24 Novembre 2022

Il merito? La scuola non ha meriti e gli insegnanti devono imparare a e-segnare

Il valore del cosiddetto “merito” che il ministero dell’Istruzione si è da poco attribuito motu proprio e che ha scatenato un inutile chiacchiericcio, lascia indifferenti come quasi ogni facezia giunga dalle sacrestie della politica e dai palazzi del potere della nostra repubblica. Tuttavia quest’ultima innocua trovata dal sapore vagamente nostalgico e retrò non tiene conto dell’aspetto più importante della questione, c’est-à-dir che la scuola non ha meriti.

Se è pur vero che le figure dei “meritevoli” e dei “capaci”, come in un girone dantesco, sono già minacciosamente presenti nel secondo comma del trentaquattresimo articolo della Costituzione, non rende il concetto di merito meno astratto né tampoco familiare. Se poi tutto si esaurisce alle solite gare, olimpiadi, premiazioni, graduatorie e liste d’eccellenza, insomma a chi la spara più grossa, come si apprende dalla pagina internet dello stesso ministero in cui si spiega ai comuni mortali come il merito lo si guadagni, allora non c’è che da fare spallucce e passare ad altro. Nihil sub sole novum. 

Dalle colonne del quotidiano la Repubblica, invece, il solito Massimo Recalcati ci istruisce a dovere riportando la questione del merito là dove, selon lui, si è smarrito il desiderio di insegnare. Egli rivendica (sic!) una scuola meritevole di insegnanti con “il desiderio deciso di dedicarsi all’insegnare come ad una tra le pratiche più alte del processo di umanizzazione della vita”. Perciò, secondo costui, sarebbe l’autentico “desiderio di insegnare” il merito che alla scuola manca o quello che la scuola dovrebbe meritare. E purtroppo niente, neppure una parola della sua enciclica sul paralizzante incontro con il sapere e la conoscenza che la scuola e l’insegnamento da sempre occultano.

Finché perpetua il suo magistero nel noioso e stantio “in-segnare”, attività che anche un vecchio fabbro o un tosatore di pecore è in grado di praticare eccellentemente, allora non si comprende la scuola quali meriti abbia né si comprende quali valori di virtù o pregio essa dovrebbe elargire. Alla scuola spetta formare il cittadino ossequioso delle leggi, qualche operaio diligente, un buon padre di famiglia, magari una discreta quantità di intrepidi soldati e poco altro. Già nei primi anni di vita e negli asili, ci rammenta Felix Guattari, “[…] il bambino dev’essere in grado di decifrare i vari codici del potere il più presto possibile.” (Gli asili nido e l’iniziazione). Dopo di ciò, i meriti della scuola, ammesso che questi lo siano, si esauriscono tout-court.

Il sapere e-segnante, con cui spesso l’insegnare viene confuso, è invece la sua vera minaccia. Esegnare, dunque, dovrebbe essere la vera missione (o il merito) della scuola, se ne avesse una. Portare fuori, cioè, quei segni che l’in-segnare troppo a lungo ha tenuto al buio, nell’oscura spelonca del discente obbligato spesso a seguire lezioni mortificanti che non desidera, non ha chiesto e di cui non sente il bisogno.

A tal proposito, quando Nietzsche era ancora “segnato”da Schopenhauer e vibrava come una corda di budello, scriveva qualcosa del genere:

“L’esempio deve essere dato con la vita visibile e non semplicemente con dei libri, a quel modo quindi che insegnavano i filosofi della Grecia: con l’aspetto, l’atteggiamento, il vestito, il cibo, i costumi più ancora che con il parlare o addirittura con lo scrivere”.

Friedrich Nietzsche, Schopenhauer come educatore

Un modo elegante e colto per dire che i segni impressi dal sapere e dalla conoscenza devono essere portati addosso, come uno sfregio o una cicatrice.

Ormai lontano da ogni ritualità e sacralizzazione della conoscenza, al giovane scolaro non è richiesto altro che istruirsi, ossia dotarsi di informazioni (istruzioni) più o meno vaghe, più o meno incomplete, come quelle che trova con poca fatica in uno qualsiasi di quei manualetti che accompagnano gli elettrodomestici appena acquistati. D’altra parte, anche i professionisti dell’istruzione, i professori, annaspano da tempo nello stesso brago: 

“Nella cultura resa volgare, ai filosofi non rimane altro che fare i professori, insegnare, sotto gli ordini dello Stato, a larghe schiere dottrine devitalizzate e rese accessibili”. 

Giorgio Colli, La ragione errabonda

L’esegnante, invece, questa controversa figura di uomo che si tiene alla larga dalle aule scolastiche, “da fuori”, come uno xénos, uno straniero, tenta di tracciare quell’incolmabile solco tra conoscere e istruirsi. Se potesse parlare, egli avrebbe addirittura l’impudenza di ammettere che la conoscenza è dovuta a un avvenimento inatteso, al caso o a un incontro fortuito; e se potesse continuare, di certo direbbe che la conoscenza è regolata dalla stocastica. Ma egli tace e tira dritto per la sua strada, consapevole del fatto che dopotutto la scuola è quello che è, da decenni impermeabile a novità e progresso se non, di tanto in tanto, qualche piccolo ritocco, un vago maquillage, una lustratina al modernariato. Burocratizzata, ingolfata di documenti, note e circolari ministeriali, prescrizioni e regolamenti, essa è irriformabile e vale la pena tenersela com’è.

E allora, il merito? Alla domanda rispondiamo con le parole del vecchio genitore che, nel film di Elio Petri La proprietà non è più un furto, al figlio che gli chiede quanto denaro hanno in banca, risponde con laconica e spietata lucidità: “Quello che meritiamo!”.

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