“Cominciare con la sensazione d’esotismo. Terreno solido e fuggevole. Evitare ciò che contiene di banale: palma da cocco e cammello. Passare al buon sapore. Non provare a descriverlo, ma indicarlo a quanti siano capaci di degustarlo con ebrezza…”. Così si aprono alcune considerazioni di Victor Segalen intorno al concetto d’esotismo. Un uomo che sapeva di cosa parlava, o perlomeno di cosa volesse parlare, avendo vissuto il grande mondo in una carambola esistenziale composta da numerosi viaggi, lunghi soggiorni e varie spedizioni in Cina e in Polinesia.
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Classe 1878, nato a Brest e dunque bretone (come quel diavolo anemico di Corbière – spentosi tre anni prima), medico della marina francese, viaggiatore, etnologo, archeologo, sinologo, scrittore, poeta (e soprattutto poeta in prosa – come in quella selvaggia, lussuriosa fioritura d’immagini che è il René Leys), Segalen finì i suoi giorni non lontano dal luogo dove, quarantuno anni prima, li aveva cominciati. Il faut voyager loin en aimant sa maison, bisogna viaggiare lontano amando la propria casa – e la casa amata, il luogo natale e insieme fatale di questa esistenza votata al viaggio, all’ebbra degustazione dell’altro e del diverso, è simbolicamente Finisterre – la fine della terra del mondo classico.
Queste informazioni, insieme ad altri illuminanti ragguagli sulla vita dell’uomo e del poeta, sono delineate nell’elegante prefazione di Federico Pietrobelli, traduttore di alcune opere di Segalen ora disponibili in Preghiera Orientale (edito per i tipi de Il Saggiatore, 2019, con postfazione di G. Agamben) dove esse compaiono in edizione bilingue.
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La scelta del traduttore si è concentrata su Odes – testi di sapore, per tornare alle note sull’esotismo, cinese – e sul poema postumo intitolato Thibet. Ora occorre sapere che Segalen effettivamente visse e attraversò la Cina in due lunghe spedizioni archeologiche, ma che al contrario non ebbe mai esperienza diretta del Tibet. Due volte fu sul punto di varcarne i confini, e due volte fu costretto a rinunciarvi: la prima per il fatidico ripresentarsi del général hiver a molte miglia dalla Russia, tra il massiccio tibetano a oltre tremila metri d’altezza; la seconda per uno spettrale corriere uscito dalla bruma dell’Himalaya, recante una lettera che annunciava al medico francese (lì in veste d’archeologo) l’esplodere della guerra nella sua Europa.
Segalen ricostruì e compose il suo Tibet poetico in una sorta di entusiasmo de lohn platonico-salgariano – in cui a esperienze e meditazioni personali si fondevano studi eruditi, opere altrui, colloqui, conoscenze varie. Decisiva, in questo senso, la traduzione di un raro manoscritto tibetano da parte di Gustave-Charles Touissant, appassionato del Tibet con cui Segalen ebbe modo di intrattenersi in letture e conversazioni. Versi e sequenze di versi, quelli di Thibet, il cui nocciolo o nucleo profondo è il presagio della distruzione, del venir meno del diverso – come puntualmente messo in luce da Pietrobelli isolando un frammento dalla sequenza LVI: “[…] quando tutti i tuoi monaci saranno morti; quando il Diverso sarà frantumato”. Termine chiave, quello di divers, che pure torna in un altro tentativo di definizione dell’esotismo, descritto appunto da Segalen come “[…] il sentimento che abbiamo del diverso”.
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E certo l’opera di Segalen può considerarsi come un ininterrotto tentativo di rendere questo sentimento del diverso, di rendere un certo sapore di modo che sia degustabile con ebrezza. Insieme a Paul Claudel (di cui fu amico) e a Saint-John Perse (suo futuro lettore), Segalen forma la triade francese degli inventori dell’oriente – traslando un’espressione impiegata da Eliot per omaggiare l’opera di Pound. Resta vero che, posto accanto ad altri autori, Segalen può apparirci un po’ gracile. Lo si direbbe un peso minimo – lo si direbbe sempre in pericolo di volatilizzarsi, come il Perelà di Palazzeschi o una mongolfiera senza le dovute zavorre. Egli non è un Pound, autore che compone Cathay senza aver mai messo piede in Cina, ma avendo alle spalle The Spirit of Romance e tra le mani un saggio di Fenollosa sui caratteri cinesi come mezzo di poesia. Egli resta piuttosto aereo, per così dire – ma è proprio in questa sua leggerezza, in questa sua toccante confidenza nel consegnarsi in balia dei venti che consiste la sua nota più propria, la sua personalissima e insieme impersonale voce – quasi crocicchio d’indefinite echi. Per questo mi sembra che alcuni dei versi più forti e riusciti delle Odes siano quelli che leggiamo nelle prime strofe del Vent des Royaumes, drammatizzazione della fatidica e commovente impotenza umana, della struggente levità di ogni attimo e presente posto di fronte al tragico peso del passato. E sempre per questo, mi pare invece che quanto scalpiti per trovare espressione in Extase resti per Segalen un traguardo troppo ambizioso – perché qualsiasi ek-stasis richiede comunque un centro e perché qui ci vuole il peso, ci vuole il tratto sicuro che scava e incide e che delinea – fosse anche un distico di apparente levità come il celebre elle est retrouvé / quoi? L’éternité.
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Due le scelte principali effettuate da Segalen in Odes per “indicare il sapore” e non limitarsi semplicisticamente a “[…] parlare cinese in francese”: il fatto di accompagnare le poesie con un commento in prosa (ciò che richiama una prassi ben nota fin dagli albori della poesia europea, ampiamente attuata dal nostro Dante) e la scelta di impostare gli alessandrini “[…] su dei ritmi cinesi 5 + 7”. Cosa di cui occorre tener conto, quest’ultima, soprattutto se si legge l’originale con un orecchio sintonizzato sugli alessandrini più canonici – altrimenti si rischia di perdere del tutto il soffio delle Odes e pensare di avere a che fare con un francese che non ha letto Boileau. Non me la sento davvero di dilungarmi sulle sequenze di Thibet – esse vanno semplicemente lette e lasciate risuonare.
Sento invece di volermi dilungare sul traduttore: e questo non solo perché, come ho avuto modo di evincere fin dai primi minuti delle nostre passate conversazioni parigine, Federico Pietrobelli dimostri di essersi sottoposto per anni e anni a una dieta spirituale magnificamente diversificata (e felicemente integrata con cospicue dosi di testi filosofici), ma anche e soprattutto perché non ha evitato la Scilla del conformismo imperii al costo di andare a sbattere il muso nella Cariddi dell’anticonformismo ad usum imperii – il quale, nelle sue varie salse, fa pensare non tanto a Cariddi, quanto piuttosto a un arcipelago di isole e isolotti più simile alle Simplegadi, sempre per restare sul repertorio metaforico del mondo greco. Oltre a questo, Pietrobelli è poeta – e poeta che almeno da qualche anno si è concesso quelle sole armi che Joyce, nel finale del suo Portrait, concede agli artisti – ovvero silence, exile, cunning (silenzio, esilio, astuzia).
In un’epoca in cui, a furia di assidue e supine genuflessioncelle alle modalità dei social, il motto latino del fit fabricando sembra ormai definitivamente convertito (o pervertito) nello spettacolare fit postando faber, in cui la vita di un nuovo Prufrock si misurerebbe con like-spoons, sapere che un giovane di lingua italiana si impegna nella ricerca espressiva e che per venire a ciò studia quanto può, nutrendosi sia di classici che d’eretici della letteratura e della filosofia, dedicando parte del suo tempo a tradurre Rilke e Perse, a leggersi Benn, Eckhart, Boezio e la Campo nel silenzio e l’esilio della sua officina, beh… tutto questo fa piacere.
Francesco Zevio