28 Dicembre 2020

“Dov’è il bene? Qual è la sua origine? Che cos’è?”. Simone Pétrement, l’amica di Simone Weil

“Contro una tale concezione… bisogna affermare che la verità non è affatto una moneta coniata che, così com’è, sia pronta per essere spesa e incassata”. G.W.F. Hegel, Fenomenologia dello spirito

“…navigando lungo il fiume quieto e rassicurante del buon senso, questo tipo di filosofare naturale produce al massimo una retorica infiorettata di verità banali. Se gli si fa notare che queste verità sono insignificanti, esso allora asserisce che il loro vero senso e il loro ricco contenuto sono dati nel suo cuore, e che dovrebbero essere dati anche negli altri. In tal modo, parlando a suo avviso con l’innocenza del cuore e con la purezza della coscienza, ecc., esso ritiene di aver detto l’ultima parola cui non si può obiettare più nulla e oltre la quale non rimanga più nulla da cercare. Tuttavia, la questione era proprio quella di non lasciare giacere le cose più importanti nel fondo del cuore, ma piuttosto di trarle da questo pozzo alla luce del giorno. Peraltro, non valeva certo la pena di perdere tempo e fatica per produrre verità ultime di questo tipo: da secoli, infatti, esse si trovano nel catechismo, nei proverbi popolari, ecc.” Id.

Il nome di Simone Pétrement risuonerà familiare ai molti studiosi di un’altra Simone, la Weil, sua intima amica, della quale pubblicò nel 1997 in Francia la prima biografia, uscita poi con qualche taglio e in anticipo di tre anni, nel 1994, con Adelphi. Eppure anche se Pétrement non fosse l’autrice di quel libro, acquisirebbe ancora maggior merito con un altro. È del 1946 infatti un breve ma denso saggio tutto dedicato al Dualismo nella storia della filosofia e delle religioni, che oggi per la prima volta viene tradotto nella nostra lingua da Roberto Peverelli per l’editore Medusa, entrambi per questo destinatari di un non retorico plauso.

Esiste un fiume carsico che attraversa la storia teoretica del mondo e che si riassume tutto in quella paroletta, «dualismo», orrida agli orecchi delle religioni e delle filosofie ufficiali. Dualisti sono per lo più infatti considerati quei sistemi altamente e invariabilmente eretici, e perciò liquidati in varie guise nel corso dei secoli, quali ad esempio manicheismo e catarismo o, in dominio filosofico, il pensiero di Emilia Nobile o di Piero Martinetti, che rigettano il monoteismo ebraico-cristiano-islamico e parlano a vario grado di un male principiale, di tenebre sostanziali. Il libro però non è una delle frequenti lungagnate filosofiche o un barboso centone storiografico. Tutt’altro. È un testo originale, lesto e mai banale, anche se, come vedremo, per nulla condivisibile nei suoi risultati.

Esso ha un duplice centro, per certi versi sconcertante. Nel primo troviamo una dichiarazione bruciante: secondo Pétrement il dualismo, anziché eccezione come per il solito lo si intende, è invece una costante nella storia delle religioni e della filosofia, e anche i pensieri che in apparenza non avrebbero nulla a che fare col dualismo, a un’analisi più accurata si rivelano improntati a questa visione del cosmo. Il dualismo, in breve, sarebbe all’origine di ogni pensiero. E le dimostrazioni, dimostrerebbe Pétrement, non mancano.

L’autrice spinge però la sua tesi ancor più oltre, affermando che l’opposto storico-teoretico del dualismo, il monismo, non esiste in forma assoluta: «Non esistono un dualismo o un monismo perfetto, ma solo dei gradi di dualismo e monismo; e non è possibile affermare che una dottrina sia dualista e un’altra monista, ma solo che una certa dottrina è più o meno dualista di un’altra». E conclude: «Lo studio del dualismo non è, insomma, che lo studio dei differenti gradi di dualismo che si incontrano nelle religioni e nelle teologie».

Identica riflessione vale per la filosofia, solo con un leggero scarto: «Un filosofo originale, e che reinventa, per così dire, la ricerca filosofica, è in larga misura dualista (…). Il dualismo al più alto grado si trova sempre all’origine; in seguito si indebolisce sempre di più. Esso accompagna la filosofia alla sua nascita e nella sua giovinezza; se ne ritira man mano che invecchia».

La seconda tesi mostra un dualismo mai univoco, e ciò a dispetto delle semplificazioni operate dalle varie storiografie. Ve ne sono infatti di due tipi: un dualismo fondato su «principi differenti ma non contrari» e un altro «dei contrari». In altri e più efficaci termini, la contrapposizione tra «bene» e «male» è, nella prospettiva della plurisecolare guerra ad esso e della ricerca, una forzatura, e di poi una degenerazione in seno alla stessa dottrina del dualismo «trascendentale», che la studiosa chiama senza mezzi termini «originale», nel senso di originario. E qui ci inoltriamo in una dimensione tanto avvincente quanto rischiosissima. Leggiamo Pétrement.

Il dualismo derivato «è il più prossimo a trasformarsi in monismo. Quando il dualismo è diventato la nozione chiara di due principi, della stessa natura benché contrapposti, attivi all’interno dello stesso mondo, l’opposizione è più che mai sul punto di essere superata». «Porre dei termini come contrari – scrive in relazione al dualismo che possiamo chiamare ingenuo – significa renderli inseparabili; porli come principi della stessa totalità significa renderli inseparabili; porli come principi della stessa totalità significa riunirli nella stessa totalità; porli sullo stesso piano significa a un tempo conciliarli». E prosegue: «Al contrario, il dualismo della trascendenza, quello che implica livelli differenti dell’essere, mondi differenti, sembra essere, a prima vista, il più imperfetto (in quanto mondi differenti, non avendo nulla in comune non sono comparabili e non possono essere confrontati); è anche il più sorprendente, se si vuole il più stravagante; ma è anche, in un certo senso, il più solido, il più capace di difendersi». La conclusione è questa: «Dualismo (leggi autentico, ndr) non significa teoria dei principi contrari, ma distinzione di due principi; così è la distinzione, la distanza tra i due termini ciò che conta, e non che sia dei contrari, non che siano il bene e il male. Ciò che conta è la frattura, l’assenza di legami, l’impossibilità e l’incomprensibilità di un passaggio; ed è questo, lo si vede bene, ciò che conta per i fondatori del dualismo originario; ciò che affermano con passione è che i due termini non possono provenire l’uno dall’altro, non che siano dei contrari. Forse, dunque, il dualismo autentico è quello che pone non due principi dello stesso mondo, ma due mondi».

Ma per capire meglio la natura del dualismo originario bisogna ricorrere a una torsione rispetto all’antico problema, «si Deus est, unde malum?», evocato da dossografi, padri ed eresiologi per denotare il punto di partenza e svolta del dualismo. Dice Pétrement: «Se prendiamo in considerazioni i pensatori ritenuti dualisti… vediamo che essi non hanno cominciato col dire “bisogna che esista un qualche principio del male”… Essi sono giunti solo piuttosto tardi a porre questa questione… In principio, essi sono partiti realmente dal male (e non dalla questione del male), sono partiti dal male che sentivano in sé stessi, e si sono domandati: dov’è il bene? Qual è la sua origine? Che cos’è? È il bene a costituire ai loro occhi il secondo principio, l’altro, la natura separata».

Un’osservazione di intelligenza estrema e radicalmente innovativa rispetto alle consuete ricerche, la quale però costituisce anche lo scorno del libro. Pétrement infatti non definisce la trascendenza. Similmente alla sua sodale Weil, Pétrement si limita a squadernare inopinatamente sotto il naso del lettore il frusto concetto di verità per spiegare questa trascendenza. Ed ecco la conseguenza che dalla sua riflessione generale trae l’autrice: «la credenza nella separatezza (dal mondo, ndr) della verità», verità che «esiste in sé stessa, indipendentemente da noi, e che noi raggiungiamo solo attraverso una straordinaria trasformazione, una frattura, non attraverso uno sviluppo necessario e continuo». Il dualismo autentico è «coscienza della necessità di oltrepassare una soglia per vivere nella verità, una soglia mortale». Tutto qui.

Il pensiero di Pétrement è – bensì evidentemente, ma ciò non deve inibirci una doverosa sottolineatura – antidialettico, come peraltro si evince da alcuni accenni polemici a Hegel. La pretesa della studiosa, che qui si fa filosofa, è scindere l’esistente in due e ipostatizzare un mondo superiore, benigno, appunto veritiero contra il secolo e i suoi portati necessariamente malvagi. È una riproposizione nel pieno svolto cruciale del XX secolo della metafisica che a fatica si stava sgretolando; e ciò con buona pace della stessa autrice che nega metafisica, definita «sonno», a questa visione.

Se pure una simile prospettiva possa risultare affascinante e financo consolante, la vaghezza dei concetti di trascendenza e di verità mina alla base qualsiasi sua ipotetica realizzazione, gettando in catene qualsiasi prassi rivoluzionaria; e si dimostra incapace di rispondere ai quesiti della vita, se non con dei sogni.

Qualcuno si chiederà perché insinuare questa obbiezione dallo schietto sapore politico. La risposta è pronta: millenni di storia umana dovrebbero aver insegnato che quel bene, quella “verità”, per usare il vocabolario caro ai mistici, non si conquistano nella pace e nella contemplazione, ma solo nella lotta terrena. E che l’aspettativa del regno di Dio è una sorta di placebo e di implicita ammissione di sconfitta. Inoltre ha tutta l’aria dell’egoismo. Come si può infatti presupporre un bene assoluto, così fantasmatico poi, senza combattere per esso se non per la propria personale, e a tratti autolesionistica, soddisfazione?

Questa forma di pensiero non è rivolte alla comunità, né alla sua, né alla comunità umana – la specie – ma solo a chi la produce. Il che, da un certo punto di vista, può essere un buono stratagemma per stornare l’attenzione dall’offesa che reca il mondo, ma non gli si può negare un estremo egoismo, direi anche patologico. Nessun uomo nasce da solo (in alcun senso), l’uomo è un essere comunitario direi quasi per definizione. Voler sfuggire a questa presa di coscienza, a questa responsabilità, è un atto a dir poco criminoso.

Riecheggiano, in Pétrement, la vita e il pensiero dell’amica Simone, la quale vedendo la disfatta del movimento rivoluzionario internazionale, che d’altra parte poco ella aveva compreso, pensò di rifugiarsi nelle grandi parole che costellano il linguaggio degli schiavi e degli sconfitti, abbandonando ogni istanza sociale, e anzi liquidando il sociale come aberrazione, sino a lasciarsi morire di fame in nome del dolore.

Fortunate, forse, le persone così disincarnate. Ma più fortunati gli altri vedendone ridurre il numero, magari per inedia.

Luca Bistolfi

*In copertina: Peter Paul Rubens, “La caduta degli angeli ribelli”, 1620, part.

Gruppo MAGOG