“Ma dov’è l’uomo? Dove si è nascosto?”. Sia lode a Oblomov, un genio
Letterature
Livia Di Vona
Lo spunto di partenza è semplice: tra le tante e varie trasposizioni filmiche dei romanzi d’avventure di Emilio Salgari, quelle che più si avvicinano al tono epico-popolare dei libri non sono quelle direttamente tratte da quest’ultimi, bensì tutta la filmografia di Sergio Leone. La tesi potrebbe apparire paradossale, considerando che da un primo Corsaro nero del 1921 il cinema italiano ha riproposto le avventure dei personaggi salgariani più celebri (e non solo) in decine e decine di film e sceneggiati televisivi, tra cui resta memorabile, per incidenza popolare e di costume, il Sandokan anni ’70 di Sergio Sollima. Tuttavia, trascurati dalle grandi produzioni hollywoodiane che ne avrebbero permesso un adeguato dispiegamento tecnico-scenografico, i romanzi salgariani hanno avuto solo alcune pellicole dignitose ma mai straordinarie. Pur essendosene occupati brillanti artigiani del nostro cinema come Mario Soldati o Umberto Lenzi, lo spirito di pura e feroce avventura che sprigionano le dinamiche romanzesche di Salgari non è stato colto a pieno da questi.
E qui scatta il collegamento: chi più di tutti ha elevato a perizia artistica e stilistica il racconto popolare nel nostro cinema? Sergio Leone, ovviamente. Dunque perché non indagare le possibili simmetrie tra il più importante scrittore popolare italiano e il più importante regista popolare italiano?
Recentemente sono usciti due contributi critici molto approfonditi ed esaurienti sull’opera di Leone. Il primo è la biografia-disanima di Marcello Garofalo Il cinema è mito. Vita e film di Sergio Leone (minimum fax), il secondo è il volume curato da Gian Luca Farinelli e Christopher Frayling La rivoluzione. Sergio Leone (Cineteca di Bologna). Entrambi si soffermano sul retroterra culturale da cui viene Leone, ancor prime che sulle tantissime fonti del suo cinema. Ed è in questa linea che ci piacerebbe proporre alcune note di orientamento.
Perché se l’operazione di individuare le citazioni pare a un certo punto oziosa, tanto più in quello che è considerato il primo regista apertamente post-moderno, risulta ben più stimolante indagare i modi e le forme della narrazione in un’ottica di “approccio” al nostro immaginario. Su questo terreno Salgari e Leone, che non ha mai espresso un’opinione sullo scrittore veronese, sono proficuamente accostabili al di là di una aperta filogenesi. Sì, perché se le fonti letterarie ammesse da Leone sono soprattutto americane, non può essere senza ragione che un ragazzo italiano fino agli anni ’60 sognasse la Malesia e i Caraibi attraverso le pagine salgariane e poi continuasse a farlo verso il West con Leone. Una sommaria analisi di punti affini tra i due autori non è quindi inutile per capire come ha funzionato l’orizzonte di attesa e ricezione dell’immaginario collettivo. Scoprendo magari come alcune idee e motivi avessero bisogno di passare per la fantasia di uno come Salgari prima di essere manipolate da uno come Leone.
Sono tre gli aspetti che mi sembrano ideali per il parallelismo: trattamento della violenza, statuto del personaggio e dimensione spazio-temporale del racconto.
Come ha acutamente osservato Umberto Eco, «Leone rivisita il West come Ariosto rivisita il Medioevo». Gli eroi e le dinamiche socioculturali del western classico hollywoodiano sono trasformati in teatro di pupi, in irresistibili marionette che lottano e si ammazzano con la stessa scioltezza con cui Orlando (furioso) «uno ne piglia, e del capo lo scema/con la facilità che torria alcuno/da l’arbor pome, o vago fior del pruno». E un aspetto essenziale di questa rivisitazione è proprio la violenza. Se prendiamo anche uno dei più crudi western di Ford, Il massacro di Forte Apache ad esempio, non sarà mai lontanamente paragonabile al profluvio di dettagli, focalizzazioni e inquadrature sanguinolente cui Leone ci ha abituato. A partire da Per un pugno di dollari ma con picchi più marcati qua e là, come la scena dei corpi degli innocenti ammucchiati nelle grotte in Giù la testa. La resa della violenza si sposta qui dall’allusione stilizzata a un realismo che non tarderà a farsi maniera e quindi iperrealismo, anche grazie ad attenti discepoli leoniani come Peckinpah e Tarantino. Ed è come antenato di quest’ultimo che Ernesto Ferrero ha giocosamente citato, in un’intervista di qualche anno fa, il nostro Salgari. Ma basterebbe restare in Italia e a più stretto giro di tempo per capire come ad avere sulla carta quell’unico e popolare antecedente sia la violenza portata per la prima volta sullo schermo da Leone.
Si prenda questo passo, dove viene descritto cosa resta nel forte di Maracaybo dopo l’assalto del Corsaro nero e dei suoi amici: “Vi erano mucchi di morti dovunque, orribilmente deformati da colpi di sciabola e di spada, e colle braccia tronche, o coi petti squarciati, o col cranio spaccato, orrende ferite dalle quali sfuggivano ancora getti di sangue che correvano giù per gli spalti o per le gradinate delle casematte, formando delle pozze esalanti acri odori. Si vedevano alcuni che avevano ancora conficcate nelle carni le armi che li avevano spenti; altri che stringevano ancora gli avversari, coi denti confitti nella gola di questo o di quello ed altri ancora che stringevano, con un ultimo spasimo, la spada o la sciabola che li aveva vendicati”.
E questo è solo uno dei tanti esempi di pulp salgariano, così caratteristici da averne suggerito una vera e propria raccolta in un gustoso (per chi ne ha gusto) Suppliziario salgariano (a cura di Santi Urso, Zandonai editore, 2011). Le scene di battaglie collettive e singoli duelli sono sempre tratteggiate con una particolare attenzione al dettaglio violento e spesso macabro, alla piena visibilità dell’azione. Esattamente come farà Leone con le sue sparatorie e i suoi massacri, Salgari per primo valorizza all’eccesso quell’attrazione della violenza che sarà tipica di ogni racconto popolare del ’900 e che è da sempre insita nell’orizzonte antropologico di attesa di chi ascolta storie, da Omero a Game of Thrones. Lo fa inoltre con un trasporto infantile e una facilità di ritmo che mai si erano letti prima. Saranno le scene che, intrattabili da ogni tentativo di riscatto pedagogico, più impressioneranno i giovani lettori e rimarranno nella loro febbrile memoria.
Veniamo a come i due autori manovrano i loro personaggi, dai protagonisti ai secondari. La prima impressione è anche quella più giusta: siamo di fronte a marionette, a pupi, a «maschere di un balletto meccanico», come le chiama Emanuele Trevi. Prendendo un personaggio come Sandokan o Tremal-Naik, vediamo come ogni suo gesto o parola sarà sempre intonato all’eroico, all’assorbimento dello spessore psicologico nella definitiva e imperturbabile chiarezza dell’azione. Michele Mari accosta questi personaggi alla ferocia barbara della letteratura epica antica, ad Achille e Diomede, di cui Omero non sembra pensare mai nulla nella sua sublime indifferenza. Così Salgari, che tratta ogni suo personaggio, anche la minima comparsa, con la stessa indifferenza per la dimensione psicologica, artisticamente plasmata, optando sempre per una bidimensionalità manichea. Per cui se sembri buono sarai Il Buono, se sembri cattivo sarai Il Cattivo. Sotto questo aspetto appare quindi evidente come non ci sia alcuna differenza con i personaggi di Leone. In una conversazione del 1984 con Christopher Frayling il regista parla addirittura di mito, dei suoi film come «favole per adulti» e di Omero come il più grande scrittore western di sempre. Ammette anche la profonda influenza del teatro siciliano dei pupi, dichiarando che «in rapporto al cinema mi sentivo come un marionettista rispetto ai pupi». Questo vale anche nella scelta e nella direzione degli attori, per cui conta più la faccia e il rientrare in un “tipo” che l’immedesimazione e la tecnica. Clint Eastwood, Gian Maria Volontà, Lee Van Cleef, Eli Wallach, Charles Bronson, interpretano sempre lo stesso personaggio, che sia il misterioso pistolero senza nome, il cattivo spietato e senza scrupoli, il killer furbo e crudele o la simpatica canaglia. Come un fumetto di albo in albo o una scena di piazza in piazza, i personaggi di Leone mantengono la loro direzione narrativa per tutto il film e da un film all’altro, cambiando solo la sottigliezza degli intrecci e la raffinatezza della messa in scena. Nulla di diverso dai cicli dei pirati della Malesia o dei corsari delle Antille, i cui personaggi sono sempre gli stessi, rispondono agli stessi impulsi, ma in scenari diversi. E se i personaggi di Leone rispondo all’appello di nomignoli quali Armonica, Biondo, Acquasanta, Monco, così quelli di Salgari sono Tigre della Malesia, Perla di Labuan, Corsaro nero, Testa di pietra. A volte anche lo stile delle battute salgariane, generalmente impostato sul tono melodrammatico, ha quel sapore sferzante e sentenzioso che sarà delle sceneggiature di Leone e Vincenzoni. Come, ad esempio, ne La regina dei Caraibi:
«Voi non conoscete il passaggio segreto». «Lo sapete bene voi». «Non ve lo indicherò, se prima non mi avrete giurato di lasciar in pace il duca di Wan Guld». «Ebbene, vediamo» disse il Corsaro con la voce stridula. Armò la pistola e puntandola sul vecchio, disse: «O tu ci guidi al passaggio segreto o io ti uccido: scegli!».
La dizione e il lessico salgariano sono molto vari e una delle sue principali fonti è il melodramma ottocentesco, vera lingua comune per la nuova Italia, diffusa anche a livello popolare. Questo ci porta all’ultimo aspetto del nostro parallelismo, cioè l’uso del tempo e dello spazio nel racconto, che deriva in buona parte proprio dalla tradizione dell’opera. Salgari è un figlio del teatro musicale, non solo per il linguaggio dei suoi personaggi o per le trame piene di vendette, amori impossibili, eroismo, sangue e sete di potere. Lo è anche e soprattutto per la concezione stessa del ritmo narrativo e quindi dei tempi del racconto. A parti di sospensione quasi serafica e sognante alterna scoppi di frenetica azione. Sullo sfondo di incipit scenografici e teatrali porta in scena i suoi personaggi: l’inizio de Le Tigri di Mompracem ne è un esempio lampante. La scrittura salgariana sostiene queste orchestrazioni narrative con una musicalità che è stata messa in luce da molti lettori, tra i quali non potrà non esserci stato anche il giovane Leone. E se il regista esprimerà sempre il suo disprezzo verso l’opera, ci sono pile di articoli da mezzo mondo che analizzano il rapporto tra i suoi film e il melodramma. Addirittura per il suo cinema si è coniata l’espressione horse opera, opere liriche con i cavalli. In questo senso la musica di Morricone è ovviamente centrale, al punto da nascere sempre prima del set e di essere continuamente riprodotta sul set, ma direi al punto da creare letteralmente il senso delle scene, con arie, recitativi e cori. I film di Leone, come i libri di Salgari, sono esecuzioni musicali che hanno fatto della dilatazione temporale il loro fulcro compositivo. Come certe alternanze salgariane di paesaggio-duello, così Leone ha ampliato i tempi della macchina da presa sulle cose intorno alla scena prima di focalizzarsi improvvisamente sui primi piani dei suoi personaggi. Celeberrimo resta l’inizio di C’era una volta il West, in cui passano dodici minuti di estenuante attesa prima che i pistoleri, non capendo bene se il loro uomo sia sceso o meno dal treno, vengano colpiti da Bronson. Qui è d’obbligo notare come l’ironia sia un aspetto saliente che differenzia il melodramma da Leone, una qualità da lui sempre rivendicata e che manca totalmente anche a Salgari (in questo più fedele alla tradizione dell’opera seria).
Al termine di questo breve raffronto, possiamo quindi aggiungere ai tanti meriti non riconosciuti di Salgari quello di aver spinto il modo di raccontare le storie verso una modernità che è in parte già la nostra. Il cinema di Sergio Leone, forse debitore per vie indirette e nascoste, ha portato questa spinta a un compimento e a una efficacia dall’impatto globale. Entrambi hanno lavorato in modo simile con i sogni e le fibre più istintive del nostro immaginario.
Filippo Reina