“I poteri magici e sovversivi del desiderio”. Traducendo René Char
Poesia
Giorgio Anelli
Ci si scrive solo per amore. Lettere. Qualcosa di estremamente unico, antico, come può esserlo un libro. Si sigilla un patto con le parole, cingendosi. Tenere a qualcuno significa stringersi. Cos’altro può rallentare la lontananza? Quell’attimo estremo nel quale guardare in faccia la pagina bianca, chiedendone ragione all’altro. Si scrive nel silenzio, nell’imbarazzo più acuto: in un solfeggio sotterraneo. Lasciandosi andare. Seri, soli, con le dita sfuggenti.
Ci si scrive per avere un alibi. Per dire a qualcuno che esistiamo e malvolentieri esitiamo. Dire, nell’intimità, un andirivieni di cose. Dei pensieri. Delle preoccupazioni. Speranze. Singulti. Finzioni.
Quell’altro che ci aspetta, attende forse di noi. Foss’anche un’illusione, resta pur un tentativo. Scriversi parole che si guardano al cospetto del cielo. Dire verbi poetici. Visioni ingombranti. Eccentriche confidenze. Insomma, dare forma al nostro cuore. E quell’altro, che saprà di noi? Perché confidarsi l’inconfessabile, è come stare in un confessionale. Non visto, ma ascoltato.
I poeti si scrivono, dunque. Quando è possibile avviene l’incontro: un volersi bene sotto forma di espressioni e simboli; allegorie, metafore, allusioni. I poeti si spiano, nel bagliore di quell’attimo che va assolutamente colto. Eternano fuochi. Sciamano illusioni.
Come per un bisogno improvviso, occorre dare attenzione a quell’altro del quale non si sapeva alcunché. Più che dare, darsi. Offrirsi. Sdoganare il vizio. Perciò si scrivono assoluti, assonanze verbali, rispondenze. Non ci si cerca per errore. Si dà credito a un amore. Qualsiasi-esso-sia. Un qualcosa che già domani finirà. Non importa. Ai poeti interessa l’ora. Un “adesso” colmo. Colmare la distanza, per vivificare un’urgenza.
Ci si scrive quindi per un bisogno innato e per infinite ragioni. Per restare meno soli. Come ad attendere qualcuno che ci possa venire a trovare. Incontrarsi a mezza pagina, scambiarsi quel sussulto che nessuno potrà mai immaginare. Nella bianca intimità del foglio, in questa neve macchiata dalle parole, qualcuno si riconosce amato. Allora è lì che avviene un primo incontro. Gli altri, i venturi, come grappoli vogliono esser colti, staccati. Ci si mangia per amore. Ci si scrive per attenuare un dolore. Per quella ferita infinita che mai ci lascerà.
Scrivere, appunto, della ferita. Recitarne i margini a memoria. Dipanare la propria storia che brucia. Accarezzare con un velo l’acuto dolore. Che da grido possa diventare speranza, magnifico stupore. Scrivere di noi, senza nemmeno avere il tempo per pensare. Come quando si parla a un amico. Ma è differente, come meglio spiegare…
Ci si scrive per azzannarsi a vicenda, per oltrepassare il limite, e andare oltre ogni possibile pudore. Volere il bene dell’altro buttando benzina sul fuoco. Aggiogarsi all’inferno. Vicendevolmente abbracciarlo. Perciò, sfogarsi l’un l’altro. Stringersi, come quando si fa l’amore. Donare a qualcuno tutto questo. A quell’estraneo pieno di confidenze ridire una volta ancora dove vogliamo andare, in quale direzione puntare. Seguire insieme la mistica scia dell’estasi. Quasi a prendersi per mano. Ritrovare un gesto ormai sconosciuto. Tendere alla tenerezza.
I poeti lo sanno. Per questo si scannano, si annientano fino all’ultimo respiro, scrivendo lettere. All’amata che mai sarà. Al fior fiore degli anni. A quello specchio maledetto che assomiglia tanto al ghiaccio. Lì, rivedono se stessi, incontrano sempre l’ignoto, giocano a dadi col destino prima dell’ultima fatale estrema parola. Parolieri di professione, maschere da demolire, rincorrono sfumature e frastagli. Ricamano, come un’antica signora, quell’orlo d’argento che la futura sposa porterà con orgoglio al petto. Con dispetto, insinueranno tentazioni nell’animo umano.
Giorgio Anelli