16 Aprile 2024

“Ti cerco dietro il buio degli occhi”. Il mistero del padre: una lettera a Silvio Perrella

Caro Silvio Perrella,

che bel dono!, grazie, e che sorpresa: tu che scrivi poesie! Leggerò, anzi, sto già leggendo Metronomi sotto i tavoli (ilfilodipartenope editore, 2023), preso dalla curiosità. Quello che ho letto mi pare immenso mare, mare dell’esperienza, che sconfina nella vita, perciò di natura asimmetrica (“la danza dispari delle onde”, dice un tuo verso a pag. 27), ma che si fissa in noi, dalla musica all’ascolto alla verità multipla che dobbiamo intendere bene, che occorre decifrare, insieme alla compagnia che si compie e ai ricordi che premono. Tutto vive in un soffio, possibile? Chi sono io?, cos’è un poeta?, che cosa accade?, che cosa fa accadere una poesia? Niente si esclude nel mare e nella visione del tempo, che è metafora di sabbia (“l’enorme clessidra della spiaggia”, dice un altro tuo verso, sempre a pag. 27), a cui apparteniamo, a cui guardiamo, vigili, disarmati.

“… senza cercare nessun perdono / mare selvaggiamente immoto…” (pag. 15). Il perdono è inteso come cosa vana, ma bisogna starci dentro, per quanto esiguo è lo spazio che gli concediamo, spazio stretto inizialmente, che si allarga a poco a poco, fino a diventare mondo, noi e gli altri, e noi in considerazione degli altri, gli altri in considerazione libera di noi (permettimi!), in quel poco di Cristo che c’è ancora, a giudicare da quello che abbiamo intorno, quel poco di cristiano che ci abita. Ma non importa, vale l’amicizia, il dono, come sempre è il dono che vale, e tu l’hai avuto con questo libro, per spalancarti ulteriormente. Il fatto è questo: sono belle le tue poesie!, che è tanto. Mi chiedo perché, che cos’hanno. La natura, io penso, sono fatte di natura, anche qui ritorna il senso del ricevuto, di mondo ricevuto in un verso, dono di senso, in possibilità di rifletterlo, di viverlo e contemplarlo, di riceverne valore rivelato, valore umano, cuore dell’uomo che spera (“…perché la corsa cercava il cuore”, scrivi a pag. 21).

Voglio dirti che è la speranza che m’interessa, perché è visione di bellezza, ritmo scandito in una musica che si muove, pare venire in avanti, per cercare, per andare incontro a ricordi, movimento, canto. Così puoi nominare data e luoghi che ami, in una specie di diario, perché si contiene tutto lì, è il tema che hai avuto in sorte e che sembra quasi precederti, nonostante sia passato, per dire quel venire avanti delle cose, che ti ho detto. Tema dolce, di realtà e di luce mediterranea. Si può dire che le cose si riflettono da sole, per loro necessità. Comunque vince il destino, e qui si compie, si nota, ritorna. Si afferma una parola che corre come su delle linee prospettiche, che all’improvviso si rivelano nel paesaggio poetico, senza fine, e pare di vedere dei volatili su quelle proiezioni immaginarie diventate prima cavi elettrici, poi altro, ai modi di un ricordo malinconico della Ortese (scrittrice a noi cara), quando in un suo libro contempla gli alberi, e si stupisce nel vedere alcuni rami occupati da uccelli, mentre altri non ospitano nessuno. Penso che è la nostra vita in quella sua immagine, e mi sembra che ti riguardi, a livello di riflessione. Credo che tu la condivida, non a caso la geometria del dettato a un certo punto scompare dai tuoi versi, lasciando lo spazio al sentimento, all’umano in transito, che non sublima, bensì descrive, nel dire dà luce alle cose nascoste, scomparse.

“…mio padre partiva la valigia / nel cofano posteriore portava / con sé il suo mistero restava” (pag. 37). Il padre che parte è l’immagine più forte del libro. Non c’è interruzione con lui, la forma dei versi lo testimonia. Cos’è un padre se non mistero? Cos’è se non presenza anche quando non c’è? È questo che lo rende eterno; più è lontano più rimane, più scompare e più s’incarna in noi. Assomigliamo a lui, o non gli assomigliamo per niente, non importa, perché il rapporto è nella distanza, solo lì lo afferriamo. È detto bene nel verso a pag. 43: “Ti cerco dietro il buio degli occhi”. E ciò che è fermo ha valenza di moto futuro, di azione, in quanto vivo: “…i ritmi sono in attesa le bacchette / ferme nella tasca della giacca / nel silenzio un tambureggiare di dita” (pag. 47). A questo punto i conti non tornano, sono calzini spaiati, come le onde marine che abbiamo già visto all’inizio. È il dramma.

La musica è un’avventura, l’avventura della conoscenza. C’è una frenesia in questo libro, che precede il tempo, prima che il tempo entri in scena. Ma i segni si vedono, sono dappertutto: “Mood mio modo di salvarsi” (pag. 13), “…le note lasciale libere / e spera” (pag. 13). La speranza ritorna di continuo nel libro, è un vero evento: “Mood sei mio / ti tengo in pugno / sei vela e non veli / ma sei barbaglio e movimento / sei mio e sei di tutti / e spera e spera e spera” (pag. 17).

Il mistero del padre è nel suo amore, nell’amore che è distanza, corpo e sentimento della distanza, intangibili come la musica, ecco perché la musica resta, ed ecco l’esperienza, il suo valore, desiderio di corrispondenza con quanto aspiriamo ad essere, a diventare. Come la borsa del padre che scompare dentro il portabagagli (chiusa essa stessa e chiusa dentro qualcosa), così il metronomo sta sotto il tavolo, e da lì riverbera, il suo ritmo di vita riverbera per conciliarci all’amore che non afferriamo, non afferreremo mai, solo Dio può, nella Sua natura infinita, caritatevole. Qui la nota continua a essere drammatica, tuttavia la poesia, l’atto creativo, il più antico dell’arte della parola, si compie, in quanto significato totale dell’uomo.

Un ultimo rilievo: “…l’autobus apre le porte nessuno scende” (pag. 41). Chi si aspetta se non l’amato genitore che ritorna? E ancora: “…mio padre chiuso nello stanzino / a battere sui tasti della macchina / da scrivere immerso nel fumo” (pag. 55). Ormai il padre assomiglia al figlio scrittore. Ce l’hanno fatta! Le due figure si assimilano una con l’altra, nella fedeltà.

Vincenzo Gambardella

*In copertina: Mary Cassatt, Alexander J. Cassatt e suo figlio, 1884

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