A come Asciugatrice. L’oggetto sessuale della donna moderna
Società
Fabrizia Sabbatini
No, non è perfetto – quasi nessun romanzo che superi le duecento pagine lo è, troppi elementi da tenere sotto controllo. Non è neppure il suo testo migliore. Eppure è superlativo, micidiale come lo sparo di un cecchino, definitivo. Fatico a credere di poter incappare in un’opera anche solo vagamente al suo livello, durante il corso del nuovo anno.
Purtroppo Houellebecq, in Serotonina, ha un problema troppo grande per non essere notato, che mi porterebbe a bocciarlo senza appello, se non fosse per il tripudio di saggezza esistenzialista – e politicamente scorrettissima – che tracima abbondante dalle sue righe. Il francese ha creato un personaggio – un consulente esterno del Ministero dell’Agricoltura – decisamente inadatto per far uscire dalla sua bocca riferimenti letterari che spaziano con leggerezza all’interno di tutta la letteratura europea. Se la cosa era tranquillamente accettabile per Bruno, il professore di letteratura in Le particelle elementari, oppure nel caso del docente universitario di Sottomissione, con Serotonina sembra proprio che Houellebecq abbia voluto strafare. In verità, qui, il solo protagonista è lui, con le sue idee, e le mentite spoglie che ha scelto come abito di scena non gli si attagliano neanche un po’. Ma forse il mio è un vezzo da critico pieno di rigide convinzioni come quella che il linguaggio debba essere commisurato, in particolare quando si usa la prima persona, al soggetto parlante.
Diciamo allora che adotteremo quella che in gergo tecnico si chiama “sospensione di credibilità”. In sostanza: nella vita reale uno non parlerebbe mai così ma, quando si tratta di fiction, non si possono adottare gli stessi parametri. Difficile dirlo per un romanzo che avrebbe la pretesa di essere realista, se non neonaturalista – almeno questo sembra essere il genere adottato dallo scrittore, da Sottomissione in poi. Noi lo prenderemo per buono.
Detto ciò, Houellebecq vince a mani basse. “Ed ecco come muore una civiltà, senza seccature, senza pericoli né drammi e con pochissimo spargimento di sangue, una civiltà muore semplicemente per stanchezza, per disgusto di sé…”. Vero, verissimo! Direi che non c’è altro da aggiungere. Houellebecq è il medico perfetto per l’Occidente, quello a cui ognuno si vorrebbe rivolgere, quando abbiamo la certezza della malattia e tutti intorno ci prendono oscenamente per il culo. E lui ha ragione, siamo malati terminali e un’ideologia idiota ci impedisce di metterlo nero su bianco – per fortuna, lui di lusingare il pensiero dominante se ne sbatte altamente.
Il resto delle considerazioni, solo apparentemente buttate lì a caso, è ogni volta fulminante: “il porno è sempre stato all’avanguardia dell’innovazione tecnologica”; “di sicuro non c’è alcun settore dell’attività umana che sprigioni una noia così assoluta come il diritto”. Personalmente non avrei alcunché da obiettare.
Al netto, comunque, di tutta la sordità diffusa tra quelli che faranno finta anche questa volta di non sentire, vorrei proprio sapere chi non si ritrova nella vita del protagonista di Serotonina. Certamente, lui è ricco o almeno decisamente benestante – condizione oramai rara, dopo lo sterminio programmato della borghesia. Per il resto, è tutto impietosamente vero: “In Occidente nessuno sarà più felice […], mai più, oggi dobbiamo considerare la felicità come un’antica chimera, non se ne sono più presentate le condizioni storiche”. O vorreste forse negare che “Parigi come tutte le città era fatta per produrre solitudine” e che “il mondo sociale era una macchina per distruggere l’amore”, ovvero l’unica cosa che potrebbe dare un senso alle nostre già miserabili – ontologicamente miserabili – esistenze?
Naturalmente, Houellebecq sa bene che c’è stato un tempo in cui le cose erano più semplici, naturali, normali e francamente meno problematiche. Quell’epoca è tragicamente venuta meno a seguito di tutte le cosiddette “grandi conquiste di civiltà”: “per me come per tutti i miei contemporanei la carriera professionale delle donne era una cosa che andava rispettata prima di ogni altra cosa, era il criterio assoluto”. Sulla base di questo presunto grande principio, infatti, il protagonista perde la possibilità di avere al suo fianco la ragazza che ama. Non è concepibile chiederle di abbandonare il lavoro per diventare “la mia donna”. Sarebbe troppo in controtendenza rispetto al progressismo diffuso. E così l’uomo occidentale si ritrova a dover inghiottire ogni giorno il dosaggio massimo di un farmaco antidepressivo, a ubriacarsi per reggere l’insulso susseguirsi dei giorni, sperando solo che tutto ciò lo porti quanto prima all’estrema conseguenza, la morte. Alla donna, oggetto d’amore del protagonista, non va meglio: dopo un concerto, si è fatta scopare da uno ed è rimasta incinta, ritrovandosi infine a dover crescere un figlio senza padre. Potrebbe unirsi nuovamente a lei, in una di quelle assurde forme altrimenti note oggigiorno con la neutra e quasi dolce dicitura di “famiglie allargate”, che i francesi chiamano letteralmente “ricomposte”? Stando a Houellebecq, pare proprio di no: “io di famiglie ricomposte non ne avevo mai viste, mentre di famiglie decomposte sì, in pratica non avevo visto altro”.
Senza voler essere eccessivi, si può tranquillamente ammettere che nessuno di questi tempi – e malgrado questi siano effettivamente i tempi che stiamo vivendo – parli di ciò, del vero e proprio tramonto dell’Occidente, e meno che mai in letteratura. Perlomeno, nessuno riesce a contemplarlo in tutta la sua portata.
In Serotonina, invece, la visione è totale, non esclude niente: la distruzione della famiglia e di conseguenza della società; i gloriosi e tragici movimenti di rivolta di una borghesia allo stremo – e non una semplice anticipazione dei gilet gialli; l’annichilimento di qualsiasi pulsione vitale in noi; il bisogno di trovare un senso trascendente – le ultime righe sono per Lui: Dio esiste ed è amore, non diversamente da quanto sosteneva Ratzinger nella sua enciclica Deus caritas est. E questo Dio potrà anche “essere un mediocre sceneggiatore”, come sta scritto, ma di certo non lo è lo scrittore francese. Houellebecq è il profeta, la coscienza europea, l’unica possibilità di salvezza della sua letteratura e del continente stesso. Se un giorno avremo dimenticato questo spaventoso incubo europeista, sarà grazie a lui che ci ha brutalmente svegliati, mentre eravamo in caduta libera verso il precipizio.
Matteo Fais
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Caro Michel,
lo sapevo – lo sapevamo tutti – lo sapevi tu, soprattutto. Non avrei dovuto leggere Serotonina, sappiamo tutti che è un romanzo mediocre, d’altronde, lo sai, hai scelto di ergere la mediocrità a genio, dimostrando che si può vendere molto con un libro modesto, che Houellebecq è diventato una griffe dello scemo prêt-à-porter editoriale, ormai sei l’Armani dei depressi, la panacea per gli scrittori ombelicali, il cesso del narcisismo. Intendo, Michel, che sei uno scrittore tipicamente, clamorosamente degli anni Novanta, un reazionario dell’ovvio, lo sai anche tu – la massa lettrice riconosce sempre ciò che gli è noto, che annota da anni, a cui è riconoscente; l’ignoto, che è il carato della profezia, sconvolge il giudizio, viene ammesso con sospetto. Le tue riflessioni sono barbaricamente idiote, meno interessanti delle speculazioni del lavandino. Ne cito una, sull’amore:
Nella donna l’amore è una potenza, una potenza generatrice, tettonica, quando l’amore si manifesta nella donna è uno dei fenomeni naturali più imponenti di cui la natura possa offrirci lo spettacolo, è da considerare con timore, è una potenza creatrice dello stesso tipo dei terremoti o degli sconvolgimenti climatici, è all’origine di un altro ecosistema, di un altro ambiente, di un altro universo, con il suo amore la donna crea un mondo nuovo.
Ecco, una frase come questa va bene come sfondo a una puntata di Grey’s Anatomy, dove turbe di umani esagitati, nella latrina dell’ego, spacciano sentenze esistenziali, esiziali, inesistenti.
Vado avanti, Michel, sperando che questa mia abbia per te un valore catartico, catatonico. Qui definisci la prostituta, senza alcuno sforzo intellettivo:
La puttana non seleziona i propri clienti, è proprio quello il principio, l’assioma, la puttana dà piacere a tutti, senza distinzione, ed è grazie a questo che accede alla grandezza.
Qui ti fai delle domande che dovrebbero creare qualche sommovimento nel sistema arterioso, invece sono stupide, indotte dal dio del banale, servono per indottrinare i sudditi del giusto mezzo, i vagabondi del niente:
Ero capace di essere felice nella solitudine? Pensavo di no. Ero capace di essere felice in generale? È il tipo di domanda che credo sia meglio non farsi.
Mi viene da dirti, Michel, mai letto Leopardi?, mai sperimentato il suo adamantino rafting nel nulla? Provaci, sfoglia lo Zibaldone, scoprirai il piacere di essere ammutolito, Leopardi zittisce tutti i tuoi incubi da illibata concubina.
Quando vuoi fare il battutista, Michel, mi intristisci con la tua insipienza:
Una Lolita sarebbe stata in grado di far perdere la testa a Thomas Mann; Rhianna avrebbe fatto sbarellare Marcel Proust; quei due autori, vette delle rispettive letterature, non erano, per dirla con altre parole, uomini dignitosi, e si sarebbe dovuto risalire più indietro, all’inizio del XIX secolo, ai tempi del romanticismo nascente, per respirare un’aria più salubre e pura.
Magari possedessi la sontuosità narrativa di Thomas Mann, magari fossi benedetto dalla vastità intellettuale di Marcel Proust, magari riuscissi a scrivere Lolita, magari fossi eroticamente penetrante come Rhianna. I temi definitivi del romanzo, il sesso e Dio, cioè la vita e la morte, cioè il tutto e il nulla, cioè i cardini della letteratura, sono trattati scioccamente, senza il brillio di una intuizione, di una avventatezza narrativa. Sul sesso ti cito questo passaggio:
Pieno di buona volontà, mi tolsi i pantaloni e gli slip per renderle più agevole prenderlo in bocca, ma in realtà ero già preda di una premonizione inquietante, e quando Claire ebbe vanamente masticato per due o tre minuti il mio organo inerte capii che la situazione rischiava di degenerare e le confessai che in quel periodo prendevo degli antidepressivi (“dosi massicce” di antidepressivi, aggiunsi per sicurezza) che avevano l’inconveniente di sopprimere in me ogni traccia di libidine.
Il desiderio annacquato, la libido che sbrodola via, la sessualità incancrenita, la vecchiaia che disintegra ogni bramito di carne, sono elementi che vanno esasperati, esagitati, abusati. Ecco. Non c’è alcun abuso, in te, Michel, che non sia l’abusivismo dei cliché, dottrine retrodatate – te l’ho detto, sei uno scrittore degli anni Novanta che giunge a noi, ora, in ritardo, vent’anni dopo – stinte, antiquate. Leggiti Massimiliano Parente, Michel, che sull’eros, sul porno, sull’eccesso e sull’oltreterra della foia e sul sopruso ha scritto, con la ‘Trilogia dell’inumano’, qualcosa di notevole, di drastico, dovrebbe diventare il tuo abbecedario. Leggiti Andrea Temporelli, che in Tutte le voci di questo aldilà porta la questione letteraria sul tremito del suicidio, Michel, mioddio, bela, ulula, sbraita, abbandonati al gorgoglio dei ghigni, strappati la pelle, spolpaci, portaci in un viaggio mefistofelico dal sottosuolo alla Gerusalemme celeste, dal fango al cosmo, ma questo pantano retorico, ti prego, evitacelo.
Su Dio, poi, sei quasi pietoso, il beghino del buon credo:
In realtà Dio si occupa di noi, pensa a noi in ogni istante, e a volte ci dà direttive molto precise. Questi slanci d’amore che affluiscono nei nostri petti fino a mozzarci il fiato, queste illuminazioni, queste estasi, inspiegabili se consideriamo la nostra natura biologica, il nostro statuto di semplici primati, sono segni estremamente chiari.
Se hai scoperto il sacro nel dissacrato, sono felice per te, piglia la via del monastero e non farci la predica. Se invece pigli Dio sul serio, sfidalo a duello, prendilo a testate, detronizzalo, dissezionalo, annaffialo nella colpa, coltivalo nel danno, dagli valore di dramma. Si scrive azzannando, mica facendo un valzer sul primo pulpito che capita.
In ultimo, Michel, la tua scrittura, speculare alla mediocrità sponsorizzata nel romanzo. Sciupata, nitidamente anonima, da scrittore sottodotato, frollato nel piagnisteo. Ti cito un esempio, tra i tantissimi:
Alle sette in punto mi alzai e attraversai il soggiorno senza fare il minimo rumore. La porta dell’appartamento, blindata e massiccia, era silenziosa quanto quella di una cassaforte. A Parigi il traffico era fluido in quel primo giorno di agosto, trovai perfino parcheggio in Avenue de la Sœur-Rosalie, a pochi metri dall’albergo.
Come sai, un lettore vuole annegare nella gioia o nell’angoscia. “L’infinito è l’eccesso, l’opposto del giusto mezzo, della misura, del finito”, scrive Benjamin Fondane in un miracoloso saggio che sonda Baudelaire e l’esperienza dell’abisso. In particolare, parlando della filosofia greca, Fondane forgia una memorabile metafora: “si presenta a noi come la Vittoria di Samotracia – una scultura senza testa da cui la testa fu deliberatamente omessa, poiché doveva rimanere esclusiva proprietà degli ierofanti; consegnato il corpo al pubblico, la testa, gelosamente conservata chissà dove, non smetteva di guidarne l’espressione e il significato, come verità occulta e ineffabile su cui riposava il discorso visi bile ed espresso”. Vedi, in te, Michel, non c’è infinito e non c’è eccesso, non c’è occulto né mistero: ma è quello, solo quello, incedere in ciò che inciampa, che squassa, che cerchiamo. Il resto – il giusto mezzo, il visibile – è davvero geometricamente troppo poco. Ora che anche chi ti ha osannato per anni – non sono tra costoro – comincia a nutrire dubbi su di te, caro Michel, ora che soltanto per questo, per spirito di sfida, ti difenderei a spada tratta, non posso che ricordarti, per onore di verità, che sei uno scrittore senza testa, che sei uno scrittore senza palle.
Affettuosamente,
Davide Brullo