“La morte non esiste”. Jack London, vagabondo delle stelle
Libri
Nicolò Bindi
L’Eden esiste: è in questo tempo, dietro l’armadio oceanico, “tra la Guiana esterna e l’alto Orinoco”. I protagonisti sono gli indios Piaroa, “piccoli ma ben costruiti”, dagli “occhi a mandorla e molto dolci”. Nudi, alieni ai contorti benefici della tecnica, costruiscono vaste capanne, per lo più spoglie: sanno vivere di nulla. Più che la povertà materiale, tuttavia, è la disciplina morale a sorprendere, una sorta di equatoriale candore:
“I Piaroa non uccidono e non fanno la guerra; nessuna reminiscenza guerresca affiora nelle loro leggende. Essi non lottano, non rubano, non mentiscono, non litigano. Nell’organismo sociale da essi composto non si notano né diseguaglianze né privilegi. Non esistono tribunali né giudici: l’autogoverno ed il giudizio della coscienza (operante fino a determinare il suicidio) sono la sola legge Piaroa… L’assenza di moti violenti è il fattore che tonalizza l’intera struttura della società di questi miti indios del Venezuela”.
L’etica Piaroa – il sistema della “vergogna” rende inique le leggi – capovolge la millenaria sequenza di pensieri che da Confucio a Machiavelli, dal Signore di Shang a Thomas Hobbes catechizza l’uomo, malvagio per natura, caduto dunque propenso al male, alla latrina del sopruso e della sopraffazione. Può esistere un uomo buono, in grado di deviare l’ira verso il prossimo nella lotta con se stesso?, si domandava Elias Canetti, passeggiando per Vienna, al braccio di Hermann Broch. I Piaroa paiono aver costituito una società dei “buoni”, di pari, alieni al livore, alla presunzione, all’invidia. Così ne scrive Giorgio Costanzo, antropologo, in un libro delizioso, Poesie degli indios Piaroa (Scheiwiller, 1959; il primo bagliore di una serie di studi: Gli indiani dell’Orinoco, Cappelli, 1964, e I Piaroa, Pacini, 1977, ad esempio):
“Tale tratto dominante (la non-violenza) appare non solo in tutte le articolazioni culturali, ma anche nei minimi atteggiamenti esteriori, nel cosiddetto ‘modo di fare’ dei Piaroa. I Piaroa hanno ‘stile’. Camminano con passo elegante e morbido, parlano poco ed a bassissima voce, non gesticolano mai, non manifestano reazioni di meraviglia, di sorpresa, di paura, dominano ogni impulso emotivo e non cadono in abbandoni grossolani”.
La costante “amabilità” dei Piaroa, la loro “gentilezza”, cela un “profondo egocentrismo”, la corrusca nobiltà della solitudine: si è buoni, chissà, per non avere problemi con gli altri, solidali a sé, ad ammaestrare la propria mania. Fosse un escamotage, la bontà, un bonus, sarebbe ancora più affascinante la prodiga mente dei Piaroa, equilibristi dell’ego, all’inseguimento dell’io tra le foreste dell’Orinoco, apparentati alla latitanza.
Le poesie raccolte da Costanzo, appunto, hanno un’azzurrità edenica, il tono della pittura improvvisa. Eccone una:
Se tu mi guardi
sono come la farfalla
rossa;
se mi parli
sono come il cane che ascolta.Se m’ami
sono il fiore che si scalda
tra i tuoi capelli.Se mi respingi
sono come una canoa
vuota
che va sul fiume
e il sasso la spezza.
Certi canti, che riguardano sempre un ‘io’, riferiscono la vecchiaia, il profilo della morte, con severa serenità:
Com’è bella la danza dei ragazzi!
Io, vecchio,
danzo nell’amaca:
i miei piedi sono freddi.Lontano nella selva,
presso la grande Pietra Nera,
solo la tigre li scalderà
col suo fiato.
Quando sarò morto
voglio danzare con piedi di bimbo
davanti alla lunaquando la pioggia farà lucenti
le pietre.
Altrove, incombono barlumi profetici, nitidi:
Un giorno
la luna si fermerà nel cielo.
I fiori saranno freddi e duri,
nella selva
solo le pietre cresceranno.
Allora
la grande Pietra Nera
sarà tutto:
schiaccerà la capanna
e tutta la gente Piaroa.
Chissà se la traduzione è bugiarda. La lunare leggerezza di questi versi ricorda quelli, quasi analoghi, dei vagabondi taoisti di epoca Tang; forse esiste una Provenza in Amazzonia, il canto spassionato dei trovatori ha attecchito fin lì.
Pubblicato da Scheiwiller con il marchio “All’insegna del pesce d’oro”, Poesie degli indios Piaroa, di per sé, è l’idolo di un’editoria edenica, selvaggia, creativa, inattuale, fieramente inutile. Il libro, dal formato microscopico – 42 pagine, sta in un palmo di mano – fa parte della “Serie Oltremare” curata da Giacomo Prampolini, erudito, poliglotta – ha tradotto dal tedesco all’inglese allo scandinavo, da Knut Hamsun alle Novissime avventure di Sherlock Holmes, da Pär Lagerkvist a Keats –, con una concezione universale, corsara della letteratura. L’impresa nasce all’ombra di Ezra Pound, che elabora una nota alla “leggenda africana” curata da Leo Frobenius (Il liuto di Gassire, 1961), cura le poesie di Kabir (1966), pubblica un dramma del teatro Nō giapponese (Kagekiyo, 1958), affida al genero, Boris De Rachewiltz, egittologo, una selezione delle Massime degli antichi Egiziani (1959). Il criterio della collana, ad ogni modo, è l’insolito, l’inconsueto, un autentico repertorio delle meraviglie che svaria tra i Proverbi cinesi (1959) e i Proverbi coreani (1962), i Canti del Dalai Lama (1959) e i Canti degli Araucani (1966), i Canti di Geishe (1969), le Strofe del Vietnam (1956), i Canti d’amore e di lavoro dei negri d’America (1966; chi lo pubblicherebbe oggi?). Schegge liriche da conficcarsi in gola, sconfiggendo l’arsura culturale.
Il capriccio sovrasta il catalogo, il genio estemporaneo è prediletto alla logica del best-seller, il vagabondaggio alla stasi di redazione, la spregiudicatezza vince sul giudizio ben temperato: Scheiwiller brandiva un’idea editoriale avventata, avventuriera, qui. Si percepiva già la fine di un mondo, l’ipocrisia culturale dilagante, forse: la salvezza – o quasi – stava nell’esplorare mondi ignoti, nell’avviarsi presso culture inascoltate e forse inospitali, nel migrare dando canto alle pietre.