La poesia dello scrittore persiano Sohrab Sepehri viene considerata come la più innovativa dell’Iran contemporaneo e occupa un ruolo di assoluta originalità nel panorama letterario internazionale. Il “metodo pittorico delle sue rappresentazioni” va interpretato in base agli spazi espressivi che caratterizzano gli onirici territori persiani: luoghi in cui si magnificano sovrapposizioni di terre e minerali che ci appaiono sempre in meravigliosa armonia. La composizione degli elementi infatti diviene immanente in natura: la sensazione è di ritrovarsi in un’epoca altra, una visione di un mondo mitico che rimane intatto sotto una volta di vetro soffiato e risponde a quei caratteri propri di un’estetica neoplatonica, angelicata e devota alle costellazioni, caratterizzante a pieno titolo la coscienza culturale e religiosa dei persiani.
L’Iran appare al viaggiatore nei suoi bagliori, in quelle luci e “visioni” sprofondate nei paesaggi che si esprimono soprattutto nella varietà e nella differenziazione dei colori e degli habitat. Laddove l’uomo non ha eroso e non ha intaccato con spirito famelico, come invece è avvenuto nella capitale Teheran e in altre città storicamente e geograficamente importanti, i cosiddetti spazi del “non/dove” si susseguono e ci smarriscono in labirinti da cui è difficile uscirne: l’immoto che cambia, il luminoso velato ma appagante, la nuvola perduta e unica nel cielo terso e muto, la corteccia dei tronchi con le metamorfosi sotto i raggi fulgenti del mattino, l’improvvisazione visiva di elementi in paesaggi millenari che ci appaiono pietrificati: in un istante si evolvono quasi incomprensibilmente in archetipi partoriti dalla ancestrale immaginazione tipica persiana, concretizzandosi nel movimento circolare delle miniature:
“Quale soavità versa la luce nella coppa ramata! La scala, dalla cima del muro, trascina il mattino sulla terra. Tutto velato dietro un sorriso. Muri del tempo hanno una ferita, dove si intravede il mio volto. Ci sono cose che non so”.
Traduzione di Gianroberto Scarcia e Riccardo Zipoli. Tratto da: Riccardo Zipoli, Un giardino nella voce, Persia, 1972-1994. Angelo Pontecorboli Editore, Firenze, 1995
Incanto delle luci che plasmano e modellano incessantemente, che sia acqua o roccia, che sia albero o collina, il tutto si riduce all’intimo e delicato segreto di un luogo segreto. La luce è il riferimento filosofico e religioso dell’antica Persia, scintillante di ricchezze e civiltà mai spente, neppure dalla notte dei tempi e dalla insana voracità distruttrice dei barbari invasori. Sepehri è costante nei suoi scritti poetici ma sempre nuovo, nel solco di una eterna condizione bidimensionale, dove si intrecciano poesia e musica, pittura e danza, immanenza e trascendenza. Una poetica profondissima con rappresentazioni delicate che ci riportano, in qualche modo, a certe descrizioni del naturale intriso di trascendenza talvolta illeggibile, come accade in Montale, con le doverose differenziazioni, quando afferma «non chiederci la parola», nel tentativo di trovare immagini espressive della precarietà sia linguistica che esistenziale.
Non da meno, mi sembra azzardato pensare a Ezra Pound, leggendo le poesie di questo artista, quando, quasi alla stregua di un rito purificatorio nel periodo in cui si avvicina a una certa “sapienza orientale”, racconta l’impossibilità di cogliere l’assoluto mediante la descrizione di “logoi” antitetici e inconciliabili. Nulla è perduto in questo mondo di assurde atrocità, dal Cilindro di Ciro esempio maestoso di una cultura tanto ramificata in cielo quanto radicata nelle profonde viscere della terra, alle oscene catastrofi umanitarie di questi giorni in cui un popolo di così antica genesi si trova a subire per opera di un potere irriconoscibile, quanto orribile nella negazione della propria storia artistica.
Sepehri fu infaticabile viaggiatore in tutto il mondo, un “viandante” che nel 1964 si recava in Pakistan e India per rimanerci lungamente. Fu in quei luoghi mistici, in particolare in India, dove il poeta si avvicina alle pratiche buddiste e induiste. Sepehri era figlio di un “daftari”, un impiegato della “Indo-European Telegraph” e, nel contempo, artigiano e costruttore dei tradizionali flauti persiani: il tar. Questo strumento fu molto amato negli ambienti mistico-sufi (corrente religiosa e culturale nata da una costola dello sciismo duodecimano e decisiva per i contributi letterari e filosofici all’interno delle opere dei maggiori interpreti della cultura persiana).
Nato nel 1928, a Kashan (splendida oasi ai margini della strada che porta da Qom a Kerman, al confine dei grandi deserti centrali dell’Iran), si dedicò da subito agli studi artistici presso l’Accademia di Belle Arti di Teheran e, successivamente, a Parigi, partecipando come pittore a varie biennali, fra cui una tenutasi a Venezia. Il poeta fu uomo solitario, schivo e silente: si tenne lontano da questioni che riguardavano la sfera politica, il conflitto insistente e spesso drammatico che permeava la instabile società iraniana e che avrebbe portato, inesorabilmente, alla deriva islamica e khomeinista. Proprio nel 1979 avvennero i fatti drammatici di quella rivoluzione che ancora oggi produce mostri e torturatori, mentre il poeta si spegneva a Teheran colpito da una grave forma di leucemia. Quanto oggi sia importante Sepehri lo dimostra uno dei film più belli del cineasta Abbas Kiarostami, che si ispira a una poesia del poeta: “Dov’è la casa del mio amico”, vale la pena riportare un passo tratto dalle traduzioni di Gianroberto Scarcia e Riccardo Zipoli:
“Seguirai sino in fondo quel sentiero che pubertà esaurisce, poi verso il fiore della solitudine, e, a due passi dal fiore, sosterai a zampillo perenne di fiaba terrena in diafana paura. E nell’intimità fluida di spazio, un fruscio sentirai, vedrai un fanciullo che, sopra un alto abete, raccoglierà un piccolo implume dal nido della luce. Chiederai a lui dove l’amico ha sua dimora”.
Sohrab Sepehri nasceva come poeta dell’avanguardia persiana, rappresentando agli esordi una notevole asimmetria con i canoni, solenni e inflessibili, della tradizione poetica persiana. Distanziatosi anche da questa dimensione stilistica, egli approdava a uno stile personalissimo intriso di mistica e non immune da influenze del patrimonio culturale dell’estremo oriente, dove uno degli elementi principali è la lettura del rapporto tra uomo e natura nella loro dimensione esistenziale e religiosa.
Le principali opere escono a partire dal 1951 quando il poeta pubblica Marg-rang (La morte del colore) e, nel 1953, la raccolta Zendeghi-ye khabha (La vita dei sogni). Due sono le sillogi poetiche del 1961: Avar-e aftab (Le macerie del sole), e Shaq-e anduh (L’oriente del dolore). Nel 1965 e nel 1966, la pubblicazione di opere che gli conferiscono fama e notorietà indelebili: Seda-ye pay-e ab (Il rumore dei passi dell’acqua) e Mosafer (Il viaggiatore). Nel 1967 la raccolta più famosa e matura: Hajm-e sabz (La massa verde). Ultime e importanti sillogi prima della sua morte sono: Hasht ketob (Otto libri) e Ma hich, ma negah (Noi niente, noi sguardo). Sepehri lascia un segno inconfondibile nei lettori: suscita delicata nostalgia e profondissimo senso dell’umano che è ricerca in tutte le cose, talvolta anche turbamento nella ineluttabile immanenza della natura, forse anche sublimazione verso il mistico valore dell’amore e dell’amicizia.
L’inquietudine di questo poeta, dunque, si riscontra in parole soavi, come in Albore dove, attraverso metafore inimitabili egli dipinge con le parole, sublimando il suo talento di pittore:
“Un balzo del cigno dal tempo del sonno la polvere dell’indaco notturno da candore d’alato piumaggio in spazi remoti deterge, e il niveo sussurro dell’alveo straripa. Una corsa, un intarsio scambievole d’ombre e di raggi: s’insinua in raccolto cinereo immacolato bagliore di fuoco notturno. Con l’esile passo di danza che muove il canneto, dischiude l’occhio d’argenteo umidore lo stagno. Una luce d’ebano nero, fermaglio di platino al buio. Si sgretola il muro dell’ombra, e disegna l’orizzonte lontano in biancore supremo di marmi artefice mano di sguardo”.
Ricercato nella scrittura Sepehri ha rinnovato nei critici la convinzione che le sue liriche fossero connotate dallo “stile indiano”, tipico dei secoli XVI e XVII, dove le elaborazioni concettuali ben si innestavano in seno alla poesia classica persiana. Sarebbe riduttivo, tuttavia, ricondurre la poetica dell’autore in una sola fonte immaginativa e descrittiva, sia per l’originale potenza narrativa dei luoghi, sia per il vortice di sensazioni che suscita nel lettore con espressioni talvolta surreali. La terra della luce, quella Persia degli attraversamenti e delle vie che connettono i mondi antichi e quelli più recenti, si denota anche per ambienti minimi, appena rappresentati da poche pennellate:
“Il portico è vuoto, e il giardino trabocca del ricordo di chi viaggia. Nella valle del sole, hai su la testa: accanto al tuo cuscino, il salice ombroso è caduto. Lontano, dall’altra parte sei dei tulipani. Dov’è l’ombra di un sorriso che passi lo stupore dei cespugli?”
E nella bellezza liberatrice e salvifica vale lo sguardo degli uomini, disillusi, trasformati dall’odio e, soprattutto, dall’amore che sboccia ai bordi del deserto come un croco che dura solo un giorno. Il buio è quello del vento e la luce traccia il colore nell’incommensurabile opera del mondo: che esista un Dio? Inutile sembra il cammino, il sentiero fra i sali e i sassi del vagabondaggio, unico moto benefico in un esistere senza più senso:
“Sei solo in qual spettacolo? Di luce, sopra, il fiore di un giorno, sotto, il buio del vento. Non sorvegliare inutilmente, notte non si versa dai rami e l’uscio stretto di Dio non fa più luce. Dalle foglie del cielo, volerà, la rugiada delle stelle. Rimarrai tu e un’angoscia grande, colonne dello sguardo, edera del dolore. Non sorvegliare inutilmente, e levati, ché fantasia di fiore ha reso notte la terra. Tu in cammino mettiti ché vagabondar di pesci ha lasciato da sé scia di dolore. Ascolta il grillo: mondo triste, e un Dio che non c’è e c’è e un Dio che poi… È tardi, senti questo dolore e va’, e dritto in faccia guarda un altro sogno di bellezza, guarda!”
Eppure qualcosa rimane, nelle mani spoglie degli uomini, fra lo scintillio di un fuoco antichissimo, sfavillante, dalla zoroastriana notte dei tempi, nei cuori dei mitici antenati dei persiani, fieri oppositori delle tenebre, di ieri e di oggi: l’amicizia, così ineludibile e intoccabile:
“Se vieni a trovarmi vieni lentamente e con gentilezza per non spezzare la fragile porcellana della mia solitudine”.