Nessuno sa maneggiare i soldi (letterariamente parlando) come Sebastiano Nata. Nessuno come lui sa farne sopportare l’indispensabile presenza, nessuno come lui sa farne intuire la consistenza oltre ogni morale. Forse perché Nata ha lavorato a lungo per un grande istituto di carte di credito, mettendo a frutto quella straordinaria esperienza personale nel capolavoro che fu (e continua a essere) Il dipendente: ovvero il suo folgorante esordio per Theoria Edizioni, l’etichetta indipendente – fondata negli anni Ottanta da Severino Cesari e Paolo Repetti – che fece esordire i più grandi scrittori italiani di oggi (una audacia culturale che nulla ha a che vedere con la rifondazione della casa editrice avvenuta invece pochi anni fa). Dicevamo dell’inconsueta capacità di Sebastiano Nata di scrivere di soldi, di parlarne – come uomo e come scrittore – senza provare vergogna, senza farlo sembrare a ogni costo un argomento scomodo, sudicio, scivoloso. Forse perché Nata conosce i rivoli della sua utilità, la perversa attrazione che anche i più grandi autori universali hanno provato a dissimulare, a nascondere (persino Il giocatore di Fëdor Dostoevskij mescola la febbre del denaro con quella del vizio, confondendo una nell’altra e soffocando l’adorazione dei soldi che quasi sempre è alla base delle dipendenze). Invece Sebastiano Nata è sempre molto coraggioso, quando scrive di soldi e soprattutto quando parla del loro peso sulle nostre vite, sulle nostre scelte. E lo fa da par suo anche in Memorie di un infedele (Bompiani, 2023), in cui affronta anche la classe sociale da cui proviene e da cui non prende le distanze pur mettendone sotto processo i limiti di umanità: la borghesia.
Approfittando di una scrittura pacata, molto controllata, cadenzata, quasi vocata a un crescendo emozionale stilisticamente astuto (contrariamente alla furia narrativa contenuta soprattutto ne Il dipendente e La resistenza del nuotatore), Nata per almeno una sessantina di pagine – quelle iniziali – lavora ai fianchi del Lettore, poi comincia a chiamarlo direttamente in causa, a fargli prendere delle decisioni e farlo involontariamente parteggiare per qualcuno dei personaggi di questo romanzo che definirei di “sospensione” (soprattutto dai giudizi e dai pregiudizi).
«Quando la prospettiva di dovermi staccare dalla vita diventa concreta e ravvicinata, quello che mi succede è di sentire che poco m’importa anche delle persone a cui voglio più bene. È terribile».
L’autore non cerca comprensione, men che meno compassione, non ammicca a nessun pietismo – come spesso fanno certi romanzi che non hanno alcun altro scopo che farsi leggere, che noia, che barba, che noia… – e non s’impegna in alcuna sentenza, piuttosto si limita a scandire la crescita della coscienza critica del protagonista Tommaso Alfieri, che avviene dentro un memoir che in realtà è molto più che una confessione ma potrebbe tranquillamente contenere la fotografia dell’Italia, dagli anni Settanta ad oggi. La nostra istantanea dello sperpero.
«Ha fatto carriera, ha viaggiato per mezzo mondo, ha avuto donne audaci, ma di tutto questo pare che non gli sia rimasto nulla – recita la bandella di copertina del romanzo, che come tutte le bandelle dell’editoria contemporanea tende al ribasso, come se fossero tutte rivolte a un popolo di semianalfabeti –. (…) Per questo, abbandonato lo storytelling aziendale, racconta fiabe al nipotino Giovanni cullandosi nel tepore di un affetto incondizionato. Si commuove spesso, Tommaso, piange perfino di fronte a una statua, la Pietà Rondanini. Dentro una baracca di lamiere e cartone, fra le pagine di un libro di favole, ai piedi di un capolavoro del non finito “che ci ricorda che noi apparteniamo a un amore infinito” succede comunque qualcosa: Tommaso intravede la via per una rinascita, non importa quanto effimera».
Invece il libro è molto di più che una semplice tardo nostalgia di classe, il libro è una indagine sui mostri che abbiamo messo a tacere per far posto ad altri mostri, ben più mostruosi. L’infedeltà e il disfacimento al centro di molte delle recensioni già uscite per raccontare del nuovo romanzo di Sebastiano Nata, sono in realtà i binari su cui scorre parallelamente il declino di una generazione (quella del protagonista, e forse anche quella a cui appartiene lo stesso Nata), di una forma di società (quella borghese, che non esiste più) e soprattutto di un Paese (che di lì a poco avrebbe messo a processo la Prima e Seconda Repubblica, accogliendo con grandi speranze la Terza senza però sapere che sarebbe stata la peggiore di tutte). Ed ecco che lo sperpero di denaro diventa sperpero di sé stessi, del proprio onore, della propria dignità, dei propri sogni e delle proprie vergogne più profonde.
Memorie di un infedele è in realtà un romanzo sul distacco degli iceberg, sull’addio di una certa condizione – anche economica, soprattutto economica – di agio in favore di un orizzonte di profondo precariato, e quando si stacca l’iceberg della propria infedeltà la collisione genera un romanzo come questo, che parte piano piano ma arriva in bocca ai bagnanti come la calma di tutte le sciagure silenziose.
«A mio padre è sempre piaciuto comprare in maniera sfrenata, anche se poi ciò che acquistava finiva per non usarlo e lo dava a qualche parente. Cedeva a questa sua compulsione soprattutto a New York dove, accompagnato da Lorena, passava un paio di settimane all’anno per certi stage in un ospedale, il Memorial Hospital, che riteneva all’avanguardia in campo chirurgico. Nella Grande Mela riempiva valigie di t-shirt, felpe, golf, jeans, calzini, berretti, occhiali da sole, calcolatrici portatili, radioline, e quando a casa apriva i bagagli era una festa. Di solito a quel rito presiedeva una mia zia, moglie del fratello di papà, che si accaparrava quanta più roba possibile. Era convinto che una quota di quei beni voluttuari le fosse dovuta, e mio padre non protestava. Più si attingeva al flusso dei suoi regali, più lui era in grado di alimentarlo facendo nuovi acquisti».
Tutto questo insensato consumismo, questa sfrenata corsa all’inutile ma essenziale, ci è appartenuta. E adesso che il piano inclinato comincia a farci scivolare con maggiore frequenza, mettendoci di fronte alla nostra infedeltà etica (principalmente etica) la lettura di romanzi come quelli di Sebastiano Nata aiuta a capire quanto siamo stati fortunati nel toccare con mano tutto quell’oro e quanto siamo stati stupidi nel dissiparlo. Non è il solito discorso su cos’era meglio, se si stava bene prima con poco o adesso con tutto, ma si tratta di stabilire la nostra posizione dentro una confusione globale che sfugge solo alla politica ma per fortuna non agli uomini.
«Il perno della festa intorno a cui ruotavano molte delle dinamiche del nostro Natale, la calamità che segretamente attraeva l’attenzione di tutti, era il rapporto tra mio padre e donna Vittoria, le vere star dello spettacolo, che iniziava con il banchetto marchigiano e finiva a sera inoltrata. Anche da punti opposti della sala, si lanciavano occhiate di condiscendenza, come se uno possedesse la saggezza di Salomone e l’altro fosse un pazzo furioso. I battibecchi tra loro erano perle scintillanti».
Dov’è finita questa serenità? Dov’è adesso questa borghesia (che tanto odiavamo e abbiamo lottato per sopprimere, in cambio dell’uno vale uno… però, che salto nel vuoto)? E perché neghiamo di essergli appartenuti? E di essere stati anche felici, dentro la sua ipocrisia?