Rapportando il nome di Pier Paolo Pasolini alla città di Ostia fatalmente balzano alla memoria la buia notte del novembre 1975, l’idroscalo, il corpo martoriato, il fango. Pasolini e Ostia, ciononostante, non devono essere accomunati soltanto da questo, sarebbe ingiusto, nonché immeritevole. Dietro l’imponente sagoma della morte si intrecciano, invece, legami più artistici e meno sanguinosi; semi germogliati sull’asfalto di una terra cambiata bruscamente assieme all’Italia. Tra le spiagge e le strade di Ostia si ritrovano le impronte di Pasolini stesso e le orme artistiche dei suoi “apostoli”, per così dire; di chi ne ha tramandato parole e riflessioni.
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Sergio Citti ne è forse il segno più chiaro, il seme più rigoglioso, l’imbianchino di Pietralata, il ragazzo di borgata conosciuto nei primi anni Cinquanta, divenuto prima amico, poi “dizionario vivente di romanesco”, infine sceneggiatore, regista, alle volte persino attore. Proprio Citti stenderà, assieme al Maestro, il soggetto e la sceneggiatura di Ostia, pellicola del 1970 che descrive le avventure di Rabbino e Bandiera, due fratelli costretti a mille sotterfugi, ruberie, violenze pur di sopravvivere alla ferocia del mondo. Nel cast lavorano numerosi nomi dell’universo pasoliniano. Nel ruolo di Rabbino, Franco Citti, fratello minore di Sergio, ma anche “maschera” pasoliniana per eccellenza, capace di vestire i panni di un magnaccia in Accattone (1961) e in Mamma Roma (1962), di un parricida in Edipo Re (1967), di un cannibale in Porcile (1969), di Ser Ciappelletto nel Decameron (1971), di Satana nei Racconti di Canterbury (1972), di un demone Nel Fiore delle Mille e una notte (1974). Ricopre la parte di Bandiera, invece, Laurent Terzieff, francese dal volto scavato e dallo sguardo duro, attore utilizzato in Medea per il mitologico centauro Chirone.
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In Ostia, film ambientato sul finire degli anni Sessanta, i due fratelli sono figli di un padre ubriacone e di una madre beghina. Provengono dal più basso sottoproletariato urbano e un giorno, dopo l’ennesimo furto, incontrano una ragazza addormentata su un prato di nome Monica. La giovane, interpretata dalla svedese Anita Sanders, che apparirà anche nei Racconti di Canterbury, viene accolta nella loro baracca e trattata con inatteso affetto. Ben presto tra i tre s’instaura un rapporto intimo, un legame privato che cresce fino a raggiungere un drammatico epilogo tra galera e gelosie. Completano il cartellone: l’onnipresente Ninetto Davoli nelle vesti di Fiorino, ma anche Lamberto Maggiorani, padre di Monica, protagonista del Neorealismo in Ladri di biciclette e interprete in Mamma Roma. Il montaggio della pellicola, inoltre, è affidato alla tecnica di Nino Baragli, già collaboratore in Accattone, Uccellacci e uccellini e, più tardi, in Salò o le 120 giornate di Sodoma.
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La sceneggiatura di Ostia, prima opera da regista di Sergio Citti, esula dalle consuete logiche cinematografiche e lo stesso autore ne ricorda la genesi: «Ostia è stato un fatto così, di voglia di fare un film, da quando Pier Paolo mi fece capire che il cinema lo potevano fa’ tutti, a patto che uno abbia veramente bisogno di dire una cosa. Questo fatto mi fece scattare l’idea di pensare una storia pure io, e ne scrissi tante, più di sette, e tra queste mi venne una storia, chiamiamola semplice, come Ostia. […] Mi venne in mente sta’ storia, ed è chiaro che ho ambientato Ostia, nel mondo che conoscevo di più, in un mondo di borgata, in un mondo di poveri. Due ladruncoli e ’na mignotta, ma c’è stato un momento che volevo fosse la storia di due fratelli ricchi ricchi ricchi. Puoi sostenerlo come film, però ricordandomi che Pier Paolo diceva: “No, ’na cosa che hai bisogno di dire dilla come la sai dire”, e allora è nato Ostia». All’uscita nelle sale il film viene biasimato, non completamente compreso, genericamente catalogato, snobbato da una certa critica. L’intellettuale friulano, armato della penna e della solita prontezza, si erge affermando come nel cinema italiano non fosse mai accaduto che un regista provenisse direttamente dal mondo popolare, semmai da quello operaio. Perciò Ostia può considerarsi un «caso anche rispetto ai casi», poiché normalmente chi proveniva da simili strati sociali sbrigativamente veniva etichettato dalla critica nostrana come un naif, ovvero un dilettante dotato di talento. Simile retorica classista, prosegue il poeta di Casarsa, non può applicarsi a Citti che, invece, costruisce il personale sforzo cinematografico raccontando, con ironia assolutamente non borghese, intense esperienze simboliche e autobiografiche. Una forma espressiva pertinente, riscontrabile nella trama, nel comportamento dei personaggi e nella visione metafisica del maligno, nonché sempre distante dalle consuete deformazioni spiritualistiche borghesi. «Citti non è dunque un naif perché è del tutto cosciente della sua operazione formale» conclude Pasolini «porta da un mondo sottoproletario imparlabile dalla cultura borghese, alcuni lacerti di sentimenti allo stato puro e ciò getta sulla sua opera una luce sconosciuta, di mistero non cercato. Dà nel tempo stesso all’opera una completezza e un’esaustività di quel certo reale che vuole esprimere, come ben raramente succede nei migliori film d’autore». Una dichiarazione stentorea, che scaccia ombre pericolose e ne spiega concettualmente le essenze.
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A sette anni dall’esordio, quando l’intellettuale riposava già nel cimitero di Casarsa, Citti dirigerà un’altra pellicola intitolata Il Casotto, ambientata tra le dune di Ostia e impreziosita da grandi attori come: Tognazzi, Melato, Proietti, Stoppa, Placido e gli immancabili Citti e Davoli. Soggetto e sceneggiatura firmate a quattro mani con lo scrittore Vincenzo Cerami, seguace, anzi alunno pasoliniano. Un lavoro cinematografico più consapevole di un Citti che, raccontando il proprio cammino artistico, afferma: «Non voglio fare dei film, ma delle pellicole. Il film è congegnato, voluto, la pellicola è immediata. Come Umberto D., uno dei film che mi ha spinto a fare il cinema. Le storie più semplici, quelle che nessuno se ne accorge, quello è il cinema, non lo spettacolo: sono i momenti in cui nemmeno ce ne accorgiamo che invece siamo vivi. Quando ho visto Umberto D. ho capito che quelle sono le storie giuste, non Via col vento, che non sono mai riuscito a vedere fino in fondo».
Il ragazzo nato in borgata, tra i più aulenti fiori del giardino pasoliniano, collezionerà dodici film, l’ultimo datato 2005, stesso anno in cui il cuore lo tradirà proprio a Ostia, lì dove oggi è sepolto. Sergio Citti resta il cantore del rapporto con quella realtà che Pasolini non ha avuto il tempo di indagare, una testimonianza concreta, una volontà precisa. Un’eredità raccolta da Claudio Caligari che con Amore tossico (1983), L’odore della notte (1998) e Non essere cattivo (2015) prosegue il racconto dell’ultimo mondo pasoliniano. Un altro seme caduto dalle mani del Maestro.
Dario Pontuale
*In copertina: Pier Paolo Pasolini tra Ninetto Davoli e Franco Citti, fratello di Sergio
*Dario Pontuale (Roma, 1978), scrittore e critico letterario, è autore della biografia critica Il baule di Conrad (Nutrimenti, 2015; Éditions Zeraq, 2015), del dizionario urbano La Roma di Pasolini (Nova Delphi, 2017, Premio Carver 2019) e delle raccolte di saggi Ciak si legge (Ianieri, 2017) e Una tranquilla repubblica libresca (Ensemble, 2017). Nel 2018 ha pubblicato, per i tipi di CartaCanta Editore, il romanzo Certi ricordi non tornano, Premio Editoria di qualità alla Fiera della Microeditoria di Chiari, finalista al Premio Rieti 2018 e Premio miglior romanzo alla IV Edizione del concorso Librinfestival. Ha curato, tra le altre, edizioni critiche di Flaubert, Maupassant, Zola, Musil, Stevenson, Defoe, Melville, London, Conrad, Svevo, Salgari, Tolstoj, Puškin e Čechov. Nel 2018 fonda con Paolo Di Paolo la rivista semestrale «Passaporto Nansen» ed è condirettore della storica rivista salgariana «Il Corsaro Nero». Il suo sito internet è: https://www.stradariopontuale.com