15 Luglio 2022

“Che ogni cittadino sia un soldato”. L’educazione secondo Lawrence (in memoria di Lorenzo Scandroglio)

Tra ascesi e ascensione. Così ha vissuto Lorenzo Scandroglio. Verificò la poesia, connaturata agli scalatori dello spirito, ad alta quota, in un travaso di vertigini. Dalle plaquette stampate con Lietocolle ai rifugi sul Veglia esiste una continuità fisiologica: si marcia secondo una grammatica, il corpo è verbo, il passo un distico. Essendo poeta, Scandroglio non aveva l’ossessione di pubblicare: ha pubblicato, in effetti, pochissimo, fascicoli dispersi, spesso introvabili. Un pudore – o meglio: la spudoratezza della gioia – lo frenava. La letteratura, per così dire, era il suo campo base, ben piantonata nel sangue: se ne è occupato sui giornali, declinata al regno montano, con costanza lombarda – su “il Giornale”, di cui in rete è reperibile un vasto repertorio di articoli; su “Alp” –, ha tradotto, ha amato, ha scritto, ha fondato un “Festival di letteratura di montagna, viaggio, avventura”, LetterAltura. La poesia lo ha scagliato sulle vette, o meglio, ha capito, Lorenzo, che la poesia è lassù, tra pastoie stellari: il resto è la tratta degli aggettivi, mero mercimonio, battage dell’ego.

Oh, no, era troppo vivo, Lorenzo, per spacciare una qualche nozione di virilità morale: conosceva l’uomo e le sue trattative, ti voleva bene, in quell’ora, come se non esistesse altro, intorno, con l’ardore delle bestie sane, cauterizzate da passione e indifferenza. Il suo lamento sulla montagna, rapinata dal turismo indiscriminato, criminale, pacchiano, continuò per anni, è lotta antica. Ci sono luoghi che sbocciano al sussurro, alla discrezione del segreto, in cui bisogna entrare in punta di piedi; ci sono luoghi di cui dobbiamo ammirare la soglia, altrimenti, invadendoli, rischiamo di dissacrarli. Questo vale anche per gli uomini – Lorenzo era così svelato, così tutto, da essere impermeabile alle indagini, perfino quelle più affettuose. Era coraggioso – disciplina che non si impara – e immaginava l’amicizia come un cenacolo; di lui non si può dire se non nel sole. “Per natura aristocratico, si era ritirato in altura predisponendo per sé il capanno dove rifugiarsi quando la civiltà sarebbe crollata”, ha scritto di lui Angelo Crespi, amico e sodale.

Nello zaino custodiva una borraccia d’acqua e un libro, sempre, perché della stessa sete si tratta. È vero: amava Walt Whitman e Ernst Jünger, che citava con smodata agilità, leggeva Giuseppe Tucci, Bruce Chatwin, e mi ha svelato il Rainer Maria Rilke tradotto da Franco Rella, un giorno, all’Alpe Devero (imparare la poesia da Lorenzo era andare carponi, nell’erba, usare i bastoni, conoscere gli alberi, sporcarsi le mani). Sapeva dimenticare. L’affinità più proficua, una fratellanza, quasi, era però con David Herbert Lawrence. Ne replicò, per dire, perfino le sembianze: basso, occhi vaghi e scaltri, barba breve, rossiccia, corpo atletico, anima del tutto erotica. Lorenzo Scandroglio diventò D.H. Lawrence, incarnandone le trasgressioni, la critica alla modernità, diabolica, l’anelito all’uomo primo, pronto al rischio e mai prono al marchingegno di una vita burocratica, che destina l’avventatezza all’industria del ‘tempo libero’, una prigionia. Scandroglio ha tradotto molto Lawrence, spesso per sé, o disseminando i suoi lavori in diverse riviste: riteneva l’attività del “Lawrence politico e moralista culturale” non meno importante di quella del narratore (che io non riuscivo ad amare). In particolare, vent’anni fa, nel dicembre del 2002, in uno dei primi numeri de “il Domenicale”, Scandroglio traduce come L’educazione del popolo uno dei testi più provocatori del romanziere inglese. Letto oggi, poi, quel testo serba un’esuberanza antimoderna, profetica: si parla dell’educazione come “ufficio religioso”, dell’insegnante come “maestro di vita”, della scuola come lotta, perfezionamento interiore, incessante, singolare, marziale. L’articolo, all’epoca, era completato da un ritratto di Lawrence, realizzato da Marco Carnà, un grande artista.

Il testo, a un anno dalla morte di Lorenzo Scandroglio, è recuperato da De Piante Editore con il titolo La guerra come scuola, e una postfazione di Angelo Crespi (che de “il Domenicale” è stato direttore). Si riproduce anche il testo introduttivo di Scandroglio, che spiega in che misura

“Lawrence riesce a mettere a nudo le cause profonde di quel malessere che sarebbe debordato nelle nevrosi di massa, nella riduzione dell’eros a pornografia, nel cinismo mercantile, nell’omologazione politico-culturale, nella deresponsabilizzazione dell’individuo”.

Come norma, sorridendo, Scandroglio non scherzava. La lirica conserva altari e ghigliottine. I poeti sono necessari all’ascesi, ed è conforto leggerli sulla cima, sbandierandoli come una preghiera. Ma all’ascesi fa seguito la discesa: qui occorre l’incendio, il cuore vasto, parole che sappiano l’offerta e l’affronto.

Ciao, Lorenzo.

*

La lotta

Che cos’è la lotta? È qualcosa di fisico e originario. Niente a che vedere con quel terribile processo ideale della nostra ultima guerra. Non è l’orrenda e blasfema traduzione delle idee nei motori e degli uomini in carne da macello per cannoni. Basta con questo tipo di guerra! Mille volte basta a queste oscenità! Estirpate dall’umanità desideri di questo tipo! Ma lasciateci la guerra vera, la lotta vera. E che cos’è la lotta vera? È un puro conflitto di uomini fisici: tutto qua, non c’è niente di meglio. Cosa importa della morte, se l’uomo muore nella vampa di un appassionato conflitto? Egli andrà in cielo, come dicevano gli antichi: in qualche modo, in qualche luogo, la sua anima riposerà perché la morte per lui non è stata che un passionale compimento.

Niente a che vedere con l’orribile e mostruosa perversione di una guerra in cui vi può capitare di saltare in aria maciullati mentre mangiate una sardina. Quando invece l’anima sceglie il proprio compimento gettandosi con fierezza fra le braccia della morte, nulla va perduto. Ma la nostra carne da macello per cannoni! Dobbiamo far di tutto per porvi fine.

La morte è gloriosa. Ma saltare in aria a causa di una macchina è puro orrore. Se la morte deve proprio essere violenta, che giunga almeno al culmine e al compimento di una grande passione, allora tutto andrà bene per l’anima di chi muore.

L’anima umana è davvero capace di onore, sempre che le sia data una reale possibilità di scelta. Ma quando la scelta verte soltanto su una guerra di strumenti esplosivi e gas velenosi da una parte, ed una pace universale che regge per lo più su una degradante competizione commerciale e industriale dall’altra, credetemi, l’anima umana alla lunga sceglierà la guerra, inevitabilmente; se fosse così ci sarebbe almeno la remota speranza che questa fetida umanità basata sulla competizione industriale venga distrutta completamente.

L’uomo deve potersi scegliere il conflitto. Ma poiché è un bilioso idealista patologico, gli deve essere tolta la possibilità di usare bombe, gas velenosi e Big Berthas. Bisogna assolutamente privarlo di quella possibilità. Trasformiamo piuttosto i nostri saldatori in spade, se proprio vogliamo. Ma buttiamo via definitivamente tutte le pistole, tutti gli esplosivi e i gas velenosi. Spareremo a tutti coloro che producono anche solo un granello di polvere da sparo utilizzando la loro stessa polvere. […]

È l’unica soluzione. Fondere tutte le armi esistenti. Distruggere tutti gli esplosivi, salvo quelli che potrebbero servire per le cave e le miniere. Privarsi di tutte le armi da fuoco più grandi di una pistola a canna unica – la quale potrà essere tenuta ancora per un anno – che si trovano in Inghilterra. In capo a un anno tutte le armi da fuoco saranno sparite.

E il mondo rinascerebbe all’improvviso. Quindi fatelo. Non serviranno a nulla tutte le vostre chiacchiere, i vostri incontri, le vostre discussioni e i vostri accordi internazionali. La Società delle Nazioni è tutta una marmellata di mirtilli. Anzi una schifezza, e voi lo sapete. Gettate nel fuoco le vostre armi e bittate a mare gli esplosivi, e avrete fatto la vostra parte per la società delle Nazioni.

Ma non illudetevi di cancellare per sempre le guerre. Se proprio dovete, mandate i vostri soldati in Irlanda armati di spade e scudi, ma senza macchine da guerra. State certi che gli irlandesi usciranno allo scoperto altrettanto armati di spade e scudi, eccome se lo faranno. Al che scoppierà una di quelle rare, antiche battaglie furibonde che accendono il cuore. Ma nel nome della saggezza umana, non puntate mai più i cannoni, mai più.

Poi quando tutte le armi da fuoco saranno eliminate – il che potrebbe avvenire già prima di Natale – inserite nelle scuole un programma adeguato di addestramento marziale. Fate in modo che ogni ragazzo, ogni cittadino, sia un soldato, un combattente. Consentitegli di possedere una spada, una lancia e uno scudo, e fate in modo che sappia come usarli e che sia anche determinato a farlo.

D’altronde in cosa consiste la vita? Sicuramente non nell’essere un piccolo mostro ideale, un superman. Consiste semmai nel rimanere nei limiti del proprio involucro corporeo, nel vivere al loro interno, non nel pretendere di oltrepassare quei limiti. Quindi se dovete andare in guerra, andateci nel vostro involucro. Non trasformatevi in un osceno mostro ideale, non inventate macchine da guerra che faranno saltare in aria un nemico ideale che non avete mai guardato negli occhi, e che probabilmente non guarderete mai. È un’odiosa e rivolante follia.

David Herbert Lawrence

*Si riproduce per gentile concessione la porzione di un capitolo del libro di David Herbert Lawrence, “La guerra come scuola”, De Piante, 2022

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