Il primo aggettivo, quello inevitabilmente banale, è: tosta. Marina Serrano, tra i poeti più importanti di oggi in Argentina, è una tosta. Classe 1973, pubblica il primo libro di poesie, Formación hospitalaria nel 2006 – che nel titolo ricorda, per suggestione, Ospedale Britannico, libro decisivo dell’argentino Héctor Viel Temperley, per fortuna edito in Italia da Raffaelli, nel 2014. Marina è tosta, banalmente. Fisiatra e psicologa, nel 2000 (in Olanda) e nel 2002 (negli States) diventa campionessa mondiale di taekwondo. La pratica delle arti marziali arrota il corpo e precisa l’ago cristallino dell’anima. La disciplina, il nitore della carne, il deserto verbale, l’agonia e l’agonismo, sono atteggiamenti che pareggiano il gesto sportivo a quello poetico. Per quanto, “nella poesia non si tratta di arrivare più lontano, più in alto, di picchiare più forte. Non si tratta di trovare un poeta migliore, un pene più lungo, ma si parla di bellezza, di comprensione, di affinare i sensi, di vedere con altri occhi”. Tosta Marina lo è perché la poesia accade come una stupefacente esplorazione di sé, macerata nello studio, nell’accecamento e nella solitudine. Quando la interroghi, la Serrano sorprende per la capacità concettuale, per la lucida violenza delle asserzioni. Tra i libri importanti, La única cosa necesaria (2012), Segunda Fondación (2015), Psiquis anatómica (2016). Il discorso poetico, liturgico e lisergico, è scandito, anche, da un ragionamento dentro i testi sacri – dalla Bibbia ai libri della tradizione indiana e musulmana – e quelli laterali al canone (imponente il dialogo con gli apocrifi). Come se la Serrano cercasse l’origine della tenerezza di Dio, pretendesse il suo pianto, senza altre allusioni.
Quando ha cominciato a scrivere? Perché? Cos’è per lei la scrittura? Un modo per costruire qualcosa o per scavare qualcosa?
L’inizio della scrittura non è per me quel brodo primordiale dal quale partiamo per sperimentare combinazioni fattibili, dove mettiamo in campo un determinato ruolo per vedere se ci riesce bene, se ci piace ciò che immaginiamo per il nostro futuro, non è nemmeno l’azione di scrivere in sé, comporre versi, inventare storie, ma è quel punto di svolta in cui si comincia decisamente a considerare ciò che si è scritto come qualcosa che ha una forma più o meno concordata, un prodotto socialmente di valore e richiesto, e il tuo segno distintivo, il cui atto creativo ti caratterizza. Nel mio caso, dopo anni di scrittura silenziosa e senza rotta (nella migliore accezione del termine), partecipai a un laboratorio di poesia strutturato in cinque lezioni, con una grande maestra che mi ha detto: non c’è niente da ritoccare, questo è poesia. E ciò che avevo sempre fatto, all’improvviso, è diventato qualcosa e ha acquisito un nome: poesia. Scrivere è stato, ed è, parte della mia vita, qualsiasi spiegazione sul perché lo faccio risulta parziale come quella che si potrebbe dare sul perché espletiamo le funzioni vitali, come mangiare, defecare, agire. Ossigenarsi, liberarsi dell’aria viziata, è solo una risposta parziale all’atto di respirare. Scrivere fa parte della mia vita e può darsi che, col tempo, cambi il modo in cui lo faccio e cambi l’opinione del pubblico in merito al prodotto della mia scrittura, ma ciò cambierebbe esclusivamente le conseguenze.
In una delle sue opere, La única cosa necesaria, tratta il tema del dolore, ripercorrendo i testi sacri, dalla Bibbia, al Corano, alle Upaniṣad. Forse, il dolore, il male è il tema inevitabile della letteratura. Cosa può dire la poesia sul dolore? La poesia può salvare qualcosa?
La única cosa necesaria è un libro che ha richiesto molto tempo e studio, e un isolamento profondo. In qualche modo, il processo della sua scrittura mi ha permesso di confrontarmi con la mia stessa vita, con il dolore, la disaffezione, il maltrattamento. Il percorso della sua creazione è stato un viaggio di andata e ritorno tra testi religiosi molto diversi e la mia stessa biografia. Sentivo che questi libri erano la mia stessa voce, ma manifestatasi in un altro tempo. In qualche modo, credo che ciò che trasforma un libro in qualcosa di sacro sia la sua capacità di essere universale e al tempo stesso assolutamente particolare. La poesia consente di muoversi nello spazio, riportare al cuore e alla coscienza eventi un tempo incomprensibili e, partendo da questo rinnovamento, attribuire loro nuovi significati, trovare la bellezza là dove forse non la scorgevamo, ricreare la bellezza, l’umanità. C’è un passaggio nel Vangelo di Giuseppe il Falegname (edizione copta), in cui Gesù rifiuta la morte del padre terreno, la rifiuta con urla e minacce, la rifiuta visceralmente e, dopo alcuni andirivieni, quando alla fine Giuseppe muore, Gesù, innanzi al cadavere, pone la sua mano sul cuore, sul cuore del corpo del padre e dice: “L’odore fetido della morte non si impadronisca mai di te. Non odano le tue orecchie niente di male. La putrefazione non pervada il tuo corpo…”. Questo dio è uguale a una persona qualsiasi innanzi al dolore. Qui la parola scritta conforta, se un dio può piangere e disconoscere la morte, può chiedere a gran voce che il corpo di suo padre non patisca il destino che tutti i corpi devono inesorabilmente patire, se dio si permette l’egoismo del dolore, il desiderio del possesso, dov’è la differenza con me? Io sono diventata voce poetica, ho fatto della mia vita passata voce poetica, l’ho resa a immagine e somiglianza di un dio che si permette il potere sulla vita e la morte. La poesia sacralizza il mondo, lo riunisce. Un giorno la memoria della carne comincerà a venir meno, andrà modificandosi lentamente, perderò i modelli di riferimento, ma rimarrà sempre la bellezza di una vita sacra nella poesia.
Che rapporto ha con la poesia argentina? Quali sono i suoi punti di riferimento, cosa le piace leggere?
La poesia argentina è parte della mia famiglia, per quanto la rinneghi, nel mio carattere ve n’è di più di quanto creda e di quanto vorrei; essa influenza, da un punto cieco, il mio sguardo e i miei comportamenti. Ragion per cui le mie preferenze viscerali non hanno troppo valore. Per esempio, so che giudico la poesia spagnola partendo dalla mia argentinità, ergo scelgo solo i classici e il resto lo metto in un luogo secondario, perché lo reputo troppo incanalato, appiccicoso. Ma, ripeto, questo trova la sua ragion d’essere nel fatto che noi argentini siamo viscerali, insolenti, spacconi, nostalgici, brontoloni, e di tutto ciò è impregnata la nostra poesia, il nostro modo di fare poesia, e finiamo col credere che questo modo – immersi come siamo in quel cronico sentirci l’ombelico del mondo – sia la buona poesia, sia la poesia. Pessima idea, ma è questo quello che succede, di solito. Qualcosa di analogo mi capita con le poetiche latinoamericane, le giudico partendo dalla mia argentinità, pertanto il mio giudizio non vale un fico secco. Posso affermare che la poesia argentina mi piace, come agli uomini di ogni Paese piacciono le proprie donne, il proprio cibo, i propri costumi. Provo ad andare oltre me stessa e imparare ad assaporare altre poetiche, e a volte ci riesco, ma richiede tempo e fatica. Ammetto che un altro dei miei problemi è quello di leggere scorrevolmente la poesia solo in spagnolo, ragion per cui tutta l’influenza straniera mi giunge sempre intrisa del valore aggiunto (o sottratto) dalla traduzione. Mi considero molto influenzata da Héctor Viel Temperley, da Diego Muzzio, da Cecilia Romana, dopo il mio avvio poetico concreto, benché mi sia formata leggendo Borges, Sor Juana, i classici, e molto e, dico molto in particolare, tutto ciò che era pop e di facile accesso. Probabilmente tutti questi fanno parte dei miei punti ciechi, del mio carattere. Ammiro Jorge Aulicino, Mirtha Rosemberg, Daniel Durand, Jorge Fondebrider.
Lei è campionessa di taekwondo: è vero? Quando ha cominciato a praticarlo? Che tipo di relazione c’è tra disciplina e poesia? La poesia ha in sé qualcosa di “agonistico”?
Sì, è vero. Ho cominciato a praticare taekwondo a 10 anni, nel mio paese, e già a 17 mi sono classificata prima nella graduatoria nazionale. A venti già rappresentavo il mio Paese, l’Argentina, e ho praticato una varietà di stili e di arti marziali come parte della mia formazione. Nell’anno 2000 ho vinto il campionato mondiale di Taekwondo International a Eindhoven, in Olanda. E l’ho vinto di nuovo nel 2002, a Miami, negli Stati Uniti. Probabilmente quella relazione evidente che c’è tra poesia e arti marziali può sembrare inesistente, ma le arti marziali, se ben praticate, ossia per molti anni e sotto le guide giuste, sono attività che trascendono l’ambito dello sport, dell’attività di mera interazione sociale, e consentono una profonda conoscenza del proprio corpo, della relazione tra il proprio corpo e quello altrui, insegnano a provare empatia nei confronti della condizione altrui, il dolore degli altri, a comprendere il dolore che possiamo provocare; ciò consente lo sviluppo di un’etica e di alcuni codici di comportamento connessi con la consapevolezza di tale potere. D’altra parte, sono attività che richiedono allenamenti prolungati, anni di educazione ed esercizio, e perfino un atto di fede verso il maestro e il suo metodo, cosa che genera un convincimento sul valore della disciplina e della perseveranza, sull’auto-perfezionamento attraverso la ripetizione delle stesse cose. Sono attività che richiedono un apprendimento continuo, che si riflette in una maggiore capacità di deuteroapprendimento, ossia la capacità di apprendere ad apprendere. Tutto ciò confluisce nella mia poesia. Non potrei vederla scissa da questo mio modo di concepire il mondo, forse per questo è poesia fisica, in cui c’è una presenza evidente del corpo nelle parole, e sempre un rapporto con l’altro. Scrivo come combatto, o come pretendo di combattere, non solo agendo con ciò che ho o come posso, come un apprendista, o reagendo all’attacco, ma ponendomi su un altro piano. D’altra parte, le arti marziali e l’agonismo sono di per sé opposti. La parte sportiva è una deformazione divertente e minuscola dell’arte marziale. Anche poesia e gara sono contraddizioni. Gareggiare significa stabilire delle regole e fronteggiarsi nel perimetro delle stesse; vince quello che le maneggia meglio, quello che ha avuto la giornata migliore e vince solo per oggi. Nella poesia non si tratta di arrivare più lontano, più in alto, di picchiare più forte. Non si tratta di trovare un poeta migliore, un pene più lungo, ma si parla di bellezza, di comprensione, di affinare i sensi, di vedere con altri occhi. Sì, può suonare artificioso, permettetemi di dirlo come mi viene, in stile “quel che Budda non è”. La poesia non è niente di quanto oggi valutiamo come positivo, non è competitività, non è rendimento, non è televisione, non pubblicità, non è esibizione.
Il fatto che la poesia oggi venga pubblicata e letta soprattutto su internet modifica, secondo lei, il modo di scriverla, di concepirla, di pensarla?
Senza dubbio, internet modifica il modo di scrivere e leggere poesia. Ciò che non so, che non riesco a capire, è come lo modifica. è ancora troppo presto, lo stiamo vivendo. Presumo che, come è cambiata la maniera di rivolgerci ai nostri amici, dalla lettera passando per l’email arrivando fino a whatsapp, scegliendo l’informazione immediata, scarna, funzionale, per la comunicazione istantanea, allo stesso modo ne sia influenzata la poesia. Notiamo poeti che scrivono e dopo neanche cinque minuti caricano le loro poesie in rete. Cosa resta dell’antico lavoro di correzione eterna, dell’edizione curata, degli scambi di materiale con altri poeti, del tempo di decantazione dei testi? Non lo so, sarà un’altra cosa. Notiamo inoltre che, con la stessa velocità con cui si scrivono e si caricano, si leggono i testi, i lettori (supponendo che li leggano) gli mettono un like ed è finita lì. Qual è il destino di queste poesie? Si leggono di nuovo, ci si ripensa su, si staccano gli occhi dallo schermo per un attimo per metabolizzare ciò che queste poesie ci lasciano? Scompaiono dalla memoria? Generano lo stesso effetto che quelle lette in un libro stampato, lentamente, una alla volta, senza interruzioni, senza finestre pubblicitarie a fianco? Non ne ho idea. Molti anni fa, in un gruppo di studio della facoltà di medicina della UBA, valutavamo cosa ne sarebbe stato del “cyberspazio”. Era una parola molto avveniristica, cyberspazio, e l’idea della rete globale a portata di tutti sembrava utopistica. Io naturalmente, sempre conservatrice, ho pensato che sarebbe stata una cosa poco utile, senza un chiaro significato e senza vantaggi, se non quello di fornire una veloce fonte di informazioni. Evidentemente mi sono sbagliata, cosicché, dato che può benissimo capitarmi anche adesso, non inciampiamo due volte sulla stessa pietra ma tutte le volte possibili, semplicemente dico: non lo so. Nel frattempo, lunga vita alla poesia, in qualsiasi forma voglia essere ed esistere.
La poesia ha un ruolo nella Storia oppure deve restare in disparte, estranea, senza nessuna rappresentanza nella società civile?
La mano che scrive non è una mano avulsa dal suo tempo, dalla sua città, dalla sua realtà, per quanto possa agognare, forse, di stare separata o farsi i fatti propri. Di conseguenza, un buon lettore d’altri tempi rivedrà nel testo scritto più di quanto lo scrittore non avesse la volontà di scrivere. Vedrà le parole che erano in voga, gli stili di vita, i luoghi che erano pubblici, le situazioni che venivano considerate problematiche, belle, rilevanti, ecc. La poesia può dare qualcosa a chi la vive nel presente, ora, all’uomo contemporaneo, e può dare qualcosa di diverso a chi la vivrà domani. La poesia è un contenitore di n-contenuti, contenuti che si metteranno a disposizione del lettore nel momento in cui questi formulerà le domande adeguate. E riguardo a questa idea, ricordo di avere letto, alcuni giorni fa, un articolo, pubblicato da qualcuno in un quotidiano, su un’altra persona a me ben nota. Mi sono meravigliata nel leggere il titolo dell’articolo, diceva esattamente il contrario di quanto la maggior parte delle persone non mi avesse raccontato in merito. La mia domanda è finita sulla costruzione della storia: cosa ne dirà la storia domani? Aprirà il giornale e leggerà. La memoria dei presenti morirà per sempre e non rimarrà l’oblio, rimarrà l’alterazione, ciò che è stato scritto. Perlomeno, fino a quando qualcuno non lo riscriva, lo reinventi, lo renda nuovamente poesia.
Cosa c’entra la poesia con la vita?
La poesia può fare delle nostre vite, vite piene, nuove, molteplici, teatrali, redente. Uno può vivere senza poesia se vuole, benché ciò produca come effetto solo quello di vivere una vita nella poesia degli altri, la poesia che gli altri decidono per costruire il mondo.
Le interessa la letteratura italiana, la legge?
Sì, mi interessa molto. In Argentina si legge e si traduce parecchio, credo che ci siano più traduttori qualificati in lingua italiana rispetto all’inglese. Alcuni anni fa, nel 2009, con un’amica avevamo una piccola casa editrice e abbiamo avuto il coraggio di proporre un’antologia di poesia italiana, selezionata e commentata da Diego Bentivegna. è stata intitolata, in modo molto originale (sono ovviamente ironica) Viaggio in Italia, e l’idea era di presentare, introdurre e tradurre otto poeti italiani contemporanei, quasi tutti affermatisi tra la fine degli anni ’70 e la fine degli anni ’80: Mario Benedetti, Massimo Bocchiola, Antonella Anedda, Fabio Scotto, Anna Lamberti-Bocconi, Tiziano Scarpa, Florinda Fusco e Tiziano Fratus.
*
Cosa siamo andati a vedere nel deserto? Una canna agitata dal vento? (Vangelo di Marco)
Cosa andammo a vedere, Simón, dall’altra parte dell’oceano,
dall’altra parte delle nuvole, sopra e sotto,
se non uomini che ci attendevano tranquilli
trattenendoci con il minimo sforzo richiesto
per tendere il filo di un palloncino, calpestare formiche,
sollevare un insetto tra le dita
e lasciarlo camminare mentre la mano gira
offrendo un nuovo orizzonte così effimero e vicino
come un nastro chiuso nelle due punte?
Fummo, Simón,
adulti analfabeti della grazia che non capivano niente,
niente di niente, gli impeti di sé stessi?
I re dei quartieri marginali
il boss di Villa Dálmine, il capobanda del Boca
e i neri murgueros
sono stati fermati da mani predicatrici
impotenza funzionale in ginocchio, tetrade di Celso.
Poi, ritornando al luogo di origine
della loro cattiveria e ignoranza, pieni di scuse,
raccontando quel poco che mancò, le ingiustizie,
fanno sfoggio di un colpo forte, perché siamo così, Simón,
gente che trabocca di forza, ed è così bruta
che non capisce nemmeno il fallimento.
*
La bara con sua madre, María,
non era nella propria tomba
ma bisognava lasciarla in quel posto, in tutti i modi.
Mise la sua mano sul legno, ed era difficile vedere
attraverso questo
il corpo di sua madre,
in esso il corpo di sua madre
che appoggiava la mano sul petto, le dita su un filo d’argento.
E rimase, così sola, la figlia,
un minuto di fronte alla bara chiusa in un posto qualsiasi,
che io la guardai da lontano senza poter capire cosa significava
essere figlio senza genitori,
fermo sotto il vento di un cimitero che piove sole
con una sola parete, intagliata in latino, senza visitatori né limiti,
il mare da sottofondo tra le dune, in lei
così esposta alla vita, senza figli, senza marito, senza sapere dove
trovare il necessario,
ma ritornò, per riportarmi a casa
perché era il momento del pranzo.
*
Sì, quello mi dicesti di fare
misi le mani nella terra e sollevai bulbi anneriti
caricai sacchi e li misi sulla schiena,
fischiavo e guarda che faceva freddo,
labbra insensibili, suoni smarriti
quando, giunta la sera,
l’acqua della schiena diventava ghiaccio.
Inizio del raccolto. Non vi fu né paga né premio.
E imparai, in certo modo,
ma non chiedermi, Simón,
di rifarlo un’altra volta
non mi corrisponde e nemmeno mi risulta possibile,
il fatto è che non vado più a raccogliere patate,
sono diventata egoista col tempo.
Marina Serrano
(servizio di Davide Brullo, traduzione italiana della professoressa Mercedes Ariza e di Marianna Marchi)
*
¿Qué fuimos a ver, Simón, al otro lado del océano,
al otro lado de las nubes, arriba y debajo,
sino hombres que nos esperaban tranquilos
deteniéndonos con el esfuerzo mínimo que requiere
tensar un hilo de globo, patear hormigas,
levantar un insecto entre los dedos
y dejarlo caminar mientras la mano gira
brindando un nuevo horizonte tan efímero y cercano
como una cinta cerrada en sus dos puntas?
¿Fuimos, Simón,
adultos analfabetos de la gracia que no entendían nada,
nada de nada, los arrebatos de sí mismos?
Los reyes de los barrios marginales,
el kapanga de villa Dálmine, el barra brava de Boca
y los negros murgueros
cayeron detenidos por manos predicadoras,
impotencia funcional de rodillas, tétrada de Celso.
Luego, volviendo al sitio de origen
de su emperramiento e ignorancia, llenos de excusas,
contando lo poco que faltó, lo injusto,
hacen alarde de un golpe fuerte, porque así somos, Simón,
gente que desborda fuerza, y es tan bruta
que no comprende siquiera el fracaso.
*
El cajón con su madre, María,
no estaba en su propia tumba
pero había que dejarlo en ese lugar, de todos modos.
Puso su mano sobre la madera, y era difícil ver
a través de ella
el cuerpo de su madre,
en ella el cuerpo de su madre
apoyando la mano sobre el pecho, los dedos en el hilo de plata.
Y quedó tan sola, la hija,
un minuto frente al cajón cerrado en un lugar cualquiera,
que yo la miré desde lejos sin poder comprender lo que significaba
ser hijo sin padres,
detenido al viento de un cementerio que llueve de sol
con una sola pared, tallada en latín, sin visitantes ni límites,
mar de fondo entre médanos, en ella
tan expuesta a la vida, sin hijos, sin esposo, sin saber dónde
encontrar lo necesario,
pero volvió a mí, para llevarme a casa
porque era hora de almorzar.
*
Sí, eso me dijiste que hiciera,
metí las manos en la tierra y levanté bulbos renegridos,
cargué bolsas y me las eché al lomo,
chiflaba, y eso que hacía frío,
labios insensibles, sonidos se perdían
cuando, entrada la tarde,
el agua de la espalda formaba hielo.
Inicio de la cosecha. No hubo jornal ni premio.
Y aprendí, de alguna forma,
pero no me pidas, Simón,
que lo haga otra vez,
no me corresponde y tampoco me resulta posible,
es que ya no ando entre la papa,
me he vuelto egoísta con el tiempo.
Marina Serrano