e benevole, sono alterne e non definiscono in alcun modo la persona, non crea nel benefattore senso di alcun orgoglio, né nella persona soccorsa alcuna umiliazione: Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare. (Mt 25, 35)

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In quell’immanente, artificiale simulacro che è la «giustizia» umana, dove il forte prevale sul debole, e colui che possiede è dispensato dal dare, chi dona è ritenuto generoso, e chi riceve è definito graziato, elargito; mentre nel Vangelo non è dato atto caritatevole, ma semplicemente «giusto»: seria compassione e vera gratitudine abitano i due lati del gesto, nella dignità.

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Invece un Samaritano, che era in viaggio, passandogli accanto lo vide e n’ebbe compassione. Gli si fece vicino, gli fasciò le ferite, versandovi olio e vino; poi, caricatolo sopra il suo giumento, lo portò a una locanda e si prese cura di lui. (Lc 10, 33)

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Nel saggio L’iliade poema della forza Weil analizza il messaggio di fondo, l’annuncio che pervade i versi omerici in questo canto cultuale, consacrato. Opera miliare che segna, con la caduta della città eccelsa, bianca, appesa al cielo, l’inizio del declino materialistico dell’occidente. Non «documento», dice Simone, ma «specchio» sincronico dell’interminata condizione umana di alterna sventura.

L’episodio di Elena rapita, storicamente messo in dubbio da Erodoto sulle rivelazioni dei sacerdoti egizi, è l’archetipo di ogni pretestuoso motivo addotto per scatenare conflitti, quando il vero movente della guerra, di ogni guerra, è la reificazione dell’uomo da parte della forza. In Omero non si celebra la gloria o la patria, non l’immortalità dell’eroe, ma si piange lo spezzarsi della vita nella diffusa amarezza, nel continuo rimpianto. Ettore è «una cosa trascinata dietro un carro nella polvere» e gli «aurighi senza macchia» giacciono a terra «agli avvoltoi più cari assai che alle spose».

Un cordoglio cupo, irredento, messo a doloroso contrasto con il «mondo precario e toccante della pace»: l’affetto della sposa cara che attende e riscalda l’acqua nel trìpode, «i larghi lavatoi, d’accanto, / belli, tutti di pietra, dove le vesti splendenti / lavavano le donne […] un tempo, nei giorni di pace»; il crepuscolo assorto nel ricordo del lavoro buono, quando «il legnaiolo va a preparare il suo pasto / nei valloni delle montagne, quando ha sazie le braccia / di abbattere i grandi alberi» e che ora è il momento in cui «col loro valore, i Dànai» rompono «il fronte».

In Omero, suggerisce Weil, la poesia avvolge con struggente incanto tutto ciò che non è più: dei morti guerrieri si dice la giovinezza lucente, il candore, il perduto amore. E si dice la forza: quella che uccide, sì, la «sommaria, grossolana»; ma anche la forza altra, quella «sospesa sulla creatura» che minaccia e pende, e «muta l’uomo in pietra», per paura o miseria. Priamo supplice di Achille, Achille stesso che piange intimamente, ricordando il padre lontano. E le giovani donne violate, contese, rapite a terre remote, dove dovranno sottostare a odiosi padroni, «sotto l’imperio di dura necessità», costrette persino a coatte nuove affezioni, nella lacrima negata, trasposta per paura e prigionia.

Lo schiavo, premuto dal bisogno primario di sopravvivenza e conservazione, perde «ogni vita interiore», come divenisse «materia inerte». Pietra la vittima, pietra il carnefice: ugualmente assente, quest’ultimo, alla propria anima, anch’egli prono alla forza che lo possiede: poiché non incontra, nell’oppresso, alcuna resistenza, non ha più «tra l’impeto e l’atto quel lieve intervallo ove s’inserisce il pensiero» e dunque agisce «duramente e follemente», attirando sul proprio capo ogni maledizione, e preparandosi così al ribaltamento dei destini che lo travolgerà.

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È così, dice Weil – stagliandosi gigantesca – che «la guerra cancella ogni idea di scopo [cancella] il pensiero stesso di metter fine alla guerra […] lo spirito dovrebbe architettare qualcosa per trovare una via d’uscita [ma] le sventure intollerabili durano in virtù del loro stesso peso […] durano perché privano delle risorse necessarie ad uscirne». L’anima ammutolita dalla violenza esercitata e subita non si sazia di una ricomposizione ragionata, creativa del conflitto, ma anela alla distruzione radicale, che annienti ogni sua possibilità di risveglio ed elaborazione dei fatti, che soffochi «gli orrendi ricordi». Una generale rovina, per sé e per l’altro, nell’emulazione dei compagni perduti, nel desiderio esiziale d’annientamento. È il male che trionfa, e la morte che alimenta sé stessa.

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Ma l’essere umano non è solo questo, e Omero lo sa: nel poema ci sono «brevi» istanti e «divini», in cui gli uomini si riaccendono, ed esprimono, contro ogni contingente evento, forme limpidissime di amore. Nella meditazione solitaria del guerriero, nel rispetto dell’ospitalità, nella devozione genitoriale o filiale, nell’afflato fraterno, coniugale, nella più pura amicizia. Ma il trionfo più vibrante e alato dell’amore, «grazia suprema», è quello che monta al cuore, inaudito, per il nemico mortale: «Ma quando fu placato il bisogno di bere e mangiare, / prese allora il Dardànide Priamo ad ammirare Achille, / com’era grande e bello; aveva il volto di un dio. / E a sua volta il Dardànide Priamo fu ammirato da Achille / che gli guardava il bel volto e ascoltava la sua parola».

Ecco il rimpianto di quello che l’uomo può essere, quando si eleva, si dischiude nella resa. Ecco il divino sentire di Omero, in cui l’amarezza si mischia alla tenerezza «che si stende su tutti gli umani, eguale come il chiarore del sole». Prospettiva di mirabile altezza, che emula il divino.

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Perché siete figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni. (Mt 5, 45)

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È evidente la linea tematica tesa e luminosa che, come Weil sapientemente rileva, unisce l’Iliade ai primi tragici – Eschilo, Sofocle – e ai testi cristici per eccellenza, i Vangeli, in cui avviene la dolorosa, tremenda sintesi di miseria umana e spirito divino: è lo stesso figlio di Dio che, avvilito nella carne, trema di dolore e paura, e si lascia umiliare condividendo con l’uomo la più amara sventura.

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Dio mio Dio mio, perché mi hai abbandonato? (Mc 15, 34; Mt 27,46)

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La croce è simbolo di questo negarsi, che rende pronti, sull’esempio di Cristo, a ridare essenza ad altri limitando sé stessi, offrendosi come riscatto, in dono. «Dio ha pensato ciò che non era, e mediante l’atto di pensarlo lo ha fatto essere. In ogni istante esistiamo soltanto perché Dio acconsente a pensare alla nostra esistenza […] Dio solo, presente in noi, può realmente pensare la qualità umana negli sventurati, rivolgere loro uno sguardo davvero diverso a quello che si accorda agli oggetti, porgere veramente ascolto alla loro voce come a una parola».

La carità verso il prossimo è «attenzione creatrice», è «analoga al genio».

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Simone aveva adesione intima e devota al messaggio cristiano, ma non entrò mai formalmente a far parte della chiesa cattolica: ne esecrava la rigidità del dogma, l’inautenticità del linguaggio collettivo, la mortificazione sistematica dell’intelligenza; in quell’anathema sit che, da filosofa, non poteva accettare: «Io rimango accanto a tutte quelle cose che, a causa di quelle due piccole parole, non possono entrare nella Chiesa […] e a maggior ragione rimango al loro fianco in quanto la mia intelligenza è in quel novero». Le suggestioni spirituali di Simone furono vaste e universali, tratte dai testi sacri di ogni credo, di ogni libro sapienziale: «Il cristianesimo è, a mio avviso, cattolico di diritto e non di fatto. Tante cose ne restano al di fuori, tante cose da me amate che non voglio abbandonare, tante cose amate da Dio» scrive a padre Perrin, rivendicando la matrice di universalità che pulsa nell’etimo (katholikós: katà òlos). Ma Weil porta nel cuore un annuncio cristico preciso, nitido, che esula dalla dottrina: «È meglio non comandare ovunque se ne abbia il potere […] la fede autentica […] riporta il bene al di fuori del mondo, là dov’è la sorgente di ogni potenza; e ravvisa nel bene il modello di quel punto segreto che si trova al centro della persona umana e che è principio di rinuncia».

È così che Weil ravvisa la «virtù cristiana» nella confessione negativa del Libro dei morti: «Non ho fatto piangere nessuno. Non ho mai reso altera la mia voce. Non ho mai causato paura ad alcuno. Non sono mai stato sordo a parole giuste e vere (Libro dei morti, cap. CXXV, J.H. Breasted, The Dawn of Conscience, Scribner’s Sons, New York, 1935); ma anche nelle Upanishad: «Due compagni alati, due uccelli stanno sul ramo di un albero. Uno mangia i frutti, l’altro li guarda (Mundaka Upanishad, III, 1,1; Katha Upanishad, III, 1). «I due uccelli» aggiunge Simone «sono le due parti della nostra anima».

L’uomo che sa mettere da parte ogni atteggiamento predatorio, di potenza inflitta, di bramosia, sa fermarsi, raccogliere da terra chi teme e trema, attenuarsi nel bene; nello spendersi in attenzione conferisce esistenza al suo simile, col solo sguardo, e a un tempo nutre la parte sublime di sé; nega dimora alla cieca forza, e accoglie, feconda e lievissima, la grazia. È allora che si strappa quel nero sipario che ci presume tutti disuniti e allarmati, diversamente dolenti, sempre pronti alla guerra.

Isabella Bignozzi

Testi consultati:

Simone Weil, Attesa di Dio, a cura di Maria Concetta Sala, Adelphi 2008
Simone Weil, Lettera a un religioso, a cura di G. Gaeta, Adelphi, 1996
Simone Weil, L’Iliade poema della forza, in La Grecia e le intuizioni precristiane, traduzione di Margherita Pieracci Harwell e Cristina Campo, Borla editore, 1967

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