Camera d’albergo, luogo di provincia, ai confini del comprensibile. Passo l’ultimo dell’anno con un libro abbacinante. Questa camera, anonima per virtù, diventa una tenda mongola, un bosco bianco, una cella, scoscesa sull’imprevisto.
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A un certo punto della sua vita, Piero Scanziani decide di andare a caccia di Dio. Di ogni Dio. Ascolta, appunta, morde. Con una apertura mentale – cioè: una fame – commovente, propria di un uomo risoluto, risolto. Fa l’agguato a Dio, questo scrittore svizzero in lingua italiana, giornalista di talento, candidato da Mircea Eliade, per due volte, nel 1986 e nel 1987 al Nobel per la letteratura. Spesso, viaggia nell’assoluta insussistenza, dando fede al caso, ricavando i denari dagli austeri direttori dei giornali per cui lavora, in ostaggio dalla lingua incantata di questo cercatore. Nel 1969 Pier Scanziani raccoglie il registro dei suoi viaggi in un libro, Entronauti, straordinario: creatura anomala nel nostro ‘canone’, allo stesso tempo racconto d’avventura, esplorazione teologica, enciclopedismo divino, sfacciataggine. Non c’è cipria intellettuale nel libro di Scanziani, ma l’arte rigorosa del narrare. Per chi è creatura in cerca – ma chi non cerca, in inquietudine d’incanto, che vive a fare? – Entronauti è un manuale decisivo, totale. ‘Entronauti’ è una parola intuita da Scanziani: se i cosmonauti esplorano i recessi delle galassie, lo scrittore precipita nei mondi che vivono dentro il cuore dell’uomo.
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Il primo viaggio di Scanziani: in India. “Non incontro la saggezza, incontro la fame. La fame degli uomini, la fame degli animali, le loro magrezze… Bisogna trovare il coraggio di fissarla”. Scanziani non ha l’ansia dell’esegeta, non possiede il fanatismo dell’entusiasta. Sa – cosa rarissima – il proprio ruolo: è uno che passeggia tra le anime, uno che bordeggia la verità. Di Dio vuole perimetrare la schiena – per Lui non lascerà tutto. In India scorge un eremita, “vincitore dell’Himalaya… Lo guardo e mi domando come ha potuto sopravvivere per decenni a simile altitudine, sopravvivere alle nevi, alle bufere invernali, senza, una stoffa, senza una casa”; scopre Aurobindo, è affascinato dalla dolcezza del suo pensiero, a cui dedica una biografia efficace, nel 1973. Apprezza, ama, non cede – Scanziani resta un uomo d’Occidente, sorretto da una radiosa inquietudine. Lui la dice così: “Ulisse inquieto, l’uomo è andato da per tutto: montagne oceani poli equatori, sotto terra, sott’acqua, nei cieli, nel cosmo”.
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Scanziani scandisce la critica radicale alla modestia dell’uomo occidentale, più che all’Occidente. “L’India venera i suoi grandi, noi no. Qui la capacità di devozione è immensa, da noi è immensa la brutalità. Abbiamo costretto Shakespeare a chiedere merci, Milton a vendere il suo poema per qualche sterlina, abbiamo ridotto Tasso in cenci, Verlaine alla mendicità, Cervantes in schiavitù, Dante in esilio, Rembrandt alla disperazione… abbiamo buttato i corpi di Mozart e di Leopardi nelle fosse comuni e non li abbiamo più ritrovati”. I soldi, quintessenza occidentale, misurano l’impotenza del talento: “Uomini e donne intelligenti, capaci, industriosi, faticano a campare, s’indebitano, muoiono poveri e sfiniti… Come mai le migliori doti, le più pratiche, spesso non portano al denaro? Forse il denaro ha delle preferenze, forse è attratto dagli sciocchi e respinto dagli intelligenti”.
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Negli Stati Uniti incontra gli scienziati convogliati in California (“Colti, enciclopedici, molte lingue, molto interessanti… ma niente saggezza. La saggezza è un’altra cosa. Non è sapere, è conoscere”), in Inghilterra incontra una sensitiva, Maggie (“Cambiare destino, trovare l’abbondanza. Tutti vogliamo l’abbondanza… Come mai ci manca? Come mai ci mancano i soldi, la salute, l’amore, la fortuna. Gli è che ci manca la certezza. Anzi, abbiamo la paura”), in Persia incontra i sufi (“Folli di Dio e spregiatori del mondo, di cui non cercano la gloria, anzi il disprezzo”). Scanziani non ha velleità da convertito, esprime le nostre pulsioni terrene, ha una costanza d’ascolto impressionante: perché sono in questo precipitare senza appigli? Ogni grido ci pare vangelo, ogni richiesta una condanna senza appello.
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In Giappone riesce a scorgere Morihei Ueshiba, mitico fondatore dell’Aikido, un vecchio, che gli mostra i prodigi della sua arte sbaragliando orde di allievi agguerriti: “Ha finito, mi guarda. Grandi occhi luminosi, nuovamente turchini. S’inchina e se ne va, lasciandomi una verità essenziale: anche la forza fisica ci viene dall’uomo interiore”. In India ritorna per una esperienza di eremitaggio che lo distoglie da tutto, distruggendolo. L’ultimo viaggio di Scanziani, il giornalista scalzo, lo scrittore in bilico sulle grandi fedi, che ha setacciato i maestri in ogni angolo del globo, è all’Athos, dove Dio, il carnivoro, chiede tutto dell’uomo, dove il mondo si erige sulla spina dorsale di una preghiera, sullo stile di una rinuncia. “Vado all’Athos perché non posso farne a meno: vi sono spinto. La vita m’ha sempre spinto: non ho scelto, ho dovuto”.
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Scanziani si erge sull’Athos dopo il viaggio in India, lo scontro con l’Europa, ciclope scatenato, famelico. “Non mi riusciva più di leggere i giornali, d’ascoltare la radio, di guardare la televisione, d’assistere a uno spettacolo… Città di paure: atomica, insurrezione, cancro, scontri, assassini, tutto illustrato, ripetuto giorno su giorno, fino a ridurti atterrito tra atterriti. Città di violenze: automobili aggressive, pedoni imprecatori, lotte a coltello per un posto, odii implacabili fra individui e gruppi e, per svagarsi, la sparatoria omicida del cinema o l’urlo atroce dello stadio. Città di furori satirici: nudità femminili da per tutto, donne perpetuamente in fregola, uomini in permanente libidine, inversioni esibite, manie propagandate, sesso onnipresente onnipotente obnubilante. In tale cosmo di vibrazioni frenetiche, ho perduto ogni mio bene: la serenità, la presenza, la gioia”.
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Come il pellegrino russo, spoglio di tutto, custodendo l’inquietudine in un’ampolla, Scanziani scala l’Athos. Un uomo, Macario, vive su un albero, “non sempre scende, non sempre parla, spesso canta, talvolta scompare. Le bestie gli stanno attorno, senza timori”. Prega incessantemente, pratica la contemplazione, non mendica, ha fatto l’Eden del suo corpo, purezza della corruzione. Poi incontra l’altro, Nicodemo, che ha una cella a strapiombo sul mare, ci giunge con una carrucola. Per mangiare si affida agli elementi, a ciò che gli offre la provvidenza. “Gli domando: ‘Aspetti la morte?’. ‘La morte? La morte non c’è’”. Non c’è altro da dire, eccola la rivelazione ultima. “Alzo lo sguardo verso una stella. Forse anch’essa è morta, da milioni di anni. Ma la sua luce no, cammina eternamente nello spazio e il nostro occhio l’incontra, viva. La stella non è morta e nulla muore: ciò che muore, cade nella vita”.
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Salutare, miracoloso, avventuriero, Entronauti. Questo non è un libro, è uno scandaglio. Fino a che punto della notte riesci ad arrivare? Che cosa sei disposto a dissipare nella ricerca spirituale? Scanziani squarcia ogni certezza: lo leggi – leggetelo, che li ristampino i suoi libri, di intelligenza ruvida, al contrario dell’imperante grigiore – e devi metterti in viaggio. (d.b.)