“Orde di neri demoni si risvegliano a guisa di banchieri”. Discorso sul Baudelaire di Walter Benjamin
Cultura generale
Massimo Triolo e Giusy Capone
Probabilmente, “Charles” avrebbe preferito Ted Hughes a redigere A poem to mark the coronation of His Majesty King Charles III. Tra il grande poeta inglese e l’allora Principe del Galles l’amicizia fu leggendaria: entrambi amavano i boschi, le inquietudini astrologiche, il buon bere. Carlo era letteralmente stregato da Ted Hughes, il poeta-sciamano che divinava i cieli, sapeva riconoscere simboli e segni, credeva nella poesia come arte mantica. Lui gli fu grato: eletto “Poet Laureate” nel 1984, fino alla morte (avvenuta nel 1998), dedicò la sua raccolta di Laureate Poems a Carlo, Rain-Charm for The Duchy (Faber, 1992; The Duchy sta per il Duca di Cornovaglia, tra i titoli, all’epoca, ostentati da Charles). Ted Hughes era in sintonia, in particolare, con la Regina Madre, a cui dedica diverse poesie; il simbolo dell’Unicorno, che insieme al Leone campeggia sullo stemma reale, è usato nella poesia che ha onorato i quarant’anni del regno di Elisabetta II, The Unicorn, appunto. Nel suo dire, Ted Hughes adottava una barbarica aristografia anglosassone.
Probabilmente, a noi l’incarico di Poet Laureate fa sorridere: essendo in Italia, immaginiamo che dietro la vetusta onorificenza alligni il clientelismo, il perbenismo, uno scaltro, per non dire burocratico, esercizio dell’arte lirica. Insomma, il poeta leccapiedi del re. Al contrario, il Poet Laureate – incarico che non proviene da salotti letterari o da Pen club, è d’elezione regale e d’impatto governativo: approvato dal monarca e suggerito dal Primo ministro – è il joker, il fool, elemento, semmai, di disturbo, mai d’ornamento. Così, se Ted Hughes ha scelto di indossare la blusa del druido, del mestatore di sortilegi astrologici, Simon Armitage – il “poeta laureato” in carica –, cantore di strada, lirico punk, interpreta il ruolo con il ceffo del trickster, del paffuto monello. D’altronde, di recente, ha ricordato al “Guardian” la sua periferica infanzia – è cresciuto a Marsden, nel West Yorkshire, ha frequentato il sottosuolo di Manchester –, figlio di un elettricista con qualche velleità artistica, conservatore (“Era un uomo difficile, duro. Un Tory della classe operaia. Come i suoi genitori. Erano insondabili. Gente che viveva nelle case popolari, senza un soldo con cui grattarsi il culo, ma aspiranti Tory della classe operaia. Erano di quelli che si credono un millimetro migliori dei vicini della porta accanto”). Quanto ad Armitage, fu, per credo, un “anti-tutto”, folgorato da Ted Hughes e dai Joy Division, autore di una straordinaria intervista a Morrissey, il guru degli Smiths. Era un arrabbiato – che ora gioca al “laureato”. “Ho accettato il ruolo perché mi permette di estendere la mia ricerca poetica”. Meglio: perché la stola della tradizione – così, senza aggettivi o fronzoli esornativi, qualunque essa sia – è un peso di cui si è responsabili, scettro superiore a regali e regalie, a ribellioni e reazionari.
L’intervista è stata realizzata per promuovere – diciamo così – l’ultimo libro di Armitage, ovviamente edito da Faber: s’intitola Never Good with Horses ed è una raccolta di lyrics, di canzoni “post rock”, scritte dal poeta per la sua band, i Land Yacht Regatta e per gli Scaremongers. A dire della vastità poetica di Armitage, un tempo assai tradotto anche da noi – nel 2001 Mondadori pubblica una vasta antologia di Poesie, “attualmente non disponibile” – oggi un paria, forse per eccesso di talento.
Purtroppo per “Charles”, dicevo, la poesia per la sua incoronazione non l’ha scritta lo sciamanico Hughes, ma il discolo Simon. Il testo, An Unexpected Guest – al lettore il destino di scoprire chi sia autenticamente il guest – è di canonica eleganza, di sagace sarcasmo. Simon Armitage si pone ai margini dell’incoronazione e strimpella la sua ballata riferendosi a Samuel Pepys (feat), citato a piene mani, nel paragrafo in corsivo. Nel personaggio si nasconde la celia politica del testo. Vissuto nel XVII secolo, Pepys riassume in sé lo spregiudicato gusto degli scrittori d’Albione: l’ironia nera, il genio per l’intrigo e la maldicenza, la capacità di muoversi, sempre a proprio agio, a corte come in taverna, tra biscazzieri e prostitute come tra duchi e lord, dacché la vita è quella cosa lì, azzardo, mercanteggio, prostituzione, lascivia. Il suo diario – il suo capolavoro – descrive (tra didascalia e pornografia) non tanto l’etimo di un’età, quanto l’animo di un popolo.
Nello specifico, Samuel Pepys ha assistito, ragazzo, alla decollazione di Carlo I, e, da adulto, dopo l’epoca dominata da Oliver Cromwell, all’incoronazione di Carlo II Stuart. Proprio alla pagina del diario che descrive questo episodio fa riferimento Armitage nella poesia. Se leggiamo l’intero brano – Tuesday 23 April 1661 – ci è chiara la balordaggine: Samuel Pepys è un campione nell’osservare la mandria umana (“Ho provato un grande piacere nell’andare su e giù, fissando le belle dame e ascoltando musica di ogni sorta”), è un impenitente Don Giovanni. Nel bel mezzo della cerimonia regale, Pepys si alza, esce dall’abbazia, va a fare pipì; in fondo, il grande evento è utile per passare una giornata di festa, fino al dedalo della notte. Pepys beve, frequenta osterie e bettole, finisce la giornata da un amico, come stomaco comanda: “la mia testa cominciò a ronzare, vomitai, prima di penetrare nel sonno, duro”. Dall’incoronazione del re, dopo i turbini del Lord Protector, al vomito. Una degna catabasi. C’è da dire che Carlo II – sovrano de facto per venticinque anni – è passato alla storia come “Merry Monarch”, il monarca felice: che sia di buon auspicio per il terzo Carlo al trono. Dato non secondario: è Carlo II a rinnovare la pratica del Poet Laureate. Nel 1668 il sovrano ‘incoronò’ con l’alloro poetico – degna equivalenza con la corona d’oro e con quella di spine – John Dryden. Da allora, la prassi non si è mai interrotta; carica un tempo ‘a vita’, oggi – dall’incoronazione di Andrew Motion, nel 1999 – è a termine, dura dieci anni.
Più che altro, il vero protagonista della poesia di Armitage è l’house sparrow che compare alla fine dell’ultima stanza. Infinita è l’ornitologia lirica, dall’aquila di Hölderlin all’albatros di Baudelaire, dal corvo di Edgar Allan Poe al falco di Ted Hughes. Da noi il passero, “solingo augellin”, ha il suo dolente cantore in Leopardi. Il passero di Simon Armitage è dotato di altri carati, una nobiltà più austera lo ammanta, tra cielo e cilicio: mentre gli umani si occupano dell’incoronazione di un re, il passero è la creatura più libera, che si libra sopra l’abbazia, nient’altro che un gioco. La corona – autentico giogo – si sfilaccia, così, nello squittio azzurro, in una nube. Il passero – più forte dell’unicorno e del leone – è il vero re.
***
Un ospite inatteso
(feat. Samuel Pepys)
Si è concessa un paio di scarpe nuove, il posto
presso il finestrino, sul rapido, un albergo per la notte.
È stata nella capitale soltanto due volte,
una volta per vedere Tutankhamon, aveva nove anni,
l’altra pioveva. Attraversando The Mall
non è che una persona come le altre
ma la sua mano continua a tastare l’invito,
il pollice strimpella il bordo dorato della carta,
il dito rintraccia le foglie in rilievo, ne riferisce il bordo.
Al cospetto del portone, non riesce a credere
che la polizia si faccia di lato: quelle porte, per concederle
accesso, potrebbe aprirle soltanto Dio o un convegno di giganti.
*
Ha preso posto di fianco agli autisti di ambulanza,
agli infermieri, ai badanti, agli operatori di bene,
all’uomo che ha ricavato disinfettante per mani
distillando gin, alla donna che ha camminato per miglia e miglia,
sponsorizzata, al ragazzo nella tenda. I capi dei capi di Stato
flottano lungo la navata, conosce i nomi
di sette o di otto di loro. Ma la musica è tutto:
il coro trasmuta i salmi in luce sonora,
i cavernosi sogni sonnambuli
dell’organo fanno vibrare l’aria,
accordi che s’inerpicano dalla radice dei suoi piedi.
Da qualche parte – più in là, più in profondità –
accade qualcosa di sacro e d’oro:
tuoni cremisi, squarci di gioielli
come fiamme, alti prelati nel mitologico splendore,
solenne bisbiglio di incantesimi e sortilegi
fino alla parte in cui promessa e preghiera si fondono:
il momento è esatto, il patto sigillato.
*
Arrivo nell’abbazia… assiso nel mezzo…
Vescovi con cappe auree…
nobiltà tutta in foggia parlamentare…
la Corona viene posta sul capo
dardeggia il sommo grido. E viene fuori…
presta il giuramento… E i Vescovi… in ginocchio
…lo proclamano… se qualcuno ha facoltà
di mostrare la ragione per cui Carlo… non dovrebbe
essere re… deve parlare ora…
Il pavimento pavimentato di un panno blu…
e il Re entrò con la sua corona…
e lo scettro brandito in mano…
*
La guarderà ancora al telegiornale delle dieci
dal trono della sua poltrona in salotto:
le telecamere avranno ripreso il suo cappello rosa corallo
o il cappotto rimesso a nuovo con l’eroica medaglia
che le hanno affibbiato? L’invito è un monito:
sta sulla mensola del camino, accanto all’orologio.
Ha adornato quella giornata con l’ordinarietà:
ha avuto la benedizione di portare a casa lo straordinario.
Soltanto ora, ricorda il piccolo passero
che crede di aver visto sui tetti dell’abbazia, mentre
si inarcava, di gronda in gronda, oltre, sopra, aldilà.
5 maggio 2023
Simon Armitage
*In copertina: ritratto di Carlo III come principe del Galles di Susan Crawford. Copy of the Royal Collection Trust