10 Agosto 2023

“L’Università è morta (e non possiamo vivere un giorno senza poesia)”. Una lezione di Simon Leys

Se il nome di Simon Leys non suona familiare che, forse, a un numero ristretto di lettori e appassionati, quello di nascita del sinologo e intellettuale belga-australiano, Pierre Ryckmans (1935-2014), è conosciuto probabilmente soltanto da addetti ai lavori e specialisti. Eppure è con questo nome che, nel 1996, partecipando ad uno dei maggiori eventi culturali dell’Australia, l’autore degli Essais sur la Chine (Robert Laffont 1998) firmò tra le sue opere più memorabili e attuali: le Boyer lectures, intitolate “La vista dal ponte: Aspetti della cultura” (“The View from the Bridge: Aspects of Culture”).

Le Boyer lectures furono create nel 1956, in onore di un antico presidente dell’Australian Broadcasting Corporation (ABC), la radiotelevisione pubblica dell’Australia, e si svolgono da allora ogni anno quando – spiega Philippe Paquet nella biografia Simon Leys. Navigateur entre les mondes (Gallimard 2016) – il suo “consiglio di amministrazione seleziona un ospite tra le personalità più eminenti del paese, che ha tutta la libertà di scegliere il tema delle sue presentazioni e di trattarlo in sei trasmissioni di cinquanta minuti. Nel 1996, furono trasmesse il martedì mattina e riproposte la sera, nel corso dei mesi di novembre e dicembre, su Radio National, una delle reti di ABC.” Divenute “sinonimo di eccellenza, il programma conferisce un onore distintivo a chi lo ospita.”

Quella radiofonica fu un’esperienza nuova, “interessante e piacevole”, per Pierre Ryckmans, che all’epoca si era da poco ritirato dall’accademia, in anticipo (di sei anni) rispetto all’età di pensionamento: “Mi ha insegnato qualcosa: rivolgersi a un pubblico invisibile è molto diverso dal tenere una conferenza con delle persone che si possono vedere. Paradossalmente, è una forma d’espressione molto più personale e intima. Ne ho un buon ricordo”.

Rivolgendosi ad un ampio pubblico, Leys trattò in modo inedito alcuni temi di interesse generale – l’educazione e la sua presente crisi, la lettura e la questione della critica letteraria, la creazione artistica, il viaggio e la vita contemplativa. Lo spunto iniziale lo riassumeva già nel 1977 durante un’intervista:

“Se l’unico scopo dell’umanità fosse meramente quello di sopravvivere e stare in vita, saremmo probabilmente molto meno qualificati ad occupare un posto su questo pianeta di quanto non lo siano i ratti o gli insetti. Solo la cultura – nel senso più profondo della parola – può in definitiva giustificare l’attività dell’uomo”.

(Invidiava, a proposito, “questa superiorità naturale del pittore sullo scrittore” e la sua “paura di ripetersi”: come scriveva nella prefazione di una raccolta di saggi, non era per negligenza che ritornava sulle stesse idee, è che, come con le bottiglie e i barattoli nei quadri di Morandi, “semplicemente, ad alcune teniamo in modo particolare.”)

Pubblicate nel 1997 per ABC Books e inedite in Italia, le quattro parti che compongono La vista da ponte – “Introduzione” e “Imparare, “Leggere”, “Scrivere”, “Viaggiare e stare a casa” –sono consultabili nella versione originale inglese sul sito della rivista accademica China Heritage Quarterly (non più attiva da alcuni anni), dell’Australian National University. Più sotto si riportano alcuni stralci dell’introduzione e della prima delle quattro lectures (“Imparare”), preceduti da tre brevi passaggi memorabili dalla seconda (“Leggere”); per le registrazioni delle letture stesse di Leys, si rimanda al sito della ABC.

“Suggerirei infatti che sottoscrivessimo a questa conclusione [che i libri sono essenzialmente inutili], purché rimaniamo consapevoli del fatto che l’inutilità è anche il marchio distintivo di ciò che veramente non ha prezzo”.

“Che un uomo sia in grado di sopravvivere per un bel po’ senza cibo, ma non possa vivere un giorno senza poesia, è una nozione che tendiamo ad escludere con troppa leggerezza, come fosse una sorta di romantica iperbole ottocentesca. Ma il nostro terribile secolo ha fornito prove a sufficienza: tale nozione è vera, nel suo senso più letterale”.

“La gestione di tutte le cose spirituali, è sempre piena di terribili pericoli: se desideri usarle per i tuoi scopi personali, ti si ritorceranno contro con una vendetta. […] [Parafrasando Thomas Merton:] ‘La letteratura non è capita. Coloro i quali vorrebbero diventare colti al fine di ammirare se stessi in questo atto sono resi stupidi dagli studi letterari. È necessario invece perdersi completamente nella letteratura; è necessario un silenzio perfetto. C’è qualcosa di rivoltante nelle teorie letterarie”.

***

La vista dal ponte: aspetti della cultura

Introduzione

L’altro giorno sono andato a fare visita ad un amico, un filosofo. Lo trovai nel suo giardino, mentre potava le rose. Non potei resistere dal fargli notare che quella pareva essere un’occupazione assai appropriata per un filosofo, ma la mia osservazione lo fece sorridere. Mi ricordò prontamente che, a dire il vero, non pochi famosi filosofi hanno manifestato una forte allergia nei confronti di passatempi così volgari. Nella nostra stessa epoca, per esempio, pensate a Jean-Paul Sartre: il protagonista del suo più noto romanzo, Nausea, ha un’improvvisa intuizione della fondamentale assurdità dell’esistenza proprio mentre attraversa un giardino pubblico; la vista delle radici di un albero grottescamente attorcigliate nella terra, gli scatena questa spaventosa sensazione nella mente, portandolo letteralmente a vomitare – da cui appunto il titolo del libro. (Allo stesso modo, viene da chiedersi se non fosse meglio che i filosofi esistenzialisti si muniscano di pastiglie per il mal di mare, prima di intraprendere qualsiasi attività di giardinaggio).

Credo tuttavia che la mia ingenua affermazione abbia, in un certo qual modo, colpito una verità più profonda. Non voleva essere un facile riferimento al ben noto precetto di Voltaire (come ricorderete, alla fine del suo racconto filosofico Candido, dopo infinite e terribili tribolazioni, il protagonista, avendo fatto esperienza con i suoi compagni di tutte le prove, i disastri, le miserie e le pene che solitamente caratterizzano le disavventure di un uomo, trova infine riparo e pace, scoprendo il segreto ultimo della saggezza – quello di coltivare il proprio giardino). No, ciò che avevo in mente, è qualcosa di ancora più elementare. Era semplicemente la intuitiva ed universale constatazione che l’indagine del filosofo è tanto antica ed essenziale all’impresa dell’uomo, quanto lo è la primitiva occupazione del contadino. Il magnifico assunto sullo sviluppo spirituale, che John Henry Newman arrivò ad usare quasi come un proverbio – “La crescita è l’unica prova della vita” –, potrebbe ugualmente essere stato ideato da un vecchio contadino. Sin dall’alba della civiltà – di fatto, sin dai tempi del neolitico, quando l’uomo preistorico iniziò a stabilirsi in un luogo, cucire, seminare ed accumulare il raccolto – la cultura ci ha sostenuti e definiti, e non è per caso che usiamo la stessa parola quando parliamo di coltivare i propri giardini, e coltivare le proprie menti.

Infatti, Una cava preistorica che presenta evidenze materiali di un’antica occupazione, potrà essere stata abitata da pitecantropi o da simili creature scimmiesche, sia pure infinitamente remote da noi. Ma una singola immagine dipinta o incisa sulle sue mura, per quanto abbozzata, rudimentale, sfocata e scolorita, ci racconta all’istante una storia diversa: tanto tempo fa, l’Uomo è stato qui – un nostro antenato, un nostro fratello. La sua presenza è immediata, inconfondibile e travolgente quanto quella di Michelangelo nella Cappella Sistina. 

La cultura è il mezzo attraverso il quale realizziamo la pienezza della nostra umanità. In quanto uomini, siamo tutti produttori e consumatori di cultura; tutti facciamo, in diverse forme, esperienza della cultura. […]

Il titolo generale di questa serie è La vista dal ponte. Che cosa si intenda con questa frase (che definisce la generale prospettiva del libro) diventerà (spero) più chiaro a breve.

*

Imparare  

Nelle Confessioni di Jean-Jacques Rousseau c’è un passaggio che ho sempre trovato singolarmente toccante. (A dire il vero, c’è un gran numero di passaggi nelle Confessioni che sono singolarmente toccanti. Qualsiasi siano le vostre opinioni e sensazioni riguardo Rousseau – alcuni ne hanno fatto un idolo, altri invece detestano i suoi continui flussi di lacrime e la sua ingombrante auto-commiserazione – una cosa è certa: tra tutti i grandi scrittori del diciottesimo secolo, Rousseau ci colpisce in special modo per la sua modernità: egli possiede lo strano potere di toccarci come se fosse un nostro contemporaneo. Ciò di così toccante, e ad un tempo così fastidioso, in quel che dice, è che di fatto riesce ad esprimere alcune tra le nostre più comuni esperienze, i nostri più intimi pensieri e sensazioni). Comunque, nel passaggio che avevo in mente, Rousseau narra di come una volta fu convocato a presenziare di fronte al Consiglio della Chiesa locale, il quale lo sospettava di eresia. Siccome il Consiglio era composto da gente di campagna, Rousseau, il quale era già famoso in tutta Europa per la sua ispirata ed ardente eloquenza, aveva tutte le buone ragioni per sentirsi completamente fiducioso riguardo l’esito del confronto. Le cose, tuttavia, con suo stesso stupore e costernazione, non andarono come si aspettava: una volta di fronte ai suoi incolti giudici, si ritrovò di fatto privo di parole. Non essendo in grado di improvvisare una qualsiasi risposta sensata alle loro bigotte accuse, egli dovette infine abbandonare il tribunale, umiliato, confuso e abbattuto. Più tardi, camminando in solitudine per la lunga via verso casa, rifletté sulla sua disastrosa performance, riavvolgendo nella sua mente gli eventi della giornata. Ora, tutto d’un tratto, l’ispirazione che gli era venuta meno poco prima, era tornata con vendicativa crudeltà. Un flusso di idee brillanti si sollevò nella sua mente – pensò a tutti gli inconfutabili argomenti e le argute obiezioni con le quali avrebbe potuto confondere così facilmente i suoi oppositori. Ma l’opportunità ormai era persa per sempre… Pianse di frustrazione, e si batté la testa con i pugni.

Avete mai avuto una esperienza simile? Sospetto che molte persone, nel leggere questo episodio, abbiano pensato fra sé e sé: “Ma sì! Come conosco bene questa sensazione!” La vita ci pone di fronte a molte sfide, e quando non riusciamo ad esserne all’altezza esse ci lasciano con brucianti memorie di vergogna e sconfitta, assieme all’intenso desiderio di poter riguadagnare all’istante l’impossibile opportunità di partecipare di nuovo a quel test, nel quale abbiamo dato una così disgraziata prova di noi stessi. Ma forse, pur nella nostra sventura, potremmo ancora derivare una sorta di melanconica consolazione dal pensiero che, almeno sotto questo aspetto, abbiamo qualcosa in comune con un genio…

Nel mio caso, ricordo ancora con precisione un incidente nel quale incorsi qualche anno fa. Potrebbe sembrarvi piccolo e banale — ed io stesso sono ancora impressionato dalla sproporzione tra ciò che fu in realtà la natura insignificante dell’episodio, e il segno che esso lasciò nella mia memoria. È forse solo ora che (in un certo qual modo) sto mettendo nuovamente in scena questa antica prova, alla quale fallii così miseramente, che sono in grado di misurare il suo reale valore e iniziare a comprenderne il significato originale. Fu durante una conferenza accademica, organizzata in una delle nostre migliori università. Uno dei relatori era stato invitato dall’estero per fare un intervento durante la conferenza. Era un anziano e più che distinto accademico, già in pensione, venuto in Australia apposta per l’occasione. Da vecchio gentiluomo alquanto delicato e colto quale era, parlò con erudizione e trasporto di un tema di cui si era occupato per tutta la vita: la pittura dei letterati cinese. Quando il vecchio professore terminò il suo intervento, un giovane accademico del posto si alzò in piedi, e invece di indirizzare delle domande all’oratore, si lanciò lui stesso in una lunga ed appassionata denuncia del discorso che era stato appena pronunciato. Il suo principale argomento era che dare un valore ed una importanza così esclusivi a quell’arte che gli oppressori feudali della Cina ritenevano essere superiore, non faceva che riflettere il ristretto elitismo borghese dell’oratore – mentre la vera arte della Cina, che è stata prodotta dalle vaste masse lavoratrici, è stata sempre sistematicamente ignorata o scartata dai mandarini letterati, ecc.

La violenza dell’attacco prese il vecchio gentiluomo di sorpresa, che rimase tuttavia in silenzio, impassibile. Il conduttore di quella particolare sessione, uomo piuttosto timido ed ininfluente, era visibilmente scosso, e pareva non essere minimamente in grado di riprendere in mano il controllo della situazione. Si potevano percepire un imbarazzo ed un disagio diffuso tra il pubblico; ma la consueta reazione di persone rispettabili di fronte ad una completa indecenza, purtroppo, è di fare scrupolosamente finta che niente sia accaduto. Una sezione di più giovani tra gli spettatori, tuttavia, ovviamente aveva cominciato ad attendere i fuochi d’artificio del loro eroe locale; il suo spettacolo era rivolto a quest’ultimi, ed essi esultavano a gran voce. (Mi fece subito venire in mente una simile scena in un romanzo di Saul Bellow; l’immagine di Bellow è rimasta scolpita nella mia mente: mi pare di ricordare che, nella sua storia, una banda di giovani è paragonata ad una certa specie di grossi babbuini: tutte le volte che un intruso prova ad avventurarsi nella loro foresta, i babbuini si defecano senza sosta uno nelle mani dell’altro ed iniziano a bombardare lo sfortunato visitatore con i loro stessi escrementi.)
Il giovane accademico parlò quasi tanto quanto l’originale conferenziere, interrotto solo dagli applausi dei suoi sostenitori. Quando infine concluse il suo lungo discorso, non c’era più tempo per la discussione, e l’intera sessione fu portata precipitosamente ad una fine.

Per tutta la sua energica aggressività, il discorso improvvisato dal portavoce per i suoi babbuini, fu di per sé piuttosto banale. Il suo merito non fu altro che di rispolverare alcuni slogan che, a loro tempo, la Rivoluzione Culturale cinese aveva reso alla moda tra i fini accademici delle nostre università. La sua effettiva argomentazione era banale, e sarebbe stato alquanto facile smentirla: dopo tutto, affermare che un artista (o uno storico dell’arte, per quel che importa) è un borghese (o un proletario, o un aristocratico) è esattamente pertinente ed informativo quanto (né più, né meno) osservare che ha i capelli rossi o i piedi piatti. No, l’aspetto davvero sconvolgente del suo intervento non risiedeva in ciò che disse, ma nella reazione degli ascoltatori – o piuttosto, nella mancata reazione degli ascoltatori. Tale assenza di una reazione, rifletteva a sua volta qualcosa di inquietante riguardo lo stato della nostra università, e riguardo noi stessi in quanto accademici. Improvvisamente divenne evidente ai miei occhi che la maggior parte fra di noi erano morti, e lo eravamo già da non pochi anni – e il fetore era tale da togliere il fiato.

L’audience era in gran parte composta da studiosi i quali, essendo educati e cortesi, deploravano naturalmente le povere maniere esibite dal loro giovane collega; ma per quel che riguarda il contenuto del suo intervento, per quanto questo avesse potuto far suscitare le riserve di alcuni tra loro, tutti evidentemente credevano che, in un cosiddetto dibattito intellettuale, a ciascuna opinione dovesse essere garantita un’equa attenzione. Sembrava che nessuno tra i presenti – e questo era ciò che mi spaventava – avesse percepito che ciò che avevano appena sentito non era una opinione tra tante, ma una dichiarazione che, se validamente pronunciata, avrebbe certificato appieno la compiuta disfatta dell’università.

Infatti, ciò che fu proclamato dal giovane accademico (senza provocare alcuna resistenza) era l’impossibilità e l’illegittimità intellettuale di qualsiasi tipo di giudizio di valore. Dal suo punto di vista, i giudizi di valore erano per necessità una forma di arroganza culturale; qualsiasi tentativo di assegnare delle qualità oggettive sarebbe stato condannato a rimanere la vana e soggettiva espressione di un pregiudizio sociale.

Ma una simile prospettiva, al contrario, non potrebbe che trasformare qualsiasi ambizione accademica in una vana commedia, ed a questo proposito non riesco a non pensare ad una vecchia vignetta di Micheal Leunig, la quale ritraeva un ecclesiastico moderno ed alla moda. La didascalia diceva: “Il Reverendo Tal dei Tali non crede in Dio, ma ha bisogno del lavoro.” Poiché, chiaramente, negare l’esistenza di valori oggettivi equivale a privare l’università del suo mezzo di operazione spirituale. I valori sono il prerequisito per qualsiasi indagine nell’arte, nelle lettere e nelle materie umanistiche. Per esempio, come si può studiare la letteratura, senza passare per il giudizio letterario e senza fare riferimento alla qualità letteraria? Senza fare ricorso alla valutazione estetica, che cosa permetterebbe di affermare che Jane Austen appartiene veramente alla disciplina in questione – ma non Barbara Cartland?  È una discriminazione di questo genere, davvero solo una mera espressione di soggettività e di arroganza culturale? Se, nel nome di una fasulla obiettività scientifica, ogni singola parola stampata su carta dovesse avere un eguale diritto di sollecitare l’attenzione dello studioso di letteratura, su quale base egli dunque escluderebbe dal suo scrutinio i manuali per i tagliaerba e i fumetti di Superman? La verità è che, oggigiorno, lo studioso non li esclude. In questi campi, la più grottesca immaginazione è sopraffatta dalla cruda realtà, e non mi dovrei sorprendere se venissi a sapere che, in questo stesso istante, nei Dipartimenti di Letteratura Inglese delle nostre università d’avanguardia (doverosamente rinominate in Dipartimenti di Comunicazione Umana e Decostruzione Socioculturale), ci siano dei seri dottorandi che si danno operosamente da fare per “decostruire” l’elenco telefonico.

Una vera università è (e sempre sarà) ancorata nei valori. Privata di questo saldo terreno, essa non può che perdersi dietro al capriccio di ogni vento ed ogni corrente della moda, per, infine, essere condannata ad arenarsi nelle basse acque della farsa e dell’incoerenza.

Hannah Arendt, in una lettera privata (pubblicata postuma), riportò una sua sorprendente intuizione sul rapporto tra verità e pensiero, che potrebbe fare da illuminante paradigma per la dipendenza di qualsiasi ricerca accademica rispetto ad una pre-esistente nozione di valori. La Arendt scrisse:

“L’errore principale è credere che la Verità sia un risultato che arriva alla fine di un processo di pensiero. La verità, al contrario, è sempre l’inizio del pensiero… Il pensiero inizia dopo che un’esperienza della Verità ci ha colpito, per così dire. La differenza tra i filosofi e le altre persone è che i primi si rifiutano di lasciarla andare, ma non che essi siano gli unici detentori della Verità… La Verità, in altre parole, non è nel pensiero, ma… è la condizione per la possibilità di pensare. Ne è sia l’inizio che l’a priori.” [1]

Che la verità non sia una conclusione, bensì una premessa – e la reale condizione per qualsiasi indagine intellettuale – è un’idea importante e profonda, ma non tanto nuova quanto credeva la Arendt. Duemila trecento anni fa, Zhuang Zi, il filosofo cinese (uno tra più grandi pensatori nella storia universale delle idee, ed un meraviglioso scrittore) espresse una simile idea in una delle sue ricche ed enigmatiche parabole, che (in italiano) potrebbe essere parafrasata come segue: Zhuang Zi ed il suo amico Hui Zi il logico passeggiavano sul ponte del fiume Hao. Era una splendida giornata, e si fermarono un momento ad osservare i piccoli pesci sotto di loro. Zhuang Zi disse, “Come nuotano liberi e tranquilli – è questa la loro felicità!” Ma Hui Zi obiettò prontamente, “Tu non sei un pesce; come sai che i pesci sono felici?” “Tu non sei me,” rispose Zhuang Zi, “come puoi tu sapere che io non so che i pesci sono felici?” Hui Zi disse, “Ammettiamo che io non sono te, e che quindi non possa sapere ciò che tu sai. Ma devi ammettere che tu non sei un pesce, e non puoi sapere dunque se i pesci siano felici o meno”. Zhuang Zi rispose, “Ritorniamo alla domanda originale. Quando mi hai chiesto ‘Come sai che i pesci sono felici?’ la tua stessa domanda dimostrava che tu sapevi che io lo sapevo. Ma, se insisti nel chiedermi come io lo sappia, te lo dirò: lo so da questo ponte”. [2]

Fare un’esegesi da un minuto di un tale passo, equivarrebbe a rovinarlo – sarebbe tanto brutale quanto staccare le ali ad una farfalla. Tuttavia, desidererei solo sottolineare un punto. L’approccio di Hui Zi rappresenta la fallacia di un certo tipo di intelligenza. Attraverso la sua logica astratta, Hui Zi cerca di erodere la viva presa sulla realtà di Zhuang Zi. Ma Zhuang Zi, a sua volta, elabora in due movimenti e su due diversi livelli una risposta alla quale non è possibile fare ulteriori repliche. In una prima mossa, Zhuang Zi mostra a Hui Zi che può batterlo al suo stesso gioco, contrastando logica con logica.

Infatti, ad un livello strettamente formale, una domanda del tipo “Come lo sai” non mette in discussione la nostra conoscenza – la dà per scontata, e non mette in dubbio che il mero punto di partenza della nostra deduzione. Ma Zhuang Zi non si ferma qui; vincere una sterile gara d’intelletto non è soddisfacente. Nella sua mossa finale, con un gioco di parole, Zhuang Zi si libera dalle catene dei vuoti giochi d’intelletto, ed entra nel reame della realtà – che è, in fondo, la sola cosa che conta. Zhuang Zi prende in prestito la parola originariamente utilizzata da Hui Zi, come, e ne trasforma il significato: là dove Hui Zi la usava nel senso astratto della deduzione logica, Zhuang Zi ora la prende nel suo senso letterale – “da quale punto nello spazio” – e vi risponde alla lettera. Ma la risposta letterale, si rivela essere anche la più profonda – addirittura più profonda della verità, poiché qualsiasi verità può solo essere riguardo la realtà, mentre qui arriviamo a ciò in cui la verità consiste davvero: la realtà stessa, che è irrefutabile: lo so da questo ponte. A questo punto, viene in mente la efficace risposta di Samuel Johnson ad un interlocutore che aveva invocato l’idealismo di Berkley, mettendo in dubbio la realtà della realtà: senza proferire parola, Johnson diede un vigoroso calcio ad un sasso di buone dimensioni, che giaceva nelle vicinanze. Sapere, guardando dal ponte, che i pesci sono felici, è in definitiva un atto di fede. Il detto “vedere è credere”, va rovesciato: credere è vedere.

Colui il quale non crede in nulla, non vede nulla. La trappola del “vedere attraverso” le cose è stata esposta nel miglior modo possibile da C.S. Lewis, nella conclusione del suo memorabile saggio in difesa dei valori, L’abolizione dell’uomo:

“Il buono del vedere attraverso qualcosa sta nel vederci qualcosa attraverso. È bene che la finestra sia trasparente, dal momento che la strada o il giardino che stanno di là sono opachi. Ma che succederebbe se vedessimo anche attraverso il giardino? È inutile cercare di ‘vedere attraverso’ i principi primi. Se si vede attraverso ogni cosa, allora ogni cosa è trasparente. Ma un mondo completamente trasparente è un mondo invisibile. ‘Vedere attraverso’ ogni cosa è lo stesso che non vedere.” [3]

[…]

Comunque sia, la situazione ha ormai raggiunto un punto che probabilmente è irreparabile. Grandissime ed antiche istituzioni impiegano un tempo assai lungo a morire; nelle vicende umane, il processo di decadimento, trasformazione e rigenerazione è spesso lento, incostante e cieco. Il vero problema non è tanto che l’Università, così come la civiltà Occidentale la conosceva, è oggi pressoché morta, ma che la sua morte a stento sia stata recepita dalla coscienza del pubblico, come pure da quella della maggioranza degli accademici stessi. In linea di principio, non mi importa l’idea di una riforma dell’Istruzione Superiore, per quanto drastica possa essere; ciò che mi importa è il disordine e la confusione intellettuale. Continuiamo ostinatamente a chiamare “università” quelle istituzioni che sempre meno corrispondono a ciò a cui questo nome normalmente si riferisce. Con loro curiosa inconsapevolezza, i nostri ministri dell’istruzione, vice-rettori e altri accademici di alto livello assomigliamo stranamente ai primi capi della Riforma Protestante, così come sono descritti in un’opera scientifica sulla storia della Chiesa:

“Melanchton e Calvino hanno sostenuto di essere “cattolici” fino alla fine delle loro vite – mentre intanto attaccavano i sostenitori del vecchio credo come “papisti”.  I fedeli si aggrapparono a lungo alla Messa ed ai suoi santi, ma le regole ecclesiastiche introdotte dai magistrati luterani si impossessarono di molte abitudini cattoliche – fino alle processioni ed ai pellegrinaggi. Le masse dei semplici fedeli non capirono mai che la “Riforma” non era una riforma della Chiesa, bensì la costruzione di una nuova Chiesa fondata su una diversa base. A posteriori, si deve dunque affermare: lo scisma della Chiesa ebbe successo grazie a nient’altro che l’illusione che, di fatto, non era avvenuta alcuna Riforma”.

Quanto potrà durare l’illusione? L’Università assomiglia sempre di più agli arredi scenici di cartone che erano utilizzati sui palchi elisabettiani, o nell’opera di Pechino, e sui quali era scritto a grandi caratteri: “QUESTO È UN CASTELLO” o “QUESTA È UNA FORESTA” – equivale a poco più di una simbolica segnaletica: “QUESTA È UNA UNIVERSITA’”. Può una tale finzione mantenere la propria credibilità con il pubblico? Malcolm Muggeridge una volta osservò che la ragione principale per la quale molte persone in passato guardavano all’università con un certo senso di timore reverenziale e rispetto, era perché così pochi tra di essi potevano effettivamente accedervi. Ma una volta che tutti quanti avranno la possibilità di andare all’università, ne acquisiranno una diversa prospettiva. Questo sano risveglio sta avendo ultimamente un’accelerazione, e sarà completato nel giorno – non molto distante – in cui vedremo l’Università di Catering, di Formazione per la Guida di Automobili e di Produzione di Trapunte.

Comunque, è probabile che su questa materia sia meglio non agitarci troppo. Dopotutto, ogni giovane intelligente potrà sempre sopravvivere felicemente ad un mediocre o inetto insegnamento universitario, mentre nessuno può uscire illeso da una mediocre o inetta educazione primaria. Questa dovrebbe essere la questione di primaria importanza. Non posso pensare ad una notizia più inquietante della recente inchiesta della ABC Television, secondo la quale sembra che un quindicesimo dei bambini che stanno per finire la scuola primaria, sono analfabeti funzionali. Questa è la più spaventosa informazione per il futuro del paese – e in confronto, tutti i problemi dell’istruzione superiore svaniscono per l’insignificanza.

Simon Leys

(L’introduzione, la cura e la traduzione del testo sono di Alessandro Burrone)

Note:

[1] Carol Brightman (a cura di), Tra amiche. La corrispondenza di Hannah Arendt e Mary McCarthy. 1949-1975, Palermo: Sellerio editore, 1999.

[2] Zhuang-zi, Milano: Adelphi, 1982, p. 115.

[3] Clive S. Lewis, L’ abolizione dell’uomo, Jaca Book, 2016.  

Gruppo MAGOG