Credo sia importante dire subito che Seamus Heaney non ha sviluppato una teoria della traduzione. Piuttosto, e quasi sempre in risposta a precisa domanda, ha dato conto del proprio approccio alla pratica della traduzione letteraria – subito e sempre esperita come forma di scrittura creativa consustanziale a quella che per abitudine e per convenienza si definisce “originale”. In una delle poesie contenute nella sua seconda raccolta, Door into the Dark (1969), e intitolata “The Given Note”, SH descrive l’ispirazione come “nota ricevuta”: tutto è traduzione, quindi, e tutto diventa originale proprio in quanto ricevuto e reso.
Anche nel caso di lingue e letterature familiari e studiate, infatti, SH partiva sempre da traduzioni esistenti, preferibilmente in prosa e corredate da apparati critici, o da versioni letterali approntate per lui e anch’esse accompagnate, idealmente, da note esplicative. Una manifestazione letteraria, non ho dubbi, di quel tratto caratteriale, l’umiltà, che ha sempre accompagnato le scelte di vita e di scrittura di SH.
Detto questo, già dalle prime prove sui banchi di scuola e dagli esordi poetici negli anni dell’università, SH comprende l’unicità della traduzione come apprendistato e come rinnovamento: esperienza e a volte anche esperimento tanto più significativi quanto più legati a scelte stilistiche e a tracce tematiche allineate al proprio sentire e alla propria poetica – anche nel caso di testi tradotti su commissione e, di conseguenza, potenzialmente “distanti”.
Volendo a tutti i costi individuare “dietro” ai testi tradotti da SH una teoria della traduzione si possono fare i nomi di due scrittori, saggisti e traduttori statunitensi contemporanei perché è SH stesso a farli: Robert Hass (1941) ed Eliot Weinberger (1949). In Sounding Lines: The Art of Translating Poetry (2000), trascrizione di un dialogo poetico con Hass, SH indica due approcci alla traduzione: incursione (raid) e insediamento (settlement) – entrambi fertili e in certi casi complementari nel condurre a un vero e proprio “accasamento” del testo tradotto: on home ground, espressione che SH usa per descrivere le sue versioni pascoliane. Al netto, bisogna precisare, dell’inevitabile riverbero coloniale di termini come quelli: questione di cui SH era consapevole e che non intendeva riprendere se non come richiamo alla storia linguistica e culturale delle due Irlande che abitava e in cui sono radicati i temi, le storie e i registri della sua poetica. Nell’introduzione a The Testament of Cresseid & Seven Fables (2009), versione dal medio scozzese di Robert Henryson, SH cita esplicitamente le tre ragioni per tradurre addotte da Weinberger – termini che, traducendoli, avvicino alla mia esperienza della traduzione e in particolare della traduzione della poesia di SH: il patrocinio (advocacy) dell’opera tradotta; il rinnovamento (refreshment) prodotto dall’incontro con un linguaggio e una cultura diversi; le soddisfazioni (pleasures) che scaturiscono dallo scrivere “per procura”.
Ciò che accomuna queste disposizioni a tradurre può forse sembrare contradditorio ma non lo è: per SH l’efficacia della traduzione, come ho già detto, dipende dalla possibilità di integrarla alle corde della propria immaginazione e della propria espressività. Le osservazioni affidate in hora mortis alla nota del traduttore con cui SH accompagna il completamento della sua versione del Libro Sesto dell’Eneide lo confermano. Riflessioni che abbracciano non soltanto le traduzioni, tanto quelle da lui progettate quanto quelle commissionategli, ma tutta la scrittura di SH, in versi e in prosa. In altre parole, quando SH parla delle proprie traduzioni lo fa con la stessa ἐνέργεια e con la stessa Einfühlungsvermögencon cui parla dei propri versi; e come i suoi testi originali così anche le sue traduzioni rispecchiano i principi aquinàti di integritas, claritas, consonantia. SH li “eredita” esplicitamente da James Joyce dopo averli visti incarnati, sotto altre nomenclature, negli scritti di W.B. Yeats – il poeta che la critica evoca (e continua a evocare) come termine di confronto e di grandezza, ma che in termini di traduzione non giustifica accostamento alcuno (il rapporto con Sofocle e con l’Antigone unico metro, anzi centimetro, per avvicinarli…).
È quindi più corretto oltre che più utile cercare di comprendere le motivazioni delle scelte testuali e stilistiche di SH piuttosto che dedurre da esse un impianto teorico o, peggio, individuare in esse una conveniente giustificazione per procedere al confronto – sterile se non addirittura fuorviante nel caso di SH, ma di cui tanti non sanno fare a meno – tra testo originale e testo tradotto.
È con questo spirito che ho curato The Translations of Seamus Heaney (2022), volume che raccoglie tutte le traduzioni letterarie completate del poeta nordirlandese in quasi mezzo secolo di scrittura. Questa edizione, definitiva e commentata, dimostra quanto importante, potente e personale sia stato il ruolo della traduzione nell’immaginazione e nell’opera di SH. La consistenza, davvero unica, del suo quaderno di traduzioni dà conferma del fatto che tradurre sia stato per SH una forma di scrittura mai occasionale (anche quando possa sembrarlo) ma intrinsecamente e volutamente duratura – mi spingo a dire esistenziale e quindi programmatica, persino salvifica quando la malattia lascia dubbi e paure che le sue poesie «possano cessare di esistere». SH traduce già prima della pubblicazione del suo libro d’esordio, Death of Naturalist (1966), e traduce ancora dopo la pubblicazione della sua ultima raccolta, Human Chain (2010). Quando muore (2013), ha completato traduzioni dal francese, dall’irlandese, dall’italiano e dal latino.
Se la maggior parte delle traduzioni sono state pubblicate quando SH era in vita, alcune sono uscite dopo la sua morte; e se certe versioni sono apparse più volte, altre hanno invece visto la stampa soltanto una volta. E uno solo dei 101 testi tradotti, uno dei primi, era rimasto inedito. Intitolata “Prayer”, questa traduzione dal francese della sonettista spirituale Gabrielle de Coignard ci è giunta in forma di dattiloscritto in pulito rinvenuto tra le carte di SH custodite alla National Library of Ireland di Dublino. Non si può dire con certezza se SH avesse intenzione di apportare revisioni o se la ritenesse pronta per la pubblicazione. Ci sono però casi simili. SH pubblica “To a Wine Jar” – la traduzione, più o meno coeva, dal latino di Ovidio che apre il quaderno di traduzioni di SH, rinvenuta anch’essa in forma di dattiloscritto in pulito – trent’anni dopo averla redatta e senza revisione alcuna.
Siamo quindi di fronte a un corpus di testi tradotti compiuto e curato con grande consapevolezza autoriale. E anche se «nel caso della traduzione», con le sue parole, «è ancora più vero del solito che una poesia non è mai completata» ma «semplicemente abbandonata» – un esempio su tutti: quando SH pubblica per la prima volta The small bird, traduzione dall’anonimo testo irlandese Int én bec, lo fa all’interno di un saggio e senza il suo nome come traduttore, e negli anni la ritraduce e la reintitola – il quaderno di traduzioni di SH ha una inimmaginabile coesione e una sorprendente perfezione. Dai banchi di scuola al leggio di Stoccolma; dallo scriptorium dell’attico in città e da quello del cottage in campagna ai palcoscenici di Derry, Dublino, Londra e New York; in macchina, in autobus, in aereo o a passeggio; di decennio in decennio e di traduzione in traduzione, il poeta-traduttore tesse una maglia di parole e di storie che si confermano e si rinnovano. È così, infatti, che SH trovava fiducia nella propria “postura” di persona e di poeta: attraverso la continuità di pensieri e parole, di impegno e testimonianza, di visibilità e accessibilità, di ispirazione e istruzione. Il dono più importante che ho ricevuto curando il suo quaderno di traduzioni – dono che spero raccolga pure chi leggerà o anche solo sfoglierà questo tomo – è che ogni testo tradotto manifesta, citando SH che a sua volta cita la poetessa polacca Anna Swir, il diritto di esistere.
Se da un lato SH è stato generoso nel diffondere le sue traduzioni, dall’altro è stato molto attento ed esigente. Quando un testo tradotto andava in stampa era sempre in uno stato di completamento assai avanzato. Questo non significa che la tensione, rischiosa e rivelatrice, causata dal doppio elastico cui si sottopone il poeta-traduttore – riconoscimento e rispetto della scrittura altrui e allo stesso tempo di quella propria – sia accantonata o tantomeno superata, ammettendo che sia effettivamente superabile. La differenza tra completamento e abbandono, del resto, non è sempre chiara, come SH stesso si domanda in una poesia di Electric Light (2001) “ricavata” da una traduzione e intitolata “Il frammento”: «Quando mai … / il primo verso e l’ultimo verso di qualsiasi poesia / ne sono l’inizio e la fine?».
Trovare una risposta a domande come questa è particolarmente difficile quando si tratta di un testo tradotto. La questione, per SH, è intrinseca al processo di composizione: come ho già sottolineato, SH ha riposto la stessa cura autoriale nello scrivere testi originali e testi tradotti e accordato la stessa valenza letteraria a entrambe le forme di scrittura. SH ha anche compreso, tuttavia, che tra testo tradotto e testo originale esiste comunque una distinzione – per quanto minima la si voglia considerare o, abbracciando una posizione decostruzionista, annullare con l’annullamento del concetto di originale: la “traduzione” – in tutte le sue manifestazioni – esiste, è tale, in quanto variante più o meno esplicita di un “originale”. Ma registrare ogni fase e ogni segno di questa distinzione – cioè registrare ogni variante nei manoscritti, nei dattiloscritti, nei giri di bozze, nelle ristampe dei testi tradotti – non ha lo stesso valore intrinseco che ha per uno scritto originale. La variazione va intesa piuttosto come componente essenziale della trasformazione di un testo da una lingua all’altra: un processo indispensabile e per certi versi inesauribile per arrivare a una redazione sufficientemente stabile per essere pubblicata.
L’immagine più efficace per descrivere questo complesso “percorso” creativo si trova, doppia, nei versi di una poesia di Door into the Dark (1969) in cui SH descrive la scrittura come mestiere, “La fucina”: «L’improvviso ventaglio di scintille / o il sibilo di un nuovo ferro forgiato nell’acqua». Il compito più difficile per qualsiasi traduttore, e in particolare per il traduttore letterario, è arrivare a uno stadio di completamento in cui – riprendendo un’altra immagine di SH, questa volta dalla poesia “Twice Shy” in Death of a Naturalist (1966) – il “diaframma teso” tra traduzione e originale, tra traduttore e poeta, si possa allentare, almeno temporaneamente, concedendo al testo tradotto la possibilità di respirare autonomamente.
Nelle osservazioni di apertura della sua “Robert Lowell Memorial Lecture” (2008) SH cita il verso conclusivo di “Tate’s Avenue”, una poesia di District and Circle (2006), come motto del traduttore: «La tua misura avevo io, tu la mia». Per raggiungere tale misura – tale completamento – SH attuava un processo di costante rilettura e apertura alla revisione e al raffinamento che gli permettesse di trovare una forma stabile del testo tradotto all’interno e all’esterno, per così dire, delle circostanze umane e artistiche che lo avevano determinato. Alcune varianti sono esemplari proprio perché rivelano queste dinamiche: sono segnali del percorso di completamento di un testo tradotto che a poco a poco cede alla spinta – particolarmente forte nel caso della poesia e del poeta-traduttore – a esistere autonomamente rispetto all’originale.
Qualche esempio, allora. Sweeney Astray (1983-84), la prima traduzione importante di SH, è in fieri da oltre un decennio con parecchi passi pubblicati strada facendo (1976-82) prima che la traduzione completa sia pubblicata. E passa un altro decennio prima che la traduzione sia ripubblicata, con diverse revisioni, all’interno di Sweeney’s Flight (1992), un volume che alla potenza della parola poetica accosta quella dell’immagine fotografica. Nella prefazione a questa seconda versione SH spiega come agisca una necessità ritmica diversa quando un testo è concepito come autonomo rispetto a quando è pensato come elemento costitutivo di un’opera più consistente. Anche un intervento apparentemente trascurabile come quello della descrizione di un gesto che da “grave” diventa “sacrilego” – variante che inietta nel dolore privato del chierico Ronan una valenza marcatamente religiosa che lo porta a maledire il re pagano Sweeney (inevitabile cogliere in questo scontro antico quelli contemporanei del conflitto nordirlandese) – è frutto di questa consapevolezza. Beowulf (1999) – la traduzione di SH più riuscita a detta di molti – è il risultato di una gestazione ancora più lunga, quasi due decenni, e segnata da diverse difficoltà che sono infine superate anche grazie alla pubblicazione di numerosi passi (1980-1999). E anche dopo l’uscita della traduzione completa, salutata da un successo di critica e di pubblico senza precedenti, SH continua ad apportare revisioni. In una di queste – nel testo di una cartolina natalizia stampata per lui, come consueto, da Gallery Press nel 1999 – la candela del cielo risplende brilliantly anziché clearly (vv. 1750-52). In un’altra, accettando l’invito a contribuire a un’antologia intitolata Irish Writers Against War (2003), adatta i vv. 2897–3028 (vv. 195-203) con il titolo “News of the Raven” – sembra una sua poesia.
Un altro esempio si trova nell’edizione americana della versione del Filottete di Sofocle, The Cure at Troy, che esce negli Stati Uniti il 4 dicembre 1991: più di un anno dopo il debutto alla Guildhall di Derry in Irlanda del Nord il 1º ottobre 1990 e la pubblicazione in Irlanda e nel Regno Unito. SH approfitta di questa “nuova” pubblicazione per inserire il titolo della sua versione nel testo, dove appare ai vv. 1679-80, pronunciati da Filottete nel suo ultimo discorso: «Vedo / la cura a Troia». L’aggiunta di questo verso rafforza il legame già stabilito dal traduttore e dalla traduzione tra l’antica Grecia e l’Irlanda, dove «l’idea di una guarigione miracolosa è profondamente radicata nella sottocultura religiosa». L’importanza accordata al “nuovo titolo” stabilisce inoltre un modello per la seconda traduzione sofoclea di SH, The Burial at Thebes (2004), versione dell’Antigone, dove una poesia “originale” che aveva pubblicato sul New Yorker con il titolo “Sophoclean” diventa la base per uno dei cori chiave della tragedia. Nel corso di due decenni (1997-2016), inoltre, SH pubblica più volte “The Yellow Bittern” e “The Glamoured” – traduzioni di testi canonici della tradizione irlandese: “An Bonnán Buí” e “Gile na gile” – rivedendo singole parole e interi versi e anche la punteggiatura. E l’inclusione della sua versione del Canto II dell’Inferno di Dante in una nuova antologia pubblicata nel Regno Unito (1998) offre a SH l’opportunità di rileggere la traduzione che aveva pubblicato in un’antologia uscita negli Stati Uniti (1993) rendendo il desiderio di Virgilio di onorare la supplica di Beatrice e soccorrere Dante più esplicito e più urgente: così «I yearned the more to come» diventa «I yearned the more to help». E quando Billy Connolly sta registrando “The Fox, the Wolf and the Carter”, una delle favole di Henryson tradotte da SH, il poeta non esita a intervenire sul testo della traduzione pubblicata nel 2009 e sostituire Lent-feed con Lent-food (v. 170) per migliorare la chiarezza e la scorrevolezza del verso in questione. Sempre nel 2009 SH pubblica “The Kite”, la sua prima traduzione pascoliana, e dalla traduzione de “L’aquilone”, testo letto per la prima volta nel 2001, ricava “A Kite for Aibhín”, l’ultima poesia dell’ultima raccolta, Human Chain (2010) dedicata all’ultima nipotina.
Questo tipo di “revisione” riguarda anche i titoli scelti da SH per testi tradotti. Come ha osservato il suo bibliografo, Rand Brandes, SH considerava un titolo efficace quando riusciva a incarnare “lo spirito” della poesia o del libro, fungendo quindi da «emblema in grado di richiamarne l’essenza». Eppure, un passo dalla traduzione in progress del Libro Sesto dell’Eneide (vv. 638-78 nell’edizione latina standard di R.A.B. Mynors) appare in stampa con due titoli diversi: “The Fields of Light” (2008) e “The Elysian Fields” (2012).
Tutti questi esempi non dimostrano soltanto l’autorialità e l’originalità di SH ma anche la sua integrità e riverenza. SH, infatti, non ha mai minimizzato o tantomeno nascosto il debito verso il testo di partenza ma allo stesso tempo ha sempre cercato di portare i testi tradotti allo stesso livello di indipendenza dei testi originali. Anche quando l’esperienza della traduzione riguardava lingue che non conosceva, portando quindi al dialogo con studiosi o alla collaborazione con altri traduttori, le traduzioni diventavano comunque e inequivocabilmente sue. In Translation of Poetry and Poetic Prose: Proceedings of Nobel Symposium 110 (1999), un volume di saggi sulla traduzione della poesia e della prosa poetica, SH – pensando a Osip Mandel’štam, che aveva descritto i grandi poeti come «ladri d’aria» – descrive il traduttore come «un ladro creativo». SH sostiene apertamente che lo scrittore e il traduttore condividono lo stesso «compito artistico»: creare qualcosa da ciò che è dato – muovere, quindi, ciò che si riceve e riprodurlo facendogli attraversare i filtri conoscitivi ed emotivi di un’altra immaginazione e di un’altra lingua. Ogni lingua, secondo SH, agisce da portale per accedere a un’altra – una posizione intrinsecamente traduttologica che non necessita quindi di una argomentazione teorica per essere valida e fertile.
SH ci ha lasciato però metafore molto originali e molto illuminanti della sua esperienza di traduttore. In Title Deeds: Translating a Classic (2004), per esempio, SH riflette sulla versione dell’Antigone commissionatagli dall’Abbey Theatre di Dublino, The Burial at Thebes (2004), sottolineando ancora una volta come la traduzione in versi «non sia poi così diversa dalla composizione originale» e che ci debba essere un La, una vera e propria «nota», cui i versi, soprattutto i primi, possano essere «accordati». È quindi necessario, sostiene SH, stabilire questa assonanza, questo registro, affinché le parole tradotte suscitino nel traduttore «quella sensazione benedetta di essere sulla strada giusta, musicalmente e ritmicamente». Una descrizione della traduzione che richiama un verso di un’altra sua poesia, “Song”, in Field Work (1979), in cui descrive «l’istante in cui un canto d’uccello quasi / s’accorda alla musica di ciò che accade». Un’altra metafora della traduzione come trasferimento creativo liberante proprio in quanto non riproduzione identica dell’originale ma risposta approssimata, si trova nella poesia “The Settle Bed” in Seeing Things. SH afferma che «tutto ciò che è dato // può sempre essere reimmaginato».
Non sorprende allora che SH abbia abbracciato con convinzione l’idea che «un’opera originale esista non per essere perfetta, ma per rigenerarsi ripetutamente in nuove traduzioni». Un evento portentoso riportato nelle pagine del Lebor Laignech, del Lebor Bretnach e del Konungs skuggsjá raggiunge l’immaginazione di SH nella traduzione in prosa inglese di Kenneth Hulrstone Jackson, intitolata “The Air Ship”. Questa trasmissione esemplifica l’impatto evolutivo della traduzione come la intendeva e praticava SH.
Una delle poesie “originali” più conosciute di SH, “Lightnings VIII”, in Seeing Things – citata più spesso con il titolo “The annals say…” e scelta dall’Accademia di Svezia per illustrare come il passato vivente sia esaltato nelle opere di SH con «bellezza lirica» e «profondità etica» – andrebbe legittimamente considerata una traduzione. E come tutti i testi tradotti e originali scritti da SH esemplifica il capogiro che prende il poeta-traduttore nello scoprire «vero» ciò che «sopravvive» – che vive oltre – la traduzione.
Così afferma SH in una poesia di The Spirit Level, “Remembered Columns”: versi in cui traduzione è, etimologicamente e poeticamente, trascendente traslazione. E nel segno della traslazione va infine ricordato come SH si sia affidato alla traduzione come spazio ideale per legare esperienze e vicissitudini in Irlanda, a nord e a sud del confine, con quelle al di là dell’isola, dentro e fuori dal tempo, dallo spazio e dal contesto dei loro accadimenti – potendo così commentare questioni sociali vicine e lontane con integrità personale e artistica.
In un’intervista con Jon Snow per Channel 4 News (1999) SH dà testimonianza della dimensione universale di preoccupazioni locali e della forza riparatrice della letteratura attraverso i confini e le culture grazie alla “mediazione” della traduzione. Lo fa tracciando un parallelo tra la situazione in Irlanda del Nord e gli eventi narrati in Beowulf, che aveva da poco completato. La gente dell’Ulster, come quella del poema epico anglosassone, spiega SH, «sa molto» del pericolo, del terrore, del dolore, della sofferenza. In Irlanda del Nord, del resto, la vita, l’istruzione e la scrittura di SH si sono sviluppati «al ticchettio di due orologi»: identità cattolica e protestante; causa nazionalista e unionista; cultura irlandese e inglese. Questo luogo di origine ereditato – una via di mezzo inevitabile: «Due secchi si portano più facilmente di uno. / Io sono cresciuto in mezzo», scrive in “Terminus”, una poesia in The Haw Lantern (1987) – è l’habitat naturale del traduttore. SH era davvero un traduttore nato.
A chi mi chiede quale delle traduzioni di SH mi sembri particolarmente luminosa e mi abbia avvinto di più, rispondo che continuo a cambiare idea perché ci sono 101 traduzioni tra cui scegliere. Recentemente ho optato per la traduzione di una glossa in gaelico lasciata da un amanuense medievale – tornato forse un po’ alticcio dalla pausa pranzo – in margine alla copia delle Istituzioni di grammatica di Prisciano su cui è riverso. SH la lesse all’Università di Boston durante la sua prestigiosa “Robert Lowell Memorial Lecture” (2008), evento dedicato a uno dei poeti e poeti-traduttori più originali del nostro tempo che SH aveva letto e frequentato con interesse e amicizia sinceri. La cito qui nella mia traduzione inedita, da lui ispirata e a lui dedicata:
Altolevato nella chioma d’un albero
canta per me – ascolta! – un merlo;
sopra le righe di questo mio librino
sento cantare giubilante ogni uccello.Ammantellato dall’ombra d’un arbusto
canticchia un cuculo e mi rallegra.
Orsù, che il buon Dio mi protegga!
Ma come scrivo bene io sotto il bosco!
Ecco: in questi pochi versi rivedo SH com’era l’ultima volta che l’ho visto nella sua casa di Dublino. Un uomo interamente devoto alla sorpresa della scrittura, propria e altrui.
Marco Sonzogni
*Per gentile concessione pubblichiamo in anteprima il saggio principale che apre il quaderno “Per Seamus Heaney (1939-2013)” dedicato da “Studi Cattolici” al grande poeta irlandese. Tra l’altro, Marco Sonzogni ha curato per Mondadori il ‘Meridiano’ che raccoglie le “Poesie” di Heaney e ha pubblicato con Faber & Faber l’immane repertorio “The Translations of Seamus Heaney”. Il quaderno realizzato da “Studi Cattolici” presenta interventi di Daniele Gigli, Davide Rondoni, Rossella Pretto e Mariadonata Villa.