È vero, come ha scritto Luca Doninelli nell’entusiasmante racconto del rapporto con il suo maestro, Giovanni Testori, che i maestri veri sono quelli “in carne e ossa e cazzo” (“il maestro di Dante non fu Virgilio, da cui peraltro il poeta trasse le dimensioni fondamentali della propria arte, bensì ser Brunetto Latini”, in Luca Doninelli, Una gratitudine senza debiti: Giovanni Testori, un maestro, La Nave di Teseo, 2018); tuttavia, Simon Leys (1935 – 2014), straordinaria figura di sinologo nonché un gigante (nonostante si definisse – secondo un detto attribuito a Bernardo di Chartres – nient’altro che “un nano sulle spalle di giganti”) nel panorama intellettuale dello scorso secolo, ci può fare da maestro per lo meno nel senso che egli stesso dava a questa parola – come disse una volta ad un intervistatore:
“Essere un grande maestro significa avere la capacità di risvegliare le persone, stimolarle – questo merita la tua attenzione, vai e cercalo… Impari soltanto ciò che puoi insegnare a te stesso. Quando decidi di imparare qualcosa, e lo insegni a te stesso, allora lo puoi imparare. Ma hai bisogno di qualcuno che ti dica ciò su cui vale la pena lavorare. Nabokov [per esempio] era una grande maestro, non perché amasse i suoi studenti, ma perché amava la [sua] materia. E faceva in modo che i suoi studenti si rendessero conto che, quella materia, meritava di essere studiata e di essere amata, e allora vanno poi da sé a documentarsi… È l’unica cosa che un maestro può fare: come una sorta di usciere, ti mostra dov’è il tuo posto, e poi tocca a te guardare o meno lo spettacolo. Ma è lui che ti introduce.” (Da una conversazione con il Philip Adams, durante il suo programma Late Night Live: in essa, un rarità data la sua riservatezza, si può ascoltare Pierre Ryckmans nel vivace e trascinante dialogo con il conduttore radio australiano)
Proprio questo fu il suo normale mestiere per gran parte della sua vita di professore, all’Università di Canberra prima e poi di Sidney – sedi in cui, tuttavia, era conosciuto non sotto pseudonimo ma con il suo vero nome, Pierre Ryckmans –: introdurre schiere di studenti australiani (tra cui un futuro Primo Ministro, Kevin Rudd) alle meraviglie della letteratura e dell’arte cinese classica, che amava profondamente. Ad uno di questi, tempo fa ho avuto occasione di chiedere come Ryckmans insegnasse; la sua risposta è stata tanto semplice quanto rivelativa di questo solitario delle lettere cinesi: “Era straordinario, fluttuava dentro la classe, ci insegnava la poesia Tang e Song, e fluttuava fuori.” (In una delle ultime interviste, Leys diceva della poesia cinese: “La virtù e il potere della lingua letteraria cinese culminano nella poesia classica. La poesia classica cinese è per me la più pura, la più perfetta e completa forma di poesia che si possa immaginare. Meglio di qualsiasi altra poesia, rispecchia la definizione di Auden: “parole da ricordare” [memorable speech]: e infatti, essa si scolpisce senza alcuno sforzo nella memoria. Per di più, come la pittura, occupa splendidamente uno spazio visuale nella sua incarnazione calligrafica. Essa abita la mente di chi la coltiva, lo accompagna nella vita, lo sostiene e ne illumina le esperienze quotidiane.”)
La folgorazione per la Cina avvenne quando non ancora ventenne (era il 1955), Leys prese parte con una delegazione di studenti belgi a una visita di un mese della Repubblica Popolare Cinese (dove, tra l’altro, ebbe occasione di incontrare l’allora premier Zhou Enlai, l’uomo che per decenni – come scrisse più tardi in un articolo – “diede un volto umano (ed anche piuttosto attraente) al comunismo cinese”: “Fu certamente – scriveva – uno tra gli attori più grandi e di successo del nostro secolo. Aveva un vero talento nel mentire spudoratamente con angelico savoir faire. Era il tipo d’uomo in grado di infilzarti un coltello alle spalle e farlo con una tale disarmante grazia da farti sentire in dovere di ringraziarlo per il servizio”). Leys tornò da quel viaggio incantato, convinto che sarebbe stato “inconcepibile di vivere in questo mondo, nella nostra epoca, senza avere una buona conoscenza della lingua cinese e un accesso diretto alla cultura cinese.”
Già studente di diritto e storia dell’arte all’Université catholique de Louvain, il giovane Leys si mise ad imparare la lingua cinese e vinse una borsa di studio, che gli permise di studiare per un anno presso il dipartimento di Belle Arti della National University di Taiwan. Qui fu introdotto (fra gli altri anche da Pu Hsin-yu, cugino dell’ultimo imperatore cinese Pu Yi) alla pittura e all’arte della calligrafia cinesi (diventare un pittore fu sempre il suo vero sogno, che continuò a perseguire, seppur occasionalmente; divenne anche un eccellente calligrafo) e pose le basi per la sua futura tesi di dottorato, un meticoloso studio di uno dei principali trattati di estetica della Cina classica, il Trattato sulla pittura del monaco Zucca Amara (online è disponibile una versione in anteprima della traduzione e del commentario; il trattato è tradotto in Italia da Marcello Ghilardi).
Da allora, la sua carriera di sinologo è proseguita con numerose curatele e traduzioni (dove spiccano opere di pittori e scrittori eccentrici, come Su Renshan o Lu Xun, o la monumentale traduzione de I detti di Confucio, curata in Italia per Adelphi da Carlo Laurenti – della quale hascritto: “Non si dà ermeneutica migliore di una traduzione come questa”), nonché numerosi saggi di critica culturale e politica della società cinese contemporanea. Tra questi, raccolti in volume nel 1998 in Essais sur la Chine, figura la trilogia che lo rese famoso, primo di cui Les Habits neufs du président Mao del 1971 (la casa editrice Res Gestae, del gruppo Mimesis, ne ha appena ripubblicata una traduzione): una dissacrante e scrupolosa cronaca della Rivoluzione Culturale – che Leys seguiva in prima linea da Hong Kong, grazie anche alla gigantesca autorità di padre László Ladány, editore per una trentina d’anni dietro ad uno dei più seguiti osservatori della politica cinese, China News Analysis (su cui Leys scrisse un articolo dall’eloquente titolo: “L’arte di interpretare iscrizioni inesistenti scritte con inchiostro invisibile su una pagina bianca”) –, un resoconto che fece scalpore mettendosi in controcorrente rispetto al dilagante maoismo fra gli intellettuali francesi dell’epoca.
(A questo proposito, viene spesso citato il suo incontro con la politica e giornalista Maria Antonietta Macciocchi – di cui Della Cina, pubblicato pochi mesi prima di quello di Leys, venne definito il “libro cult dei maoisti europei” – nella trasmissione francese Apostrophes di Bernard Pivot; commentando l’opera della Macciocchi, Leys esordì, facendo tremare lo studio e senza perdere minimamente la sua compostezza, dicendo: “Penso che gli stupidi dicano cose stupide, come i meli producono mele: è nella loro natura, è normale. Il problema è che dei lettori li possano prendere sul serio… Ciò che si può dire di più caritatevole sulla sua opera sulla Cina, è che è di una stupidità totale, perché se non la si accusasse di essere stupida, si dovrebbe dire che è un imbroglio”).
E fu proprio ad Hong Kong, durante quel periodo tragico, che Leys ebbe la sua prima iniziazione alla politica – come era solito raccontare, nel vedere i cadaveri di fuggiaschi o provenienti dalle sbrigative esecuzioni all’apice delle agitazioni, portati dalla corrente alle spiagge del “porto profumato”. In esergo ad un saggio (che purtroppo non ho sotto mano), Leys ribadiva infatti che in politica “tutto ha inizio con l’indignazione”. E da questa, nacque il suo impegno nel dare luce alle diverse “ombre” (come nel titolo di una sua raccolta di saggi) della Cina comunista.
Davanti a simili avvenimenti della storia, non avrebbe potuto rimanere nella sua “torre d’avorio”, continuare, come avrebbe voluto, a vivere “apprezzando tranquillamente la cultura cinese”; nonostante ciò, Leys continuò a definirsi sostanzialmente un “analfabeta” in politica, e una volta così descrisse come intendeva il suo rapporto con essa:
“Il mio interesse, la mia disciplina è la letteratura e la pittura cinese. Quando mi è capitato di commentare la politica contemporanea cinese, non era che per esporre fatti evidenti a tutti e risaputi. Ma ai tempi, questo può aver effettivamente disturbato qualche stupido qui e là – cosa che, in fondo, non ha avuto molta importanza.” (Cfr. Daniel Sanderson, An interview with Simon Leys, Febbraio 2011)
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Come notò una volta Jacques Dewitte, Leys aveva ad un tempo qualcosa “del moralista francese, dell’intellettuale dell’Europa centrale e del letterato cinese.”
Leggiamo, per esempio, la presentazione del 95mo numero che la rivista francese L’Atelier du Roman, per celebrare i primi venticinque anni dalla sua nascita, ha dedicato interamente al sinologo belga: “Perché Leys? Perché il suo spirito critico, la sua onestà intellettuale, il suo cosmopolitismo, il suo humour e la sua difesa incondizionata del primato dell’arte rispetto a qualsiasi ideologia, rappresentano i valori sui quali è fondata la rivista […].”
Quest’ultima idea in particolare, rispecchia certamente il pensiero di uno dei principali fondatori della rivista, Milan Kundera, alcuni libri del quale vertono su questo stesso tema – o come altrove ha una volta dichiarato: “Questa autonomia dell’arte e della cultura è la sola difesa possibile contro l’imbestialimento ideologico che riduce tutta la vita a poche tesi e semplificazioni politiche, e che assassina anche tutto ciò che rende la vita vivibile: il gioco, l’avventura, il pensiero, l’immaginazione.” (Tra l’altro, i due si incontrarono, ancora una volta, negli studi di Apostrophes proprio nel 1984 per parlare di Kafka – di cui l’anno precedente si era celebrato il centenario dalla nascita – e di Orwell).
Leys trovò un luogo privilegiato per specificare il suo pensiero riguardo il primato e l’autonomia dell’arte e dell’artista rispetto alla politica nell’opera di George Orwell, di cui fu un appassionato studioso (nonché analizzando le opere artistiche di politici e dittatori, come fece con la poesia di Mao, mentre sognava di trarne uno studio di più ampia portata: “Ma la qualità della produzione artistica di Mao, è cosa secondaria. Ciò che è invece interessante rilevare, è la misura in cui l’iter dell’uomo d’azione è stato condizionato dall’estro e dall’impulso dell’artista. È un fenomeno comune a molti famosi statisti, nei quali la genialità politica sottintendeva, o era il surrogato, di una creazione artistica disarticolata o semifallita. Incapaci di adeguare alla propria volontà il linguaggio letterario o le forme plastiche, tali uomini, per esteriorizzare i loro impulsi interiori, hanno utilizzato i popoli e gli imperi. […] La psicologia estetica della politica è ancora da fare…” – Da Gli abiti nuovi del presidente Mao).
Nel suo saggio, dal titolo significativo, su Orwello L’orrore della politica (pubblicato dalla casa editrice romana Irradiazioni, come alcune delle sue altre raccolte – come il suo unico romanzo, una sottile novella dal gusto filosofico intitolata La morte di Napoleone), discutendo del rapporto tra letteratura e politica Leys annotava memorabilmente:
“quando, scrivendo un articolo per un periodico della sinistra benpensante, [Orwell] sprecava in modo provocatorio uno spazio prezioso che avrebbe dovuto essere interamente destinato ai gravi problemi della lotta di classe, per dissertare della pesca con la lenza o dei costumi del rospo, egli non cedeva ad una gratuita ricerca di originalità, ma si proponeva di scioccare i suoi lettori e di ricordargli che, nel normale ordine delle priorità, il frivolo e l’eterno dovevano venire prima della politica.
Si deve dedicare la propria attenzione alla politica così come ci si guarda da un cane rabbioso che non esita di attaccare alla gola se si cessa un istante di tenerlo d’occhio.”
E ancora: “Oggi siamo in grado di valutare meglio quanto quest’osservazione [che la letteratura fosse l’ultimo dei pensieri di Orwell] sia erronea. […] In ogni caso, una cosa è certa […] anche in quest’opera, la letteratura fu sempre il primo dei suoi pensieri. Questa constatazione non pone in alcun modo in dubbio la serietà della sua impresa, al contrario, poiché […] l’arte è l’invenzione del vero.”
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A metà degli anni Novanta, una volta andato in pensione – quella che amava chiamare, come gli spagnoli, jubilación –, Leys poté ritirarsi dalla vita accademica e dedicarsi finalmente a tempo pieno, oltre all’amata vela (curò una monumentale antologia sul Mare nella letteratura francese), alla scrittura e alla lettura – libero di farlo secondo l’ideale, a lui caro, dell’“utilità dell’inutile” (Zhuang Zi): “Quello che mi interessa è seguire le mie inclinazioni in tutto ciò che mi incuriosisce, secondo i miei bisogni in un qualsiasi momento, con il rischio di contribuire con nulla di originale da un punto di vista scientifico, ma con il vantaggio di poter derivarne un considerevole beneficio spirituale fine a se stesso.”
A questa periodo di produzione letteraria – caratterizzato da brevi cronache o articoli, cosparsi di gemme, che partono da piccoli aneddoti o esperienze personali – risale il saggio di cui sotto riportiamo la traduzione, tratto da una delle ultime raccolte, Le bonheur de petits poissons, “La felicità dei piccoli pesci” (altra allusione ad un famoso passaggio del Zhuang-zi) del 2008.
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Varrebbe la pena riportare, in conclusione, ciò che Amelie Nothomb, ereditando il suo seggio nel 2015 alla Académie royale de langue et de littérature françaises de Belgique (prima di loro appartenuto a niente di meno che Georges Simenon), disse di Simon Leys: “Indipendentemente da ogni possibile umiltà, se non gli succedo, è soprattutto perché non lo considero defunto. Non ho alcun bisogno di rileggere Simon Leys per sapere che non è morto. Mi è sufficiente scrivere, per sapere che è vivo. […] Chiaramente, Simon Leys scriveva in modo meraviglioso. Ma ciò che fa di lui non solamente uno scrittore, ma un grandissimo scrittore, è molto più misterioso di questo. Ciò che rende bello un testo, non è tanto che sia ben scritto, ma che sia abitato. L’opera di Simon Leys è prodigiosamente abitata”.
O più vicino a noi, quello che ha scritto il sinologo e giornalista Simone Pieranni: “Inutile dire che, come spesso accade dopo la lettura di Leys, ho buttato tutto quanto avevo scritto fino a quel momento.”
Leys rimane un autore estremamente attuale, un nostro contemporaneo – un classico, o secondo la sua definizione un Antico (“Gli Antichi mi sembra che siano interessanti nella misura in cui essi rimangono vivi: continuano a parlarci. Ci sono dei pensieri di Zhuang Zi, di Platone, di Tucidide, di Sima Qian e di Su Dongpo, di Montaigne, di Pascal, di Swift, di Samuel Johnson che sono per noi di una attualità più urgente che di tutta la prosa del giornale di questa mattina (e che dire dei poeti!).”) Del resto nella prefazione agli Essais sur la Chine, il suo amico Jean François Revel accostava quest’opera proprio a quel “possesso per l’eternità”, di cui parlò Tucidide nelle Storie.
Alessandro Burrone
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Simon Leys, Il nostro unico ombrello.Del ruolo dell’arte nelle spedizioni polari in particolare, e nella vita in generale
Qualche anno fa – vi ricordate? – l’attore inglese Hugh Grant fu arrestato dalla polizia di Los Angeles, perché si era lasciato andare in luogo pubblico, in compagnia di una ‘signora della notte’, ad una attività particolarmente privata. Per i comuni mortali, una tale disavventura sarebbe stata semplicemente imbarazzante ma, per un attore così famoso, essa avrebbe potuto avere delle conseguenze catastrofiche: per un momento, tutta la sua carriera hollywoodiana pareva essere sul punto di sprofondare. Nel mezzo di questo marasma, Grant venne intervistato da un giornalista americano, il quale gli fece una domanda… molto americana: ‘Si sta affidando ai consigli di uno psicoterapeuta?’ ‘No – rispose Grant –, in Inghilterra si leggono dei romanzi.’
Mezzo secolo prima di lui, Carl Gustav Jung aveva formulato in termini più tecnici l’esatto corollario di questa stessa nozione: “Quando un individuo perde contatto con l’universo mistico, e la sua esistenza si trova così ridotta al solo dominio dei fatti, la sua sanità mentale si trova in grande pericolo.” In altre parole: la gente che non legge romanzi o poesie rischia di schiantarsi contro la muraglia dei fatti o di essere schiacciata dal peso delle realtà. E occorre allora chiamare con urgenza il signor Jung ed i suoi colleghi, per tentare di rimettere insieme i pezzi.
È, forse, la tendenza a moltiplicarsi degli psicoterapeuti legato al fatto che i romanzieri ed i poeti incominciano a farsi sempre più rari? Sembrerebbe infatti che lo sviluppo della psicologia clinica vada di pari passo ad un inaridimento dell’immaginazione ispirata; o per lo meno, alcuni eminenti specialisti lo hanno pensato. Un giorno Rainer Maria Rilke domandò a Lou Andreas-Salomé di essere psicanalizzato. Lei rifiutò, spiegandogli che, “Se l’analisi dovesse riuscire, rischierebbe di non poter più scrivere poesie.” (E immaginativi un po’, se un abile terapeuta fosse mai riuscito a guarire Kafka dalle sue angosce esistenziali, la condizione dell’uomo moderno avrebbe perduto per sempre il suo interprete più acuto.)
Molti individui robusti e ben adattati sembrano non avere il benché minimo bisogno di una vita contemplativa. Così come, per esempio, i santi non scrivono romanzi, come aveva già osservato John Henry Newman – il quale doveva saperne qualcosa dacché fu praticamente un santo, e scrisse due romanzi. Più particolarmente, gli spiriti pratici e gli uomini d’azione sono ostili a tutte le forme di finzione, che essi guardano sospettosamente, come non fossero altro che una forma d’evasione pericolosamente frivola e debilitante. A questo proposito, è interessante notare, per esempio, come il celebre esploratore polare Mawson avesse dato ai propri figli il severo ordine di non leggere mai dei romanzi, ma invece di concentrare tutta la loro attenzione alle biografie dei grandi uomini e ai libri di storia – le uniche letture, a suo parere, che avrebbero potuto assicurargli un sano sviluppo intellettuale.
Questa opinione riflette due malintesi assai frequenti, e dunque merita che ci si soffermi per un momento. Il primo errore consiste nella mancata percezione del fatto che ogni opera letteraria, per sua stessa definizione, è opera d’immaginazione (e così anche se non lo fosse affatto dall’origine, dacché se messa in buone mani, nessun opera tarda prima o poi a diventarlo: l’elenco telefonico era una delle letture preferite di Simenon). Le distinzioni di genere – romanzo e storia, prosa e poesia, finzione e saggio – sono convenzionali e non esistono che per la comodità dei bibliotecari. I romanzieri sono gli storici del presente, e gli storici i romanzieri del passato, ed ogni scritto che presenta una certa qualità letteraria aspira essenzialmente ad essere poesia.
Il secondo errore mawsoniano si basa su una visione ingenua di quello che sarebbe “sano”. L’illustre dottore Farabeuf ci aveva già messo in guardia: “La buona salute è uno stato precario che non promette nulla di buono.” Ma il problema è più fondamentale ancora – Unamuno l’aveva ben diagnosticato: “L’uomo, per il semplice fatto di essere uomo, è di già, in confronto all’asino o al granchio, un animale malato. La coscienza è malattia.”
E siccome Mawson viene a darci lezioni dall’Antartide, non vorrei lasciare quella regione senza evocare la figura dell’esploratore Shackleton, il quale fu, lui sì, un eroe ben più affascinante. Dopo la perdita della sua nave, nel mezzo del più tetro disastro, dovendo come ogni membro del suo equipaggio alleggerire il proprio zaino di ogni inutile sovrappiù, rifiutò ferocemente di privarsi del volume di Poesie di Browning che l’aveva accompagnato per tutto il viaggio. Un giorno, ne sono convinto, dovrà pur esserci un accademico che si deciderà a scrivere una tesi sul “Ruolo della poesia nelle spedizioni polari” – ma, per il momento, farò senza dubbio meglio a non allontanarmi troppo dal mio argomento.
Quel che volevo sottolineare è semplicemente questo: il nostro equilibrio interiore è costantemente in condizioni precarie e minacciato, essendo ad ogni istante esposti alle prove ed alle aggressioni della realtà quotidiana; l’esito delle lotte dell’esistenza rimarrà sempre incerto, e in fondo è forse un personaggio di Mario Vargas Llosa ad aver dato la migliore descrizione della nostra comune condizione: ‘La vita è un tornado di merda, nel quale l’arte è l’unico nostro ombrello.’
Ricordando i vecchi tempi a Shengchi, in risposta ad una poesia di Ziyou
A cosa dovrebbe essere comparata la vita degli uomini?
Dovrebbe essere comparata ad un’oca selvatica che vola, e si posa sulla neve.
La neve trattiene per un momento l’impronta delle sue zampe; l’oca vola via nessuno sa dove.
Il nostro compagno, il vecchio monaco, è morto; sul muro in rovina del monastero, la poesia che abbiamo scritto l’anno scorso è diventata illeggibile.
Ti ricordi ancora le avventure e le tribolazioni che abbiamo passato insieme? La strada è lunga, il viaggiatore è stanco e il suo zoppo asino raglia.