11 Agosto 2022

“Sopravvivere all’ignominia”: per capire la Cina bisogna leggere Sima Qian (e Simon Leys)

Nonostante la quasi scomparsa dei suoi libri – ad eccezione de Gli abiti nuovi del Presidente Mao, ripubblicato nel 2020 da Res Gestae, opera di lucidità e coraggio che l’impose nel dibattito sulla Cina dei primi anni ’70  – dal nostro panorama editoriale, il nome di Simon Leys, pseudonimo dello scrittore e sinologo australiano-belga Pierre Ryckmans (1935 – 2014), ha avuto e continua ad avere un sotterraneo prestigio agli occhi di chi osserva e studia oggi l’Impero di mezzo.

Passiamo in rassegna fra i più recenti libri sul tema. Giada Messetti in La Cina è già qui (2022, sequel di Nella testa del dragone, entrambi per Mondadori), ne cita esemplarmente in esergo una famosa considerazione, mentre in modo simile, un altro giornalista e sinologo, Simone Pieranni, nel recente volume La Cina nuova (Laterza, 2021) proprio in alcune parole di Leys sembra avere trovato l’orientamento generale delle sue ricerche. Si pensi poi all’eclettico libro di Alberto Bradanini, ex-diplomatico e presidente del Centro Studi sulla Cina contemporanea, Cina: l’irresistibile ascesa (Sandro Teti Editore 2022), in cui riaffiora il resoconto di un profondo confronto e un’attenta analisi dei testi del sinologo di origine belga (discostandosi inizialmente da quello che chiama il suo “antirealismo politico”, elogia “la passione civile” e la “valenza morale” dei suoi scritti). 

Quella di Leys – storico dell’arte, traduttore, pamphlettista, scrittore di un romanzo, compilatore di una gigantesca antologia sul mare nella letteratura francese e di una selezione di aforismi (le cosiddette “idee degli altri”), nonché illustratore e calligrafo – è un’opera letteraria proteiforme, come il Protée che diede il titolo ad una sua raccolta di saggi; assomiglia ad un arcipelago. La sua storia, scrisse nella ricca biografia Philippe Paquet (Simon Leys: Navigateur entre les mondes, Gallimard, 2016),è uno “spostarsi di isola in isola”: da queste del resto Leys era affascinato, come disse in un’intervista, ci donano “un’ambigua immagine di paradiso” (tema sul quale, continuava, aveva nel tempo accumulato una piccola biblioteca).  

E se da un lato essa continua ad attirare l’attenzione e stimolare il dibattito di lettori e commentatori, dall’altro sembra che questi ultimi si dividano di norma tra i “China watchers” (“ces Expert qui nous expliquent la Chine”, inveiva in La foresta in fiamme), lasciando la restante parte più puramente di ricerca o letteraria a qualche accademico e ad uno sparuto gruppo di solitari happy few. Mentre ciò a cui Leys aspirava era, piuttosto, tentare di considerare, come recita il titolo di un’altra raccolta ispirato ad una pagina di G.K. Chesterton, L’angelo e il capodoglio insieme, “il frivolo e l’eterno” di cui parla in Orwell o l’orrore della politica (con il rischio di “suonare il pianoforte ad un bue”, come in una delle sue tante vignette satiriche). Era l’ideale dell’umanesimo confuciano, del gentiluomo, che “non è uno strumento” (come si legge ne I detti di Confucio, fra le ultime sue più ambiziose traduzioni).

Leggiamo ad esempio, in un passaggio da La foresta in fiamme :

“Il gentiluomo coltiva le arti al fine di realizzare la propria umanità. Per questa ragione, le arti, a differenza dell’artigianato (scultura, incisione, architettura, musica di strumenti volgari ecc.), non costituiscono una attività professionale o specializzata. Si è naturalmente competenti in materia di poesia, di pittura e di calligrafia nella misura in cui si è dei gentiluomini, e non si potrebbe ottenere questa competenza a meno di essere gentiluomini. Per definizione stessa, queste attività non possono essere praticate che da dei non-professionisti: nel mestiere di vivere, non siamo forse tutti dei dilettanti?”

“Quando si ammira un artista, è naturale, in fondo, avere anche il desiderio (il più delle volte frustrato) di poter ugualmente ammirare l’uomo”, scrisse in una lettera all’amico e giornalista Pierre Boncenne (a questo fine, la corrispondenza stessa con Boncenne – Quand vous viendrez me voir aux Antipodes: Lettres à Pierre Boncenne, Philippe Rey, 2015 – può offrire un documento di rara importanza).

Per quanto riguarda quest’ultimo, sappiamo che la sua principale occupazione fu quella di insegnare storia dell’arte e letteratura cinesi. Prima di trasferirsi a Hong Kong e poi in Australia, dove si stabilì, Leys si laureò tra Louvain e Taipei con una tesi di dottorato su Shitao, tra i più importanti artisti di epoca Qing (“creatore versatile e prolifico”, “ha lasciato un’opera immensa di cui la diversità e lo spirito di sperimentazione spinto con audacia in tutte le direzioni presenta una ‘modernità’ che ben si presta a rispondere alle preoccupazioni dei nostri tempi”, scriveva in una voce enciclopedica). Leys tradusse e commentò il suo trattato di estetica, i Discorsi sulla pittura del monaco Zucca Amara, in cui tentava di riconciliare “i principi fondamentali della cosmologia antica, del confucianesimo, del taoismo e del buddismo Chan per proporre una spiegazione sintetica dell’Atto di dipingere, concepito come un complemento microcosmico all’attività del Creatore dell’universo” (“pose le domande essenziali – disse una volta in un’intervista –: Perché si dipinge? Come si dovrebbe dipingere?”; una versione della tesi è disponibile online).

Lo studio approfondito della lingua e dell’arte furono dunque le porte attraverso cui il giovane Leys conobbe e poté amare la Cina, infiammarsi per il suo destino. Ma in lui, come tornava a ribadire (e come recenti studi hanno ulteriormente confermato, vedi Matthieu Timmerman, Simon Leys: Un critique artiste du politique, o l’articolo dello stesso autore apparso su Textyles), l’estetica ha in buona sostanza fino alla fine priorità sul politico. 

Alla fine degli anni ’60, gli fu commissionata una serie di voci biografiche di scrittori e pittori cinesi per l’Encyclopedia Universalis (in gran parte ripubblicate poi nel ’98 in un voluminoso Dictionnaire de la civilisation chinoise): una ventina in totale, a cui si aggiungono due saggi più generali (uno sulla calligrafia, sulla pittura, le stampe e le incisioni nel contesto dell’arte cinese, l’altro sulle tecniche della pittura cinese), se raccolte in volume potrebbero servire come piccola iniziazione alle arti e all’estetica cinese.

Si va dalle prime dinastie dell’impero, fino ad alcuni pittori del ventesimo secolo (tra cui Ding Yanyong [1902-1978], che conobbe e insieme al quale lavorò al New Asia College ad Hong Kong), nel suo tipico stile non esente dalla partecipazione dell’uomo e dello scrittore. Qui proponiamo in traduzione la voce dedicata al grande storico della Cina antica, Sima Qian, autore dello Shi ji o Memorie storiche(una selezione della quale, sulle orme di quella francese di fine Ottocento di Édouard Chavannes, è stata tradotta per Luni Editrice nel 2017), opera fondativa della storiografia cinese classica, che tuttavia egli leggeva per il suo valore letterario.

Coscienza estetica, la sua, che riordinava la gerarchia dei valori: la periferia, e la voce dell’uomo comune (memorabile l’elogio della “straordinaria ordinarietà” di Sebastian Haffner – si veda anche la sua introduzione ai racconti della scrittrice taiwanese Chen Ruoxi, The execution of Mayor Yin –: o ancora la frase che spesso citava dello stesso Sima Qian: “Meglio dell’approvazione della folla: l’indignazione di un solo uomo onesto”) come ineludibile controcanto ai canali ufficiali dei centri di potere; l’ambizione di confrontarsi con le grandi opere di tutti i tempi (quelle “di fondamentale importanza”, come gli disse un maestro cinese), senza il timore di non apparire originale.

Nel 1996, in una serie di lectures intitolate The View from the Bridge: Aspects of culture, denunciava il dilagare del “disordine e la confusione intellettuale”, particolarmente riguardo l’istruzione superiore:

“L’Università – scriveva – assomiglia sempre di più agli arredi scenici di cartone che utilizzati sui palchi elisabettiani, o nell’opera di Pechino, e sui quali era scritto a grandi caratteri: QUESTO È UN CASTELLO o QUESTA È UNA FORESTA – equivale a poco più di una simbolica segnaletica: QUESTA È UNA UNIVERSITÀ. Può una tale finzione mantenere la propria credibilità con il pubblico?”.

Aveva appena lasciato l’accademia, tra l’altro, Leys, approfittando della possibilità di anticipare la pensione, che amava chiamare in spagnolo, jubilación.

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Sima Qian [Sseu-ma Ts’ien] (145- 87 ca. a.C.)

In Cina, la storia gioca il ruolo che, nelle altre civiltà, è normalmente assegnato alla mitologia o alla religione: è a questa che si chiede una spiegazione totale del mondo, una definizione del destino della collettività, un giudizio di valore sulla condizione umana. In Sima Qian, la civiltà cinese trovò uno storico in grado di assumere magistralmente questa missione immensa e multiforme. Il suo capolavoro, lo Shi ji (Memorie di uno storico), si è imposta in maniera definitiva come un’opera ad un tempo di visione e di scienza, simultaneamente compilazione enciclopedica e potente epopea, meditazione di filosofo, affresco, romanzo e dramma, di cui l’ambizione era niente meno che di coprire la successione di tutte le epoche su tutto lo spazio del mondo conosciuto. Lo Shi ji, sintesi dei due millenni che l’avevano preceduto, è rimasta per i due che l’hanno seguito come il monumento spirituale della Cina.

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Per l’onore di scrivere

Sima Qian è nato in un villaggio dello Shanxi, da una famiglia che vantava di aver detenuto sin da un’epoca remota la funzione ereditaria del grande astrologo di corte. Questa tradizione, interrotta per alcune generazioni, fu restaurata a profitto di Sima Tan, il padre di Qian, grazie all’imperatore Wudi. La carica di grande astrologo (che inglobava ad un tempo l’astronomia, il calendario, la divinazione, i sacrifici, ma anche la custodia degli archivi e la cronaca degli eventi della corte), all’epoca in cui il potere rivestiva un carattere religioso e magico, aveva avuto un’importanza considerevole; nell’Impero burocratico degli Han, questa funzione aveva perduto molto del suo antico prestigio. Sima Tan infatti veniva considerato alla stregua degli indovini, degli attori e dei cantanti che intrattenevano la corte. Tuttavia, per inferiore che fosse la sua posizione, questa gli permetteva un accesso privilegiato agli archivi dell’Impero, portando Sima Tan a concepire il progetto grandioso di una sintesi storica universale che, giudicando imparzialmente le epoche e gli uomini, avrebbe potuto in qualche modo riportare ordine nell’universo e riprendere al contempo la missione filosofica, morale e politica dei santi dell’Antichità.

Quando Sima Tan morí (110 a.C), Sima Qian gli successe nelle funzioni ufficiali alla corte e, soprattutto, riprese a sua volta l’esecuzione del grande disegno che il padre aveva cominciato ad abbozzare. Quest’ultimo era mirabilmente equipaggiato per questo compito, sia per la preparazione che il padre gli aveva impartito, sia per le letture e i viaggi che aveva effettuato durante la giovinezza (Sima Qian è stato uno dei grandi viaggiatori dell’epoca). Ma nel 98, un evento dalle conseguenze drammatiche lo strappò bruscamente dal lavoro: avendo avuto l’audacia di dichiararsi davanti all’imperatore (e contro il sentimento di quest’ultimo) in favore di Li Ling, un generale che durante una campagna sfortunata si era arreso ai Xiongnu, venne accusato di lesa maestà e condannato alla castrazione. Un uomo d’onore avrebbe dovuto scegliere la morte, piuttosto che sottomettersi a questa pena infamante; ma Sima Qian aveva ancora bisogno di qualche anno per completare la missione che il padre gli aveva affidato e mettere il punto finale all’opera che sapeva gli avrebbe assicurato una fama immortale. Subì dunque l’ignobile supplizio: la peggiore sofferenza fu dover sopportare per il resto dei giorni il disprezzo dei suoi pari, incapaci di comprendere che la scelta di sopravvivere nella vergogna piuttosto che morire con onore non era effetto di vigliaccheria, ma prova di coraggio superiore. Questo segno ustionante di vergogna e di rabbia rimase una componente essenziale del genio di Sima Qian: percorrendo in filigrana tutta la sua opera, essa vi porta un calore particolare nell’animare di una soggettività appassionata l’ultima e la più importante parte (le settanta “Vite esemplari”); essa si proietta anche nella teoria estetica di Sima Qian, per cui tutte le grandi opere dello spirito, tutte le grandi creazioni letterarie sono innanzitutto ed essenzialmente delle grida di collera e di dolore, una rivincita contro l’umiliazione e l’ingiustizia, una vittoriosa difesa in appello davanti al tribunale supremo della posterità e della fama. Dopo il supplizio, Sima Qian si trovò reintegrato nelle sue funzioni ufficiali a corte. Nel 91, la redazione dello Shi ji fu pressappoco terminata. Non si sa di preciso quando e come Sima Qian sia morto, ma sembra che dovette sopravvivere di qualche anno all’imperatore Wudi, deceduto nell’87.

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Poeta epico e storico critico

Lo Shi ji è formato da centotrenta capitoli raggruppati in cinque parti: dodici “Annali di base” che trattano della successione delle dinastie, dieci “Tavole” cronologiche, otto “Trattati” su diversi aspetti del rituale, delle istituzioni, dell’economia, ecc., trenta “Casate ereditarie” sui grandi vassalli, e infine le settanta “Vite esemplari”, la parte più ricca e viva dell’opera, la quale presenta tutti i diversi aspetti della condizione umana colti attraverso una serie di individui o di gruppi, più o meno illustri o oscuri, ma tutti ugualmente tipici e potentemente caratterizzati. Se è possibile, per la forma di ciascuna di queste parti, trovare degli antecedenti più o meno diretti nei diversi generi coltivati dalla letteratura storica anteriore, la fusione sintetica di questi differenti elementi in una sola totalità organica costituisce l’originalità maggiore dello Shi ji. L’architettura dell’opera è apparsa tanto magistrale che la storiografia ufficiale, formalmente o meno, non si distaccherà più da questo modello. D’altro canto, per quel che concerne il contenuto, le commissioni di burocrati incaricati dal potere a scrivere la versione ufficiale della storia, si mostreranno largamente incapaci di seguire – se non di comprendere! – l’audacia di pensiero e l’indipendenza di giudizio dimostrati da Sima Qian. Non solo i suoi giudizi di valore urtavano i pregiudizi dell’ortodossia, ma la sua feroce critica della dinastia regnante valse allo Shi ji la nomea di una pericolosa “opera diffamatoria”.

Il metodo dello Shi ji è sorprendentemente moderno per il suo costante ricorso al dubbio critico, il modo di illustrare e di completare le informazioni delle fonti scritte con delle inchieste svolte sul terreno. Il suo principio di base, eminentemente scientifico, è di non abbellire, di non dissimulare i fatti. Le tecniche espositive sono di avvincente efficacia: così, una stessa personalità può essere presentata a più riprese, in diversi luoghi, vista sotto angoli diversi, in modo da dargli rilievo e vita salvaguardandone al contempo il mistero ambiguo della sua umanità; i caratteri sono schizzati e giudicati non attraverso l’intervento antecedente di un narratore onnisciente, ma delle loro stesse parole e azioni, che Sima Qian rimette in scena davanti a noi con l’istinto di un drammaturgo o un romanziere.

La prosa di Sima Qian si inscrive in modo diretto nella linea dei grandi prosatori pre-Qin e Qin, dei quali conserva la potenza virile e la schiettezza; allo stesso tempo, una familiarità con il lirismo dei paesi di Chu gli permise di arricchire, ammorbidire e affinare questa lingua senza snervarla. Sima Qian ha un orecchio molto sicuro per le parlate popolari e le espressioni proverbiali, così come un dono per la creazione di vivide immagini verbali. Tra l’aspro vigore dei Qin e la ricercatezza formalista delle Sei Dinastie, la prosa storica degli Han – in particolare quella dello Shi ji – rappresenta un’età dell’oro. I grandi scrittori Tang e Song torneranno a domandare a Sima Qian il segreto di questo spontaneo e vivo equilibrio classico. A partire dall’epoca Yuan, Sima Qian non sarà più soltanto un maestro di scrittura della lingua letteraria, ma la sua influenza si estenderà ai generi popolari del teatro e del romanzo, trovando nello Shi ji da un lato un inesauribile repertorio di temi e di scenari, e dall’altro le sue più tipiche tecniche di narrazione (la celebre “obiettività” del romanzo cinese è direttamente derivata dal metodo dello storico).

L’influenza postuma di Sima Qian ha dunque largamente superato il dominio specialistico della storiografia per imporsi in quello, più universale, della letteratura; essa ha potuto anche al contempo imporre e illustrare certe costanti fondamentali della psicologia, della sensibilità e dell’immaginazione cinesi – in un modo che sarebbe possibile paragonare soltanto a un Shakespeare per il mondo anglosassone. Nel profondo della sua umiliazione, Sima Qian ebbe del resto in sé l’intuizione di ciò che sarebbe stata la sua vendetta finale:

“Se ho accettato di sopravvivere nell’ignominia e se sopporto ora senza dire una parola di vegetare nel mio solitario letame, è perché non posso tollerare l’idea di essere inghiottito nel nulla senza aver prima potuto svuotare il mio cuore e far risplendere per le generazioni future il fulgore del mio genio letterario […] Se mi sarà dato di realizzare la mia opera e se la sua esistenza si potrà perpetuare tra gli uomini, trasmettersi in tutte le città del mondo, allora avrò veramente lavato il mio obbrobrio e, se il mio supplizio fosse stato anche mille volte più crudele, non rimpiangerei nulla!”.

*Voci nella Encyclopedia Universalis redatte da Pierre Ryckmans: ‘Civilisation chinoise. Les arts: Calligraphie et peinture, Estampes et gravures, Estampage’, ‘Dai Jin et Wu Wei’, ‘Daoji ou Shitao’, ‘Ding Yanyong’, ‘Dong Qichang’, ‘Gong Xian et Kuncan’, ‘Gu Kaizhi’, ‘Guo Xi’, ‘Han Can’, ‘Han Yu’, ‘Huang Binhong et Fu Baoshi’, ‘Huang Gongwang’, ‘Huizong’, ‘Jing Hao et Guan Tong’, ‘Li Cheng et Fan Kuan’, ‘Li Longmian’, ‘Li Sixun’, ‘Li Tang et Ma Yuan’, ‘Liang Kai et Muqi’, ‘Mi Fu’, ‘Ni Zan’, ‘Peinture: Les techniques’, ‘Shen Zhou’, ‘Sima Qian’, ‘Xia Gui’, ‘Xu Wei ou Wenchang’, ‘Zhu Da’.

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